Lenù avrebbe voluto che rimanessero più a lungo. Fosse dipeso da lei, avrebbe tenuto Fanny con sé tutto il giorno o tutta la vita. Quando le fu chiaro che non era possibile, le diede un numero di telefono. Era della casa di certi cugini di Acerra, che avrebbero ospitato lei e Peppino per qualche tempo.
«Ci troverai lì, ci troverai sempre. Siamo la tua famiglia.»
Fanny sprofondò nell’abbraccio materno di quella sconosciuta. All’inizio i suoi muscoli e il suo cuore fecero resistenza, ma dopo un poco si lasciò andare. Gli occhi di Lenù erano gli occhi buoni di una bambina triste. Le promise che l’avrebbe chiamata.
Quando uscì dal teatro Instabile, notò subito qualcosa di strano. Luce naturale. Era da così tanto che non la vedeva che ne fu abbagliata. Strizzò gli occhi, guardò il cielo. Si aspettava di trovarlo sgombro di nuvole, di scoprire il sole per la prima volta da settimane, ma si sbagliava. Nembi muscolosi soffocavano come sempre la città, e un vento fortissimo soffiava per i vicoli, riducendo tutto a uno sbattere e turbinare e mulinare. Da dove veniva quella luce insolita, che sembrava composta di pulviscoli dorati?
Era il vento, le spiegò il signor Marone, mentre percorrevano il colonnato di via dei Tribunali, era lo scirocco che portava la sabbia del deserto.
«Quale deserto?» domandò Fanny.
«Dall’altra parte del mare.»
Rallentò fino a fermarsi. Era stordita, perdeva forze a ogni passo. Si chiese se non fosse tutto un sogno bizzarro. Si sarebbe svegliata, l’indomani mattina, nel suo letto, e Dora e Gennaro sarebbero stati i soli genitori che avesse mai avuto.
«Dove andiamo?»
«Torniamo al negozio, lazzarona.»
«E l’assessore? Dobbiamo andare da lui.»
«No!» L’antiquario si fermò di colpo. «Chiamerò l’avvocato, ci penserà lui a togliere Tommaso dai guai.»
«Ma io devo parlare...»
«Tu non devi fare niente.»
Aveva alzato la voce, ma non era arrabbiato. La guardò a lungo e a fondo con i suoi occhi colmi di mare. Era in pena per lei.
«Non voglio che ti avvicini a quell’uomo, è chiaro? Risolveremo questa faccenda, ma tu non devi più correre rischi.»
«Di che rischi parlate?» Strascicava le parole.
L’antiquario non rispose, ma Fanny sentiva perfettamente i suoi pensieri, perché all’improvviso il velo che la separava dal resto del mondo si era fatto sottilissimo, e le sembrava di essere ovunque, nell’acqua che zampillava dalla canna di una fontana, nella colonna dorica in un angolo della strada, nel vento di sabbia, nella mente dell’antiquario. E sapeva che anche lui si stava facendo quella domanda: Addó sta Cristiano?
«Promettimi che non farai niente.»
Fanny sentì tutti i muscoli del corpo contrarsi. Uno spasmo di ribellione.
«Promettimelo.»
«Prometto», disse lei. Strinse la chiave e la moneta.
Ripresero a camminare, lei gli stava vicino, lui era l’unica cosa reale. Il resto del mondo vibrava instabile dinanzi ai suoi occhi stanchi. Un palcoscenico, sì, sembrava un palcoscenico. E la storia di Lenù le scorreva davanti, le scorreva dentro, anche le parti non raccontate. S’infilavano negli spazi vuoti, trasformavano quelli pieni. Ricordi che si sovrascrivevano ad altri ricordi. Amelia e Cristiano prendevano un caffè in quel bar: pagava lei, aveva perso una scommessa. Seduti su quella panchina, una sera di primavera, ad ascoltare un uomo senza gambe suonare un violino. Ubriachi, camminavano senza vedere dove andassero, staccando i manifesti di uno spettacolo che faceva concorrenza al teatro Instabile. Lui la prendeva sempre in giro, perché lei si prendeva troppo sul serio. Si amavano? Si amavano. Questa era la consolazione. Fanny non era figlia del niente. Era figlia di un amore.
Ma qualcosa ancora sfuggiva... Un fantasma che bussa alla porta e non dà risposte.
Addó sta Cristiano?
La vista si offuscò, i pensieri corsero ad Augusto d’Avalos, a quell’olezzo di putrefazione che gli stava incollato addosso. Non c’era acqua che potesse ripulirlo, profumo che potesse nascondere la sua vera natura.
Io so chi sei, io so chi sei, io so chi sei.
Erano arrivati da qualche parte. Fanny si chiese dove. Scaffali, vecchi oggetti, polvere, scale...
C’era una volta. Sono da C’era una volta. C’era una volta... ma ormai non c’è più.
Salirono al piano superiore, lei si tenne salda al corrimano. Il signor Marone si precipitò a telefonare all’avvocato. Fanny sentì le sue parole, l’urgenza nella sua voce mentre raccontava di un bambino fuggito da una casa famiglia, apparso un giorno nell’interrato del suo negozio come un piccolo munaciello che rubava acqua e cibo, e che lui aveva scoperto, e poi protetto e nascosto, per amore di sua moglie, perché era lei che quel bambino cercava, ma lei non c’era già più.
Fanny colse quelle parole, ma un attimo dopo le sfuggirono. Si domandò se non arrivasse per tutti il momento di svelare la parte segreta della propria storia, quella che non si vorrebbe mai dire a nessuno. Per liberarsi dai fantasmi del passato e tornare a vivere nel presente, per essere perdonati e per perdonarsi.
Dov’era lei in quel momento? Fissava il soffitto color panna, seduta sulla poltrona a fiori. Come ci era finita lì? Era scomoda, non si era tolta il parka, né lo zaino. Si mosse, delle carte scricchiolarono sotto la schiena. Una lettera. Provò a leggerla. Come le parole del signor Marone sfuggivano al suo orecchio così quelle scritte sfumavano sotto i suoi occhi.
Biblioteca Vaticana, Caro Paolo, mando pagine trascritte, per amicizia, De Cantu Sirenarum, codice VI secolo, autore incerto, opera da alcuni attribuita a Virgilio, descrizione di un rito pagano, raccomando massima discrezione. Ad accompagnare la lettera, un fascio di fogli con un testo in latino.
Udì il familiare scampanellio di C’era una volta. Era entrato qualcuno? Non le importava, ai clienti avrebbe pensato l’antiquario. Si concentrò su quelle pagine. Virgilio. Il poeta, il mago dai mille incanti, l’uovo magico sospeso in una camera segreta, l’uovo che non doveva rompersi o Napoli sarebbe stata presa dal mare.
Di nuovo, il tintinnio degli scacciaspiriti. Ma l’antiquario dov’era, perché non scendeva a vedere?
De Cantu Sirenarum. Il canto delle sirene. Di cosa parlava?
Fanny non riusciva a concentrarsi, con tutti quei trilli e tintinnii. Allora scese nel negozio, per scoprire chi fosse quel visitatore insistente. Lo sentì prima ancora di vederlo.
Il mare. L’aspettava di sotto, oscuro e paziente, borbottando come una creatura viva. Appena Fanny mosse un passo, l’acqua si ritirò un po’, come fa la marea quando si abbassa, o i gatti quando si sottraggono alle carezze solo per essere inseguiti. Un altro passo e il mare si allontanò ancora, e ancora, finché Fanny percorse tutto il negozio e si ritrovò sulla strada dell’Anticaglia. Il mare era in attesa. Voleva che lo seguisse.
E va bene, disse al mare, vengo.
Si sentì trafiggere dalla sabbia di un deserto lontanissimo. Ma quella sera tutto era sottile, tutto era vicino, e lei era ovunque. Nel presente, nel passato, nella realtà, nei sogni, nella sua città, in una terra al di là del mare, nel mare stesso.