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La stanza della questura era cupa e asettica. Un tavolo di legno graffiato, una manciata di sedie, il quadro di una tempesta. Il ragazzo, muto e immobile, sembrava parte del mobilio. Non aveva documenti, non sapevano neppure se fosse maggiorenne. Ma il suo nome – se era il suo nome – era scritto su un bloc-notes che gli avevano trovato addosso: praticamente, una confessione scritta.

L’assessore d’Avalos era seduto di fronte a lui. Tommaso fissava ostinatamente il pavimento, non parlava, non si muoveva. Nemmeno un respiro, non una tensione irriflessa dei muscoli.

«Tommaso, lo so che mi capisci.»

Tentò di usare un tono accomodante. Eppure, trovava difficile trattenere le vibrazioni nervose in una voce che avrebbe voluto esprimere ben altri pensieri.

«La mia visita non è ufficiale e quello che dirai resterà tra me e te. Considerami tuo amico, Tommaso. Io non credo che tu sia colpevole. Io credo che tu sia una vittima.»

Attese un cenno. Nulla.

L’assessore d’Avalos lanciò una rapida occhiata all’orologio da taschino. Sette e venticinque.

«Vorrei sapere chi sei, Tommaso. Vedi, se so chi sei, posso aiutarti. E capisci anche tu che hai bisogno di tutto il mio aiuto. Lo sai, vero? Lo sai il perché?»

Sfogliò il bloc-notes e si fermò a una pagina.

Entriamo in casa dell’assessore. Prendiamo la pietra. Ce ne andiamo.

Grattò quelle parole con le unghie. Cosa ne sapeva, quel figlio di cagna, cosa ne sapeva della pietra?

L’assessore affondò la mano nella tasca, e un’ondata di calore si propagò dai polpastrelli alla nuca.

«È stato il signor Marone a parlarti della pietra, è così? È stato lui a spingerti a entrare in casa mia, la notte di Capodanno?»

Cercò invano gli occhi del ragazzo. Il cappuccio della felpa, calato sulla fronte, proiettava sul mento un’ombra sinistra, trasformando il volto sfregiato in un ovale di tenebra.

L’assessore lanciò un altro sguardo all’orologio. Sette e ventotto.

«Bene, capisco. Non vuoi parlare di lui. Parliamo della ragazza, allora.»

Gli sembrò di notare un irrigidimento nel corpo di Tommaso, ma forse era solo un riflesso di quel che accadeva al suo corpo. L’assessore aveva crampi e spasmi nervosi, e faticava a contenerli.

«Parliamo della ragazza», ribadì.

La ragazza.

L’hanno abbandonata quattordici anni fa, nella Ruota della vergogna, all’Annunziata. Era il 21 dicembre.

Il 21 dicembre.

L’assessore sentì il suono di un ottavino. Rabbrividì a quelle note acute. Lasciò andare la pietra e il suono fu risucchiato dall’aria.

«Francesca Annunziata Esposito. So che è scappata di casa tre settimane fa. Ho parlato con i suoi genitori, sono molto in pena. Lo sapevi che era adottata?»

L’hanno abbandonata quattordici anni fa, nella Ruota della vergogna, all’Annunziata. Era il 21 dicembre.

Il 21 dicembre.

Tossì per coprire di nuovo quella dannata melodia che gli fischiava nelle orecchie. La memoria di quel giorno lo infestava.

Era andato a un concerto di beneficenza nel vecchio Tribunale. Ricordava il soffitto affrescato, l’ottavino che trillava un allegretto. Ma lui non ascoltava. Pensava ad Amelia, e quel pensiero lo tormentava. Da mesi sua moglie viveva rintanata in una camera buia, e se usciva lo faceva solo di notte, aggirandosi per casa come uno spettro che non trova pace. La gravidanza l’aveva resa folle, feroce, non si lasciava avvicinare.

Ma quella mattina, prima di andare in ufficio, l’aveva vista sul terrazzo.

Stava in piedi sul pozzo, sotto i rami del noce. Scalza, con il ventre gonfio sotto la camicia da notte, il volto nascosto da capelli che avevano perso lucentezza. Ansimava, come un animale.

Lui l’aveva raggiunta per portarla in casa. Ma quando lei si era voltata e gli aveva ficcato dentro uno sguardo di minaccia lui non aveva osato toccarla.

Cosa hai fatto? aveva ringhiato Amelia tra quei respiri profondi, guardando lui, guardando il pozzo.

Lei aveva capito. Ci aveva messo mesi, ma col suo fiuto da strega alla fine aveva capito.

Scendi. Le aveva detto. Fa freddo.

Cosa hai fatto?, mormorava lei senza fiato, Cosa hai fatto? Cosa hai fatto?

Si era avventato su di lei. L’aveva afferrata per trascinarla dentro. Ma Amelia aveva raccolto una pietra da terra e lo aveva colpito con rabbia.

Tenendosi l’orecchio ferito, pulsante, lui l’aveva lasciata andare.

Se scopro che la bambina non è mia vi ammazzo.

Quel pensiero da mesi gli avvelenava l’anima e finalmente glielo buttava addosso.

Ammazzo te. Ammazzo la bambina.

Tommaso si mosse sulla sedia, l’assessore scosse il capo e tornò al presente. Si sentiva soffocare.

Sfogliò il bloc-notes con le mani umidicce. Faticava a mettere a fuoco le lettere.

Sapete dove sta la Casa di Pietra?

Mostrò il foglio a Tommaso. Prima le foto del suo matrimonio. Poi la pietra. Adesso questo.

Si sentiva violato, profanato.

Cos’altro avevano cercato quei ragazzi? Cosa avevano trovato?

Ossa umane.

L’assessore allentò il colletto della camicia.

«Tommaso, ascoltami bene. Quello che hai fatto è molto grave, ma io sono una persona comprensiva. Sono disposto a perdonarti. Ritirerò la denuncia, dimenticherò questa storia, e tu e il signor Marone verrete lasciati in pace.»

Il mento di Tommaso all’improvviso non era più in ombra. Lo stava guardando, lo stava ascoltando.

«Basta che tu mi dica dov’è la ragazza.»

L’assessore si strofinò gli occhi: gli sembrava che il ragazzo sbiadisse nel buio. Da quante notti non dormiva? Non riusciva a ricordare. Guardò l’ora. Sette e trentatré.

«Se non vuoi o non sai parlare, va bene.» Gli porse il bloc-notes. «Scrivi pure.»

Gli tremavano le gambe; le accavallò per bloccare le contrazioni. Sbatté le palpebre.

Dannato ottavino. Quel suono fantasma continuava a perseguitarlo.

Il 21 dicembre.

Il concerto era iniziato da venti minuti quando qualcuno era venuto a chiamarlo. Una donna, abito verde e pendenti rossi: sembrava un albero di Natale.

C’è una telefonata urgente per lei, dall’ospedale Ascalesi. Si tratta di sua moglie.

Sua moglie. Si era alzato, era corso via. Quel che ricordava, subito dopo, era il rumore dei suoi passi tra le pareti dell’Ascalesi, e in sottofondo i lamenti di una vecchia paziente su una barella. Lo straccio sudicio passato in corridoio da un inserviente, odore di aceto e di piaghe. Le parole del medico.

Sua moglie è arrivata stamattina, accompagnata da un tassista. L’uomo la stava portando alla stazione ma lei era già in travaglio. La bambina è praticamente nata sul sedile posteriore dell’auto.

Il medico – verme inetto – aveva riso di quella storia. Mentre lui si era fermato, colto da vertigini.

Alla stazione?, si era sentito ripetere.

Aveva ripreso a camminare, il medico neppure si era reso conto di averlo perso laggiù, per un attimo.

Alla stazione, andava la strega.

La mano che stringeva la pietra si abbatté, violenta, sul tavolo. Tutto tremò, il tavolo, il blocchetto, la penna. Ma non Tommaso. Lui restò fermo come un blocco di tufo. Solo dopo qualche istante impugnò la penna e scrisse qualcosa. Quando ebbe finito lanciò il bloc-notes dritto tra le mani dell’assessore. Un disegno. Un pugno con un dito medio sollevato.

«Non un granché», disse l’assessore in tono neutro. «Ma dove andrai avrai tempo per esercitarti.»

Fece il suo sorriso da boia e si alzò. Sette e trentasette.

Bussò alla porta perché chi era di guardia aprisse. Camminò per i corridoi deserti della questura e si voltò con la sensazione di essere seguito. Le tenebre strusciavano alle sue spalle come un manto.

Santacroce lo aspettava fuori, nella piazza. Appena l’assessore si sedette nell’auto, mise in moto.

«Dove va, Santacroce?» domandò l’assessore.

«Al castello, assessore.»

«E chi le ha detto di andare al castello, Santacroce?»

Santacroce frenò al semaforo giallo, con cautela.

«Mancano venti minuti alla Grande Asta, assessore, e credevo che...»

«Non prenda iniziative, Santacroce. Mi chieda sempre dove vado.»

Gli occhi di Santacroce si fecero sottili, nello specchietto. Disse, come se stesse masticando cibo avariato: «Dove?»

«All’Ascalesi. E in fretta.»

Quando fu verde, Santacroce ripartì. Invece di svoltare verso il Municipio e il Castello Angioino, procedette in direzione di corso Umberto. Quasi alla fine del rettifilo, imboccò i vicoli che portavano al vecchio ospedale, dove l’assessore scese senza dire una parola.

Guardò l’edificio dall’esterno, soffermandosi sulla finestra del terzo piano. Le dita si serrarono intorno alla pietra e un bruciore gli attraversò le nocche. Era come se sanguinassero.

Il 21 dicembre.

La fine del corridoio, la sua stanza, il suo letto. Sua moglie è qui. Era ansioso di vederla, di cavarle di bocca la verità. Quella domanda – Che andavi a fare alla stazione? – già gli sfuggiva dalla gola quando si era reso conto che Amelia non era lì. Dov’è? Il medico non lo sapeva. Dov’è la bambina? Era andato a cercarla. Dove sono? Non c’erano, non erano da nessuna parte.

Il gelo, l’umiliazione, i sospetti che diventavano certezza. Si era appoggiato al muro, attorno a lui vuoto e subbuglio. Amelia era scappata con la bambina.

Di chi era quella bambina?

Mesi e mesi ad arrovellarsi con quella domanda, a ripensare a quella notte.

Amelia era da poco tornata da Torca, e da molto tempo non stava con lei. Dormivano perfino in stanze separate, lontane. Ma quella notte Amelia era entrata nel suo letto. Lui l’aveva abbracciata e baciata, acceso da antica passione. Mai più, aveva pensato con disperazione, mai più ti lascerò andare. Eppure fare l’amore con lei era stato come fare l’amore con un corpo morto, non fosse stato per le lacrime che le aveva sentito scorrere sulle guance.

Poi lei era rimasta incinta e non gli aveva più permesso di toccarla.

Di chi era quella bambina?

Il 21 dicembre.

Quel giorno aveva trovato una risposta. La rabbia era esplosa, aveva tirato un pugno contro la finestra e il vetro si era spaccato. Era corso via per i corridoi dell’Ascalesi con il sangue che sgocciolava dalle nocche...

Un fracasso del diavolo lo riportò al presente. Il vento aveva capovolto un bidone della spazzatura, bottiglie di vetro e lattine rotolavano in mezzo alla strada, sacchetti di plastica svolazzavano in mulinelli armoniosi. L’assessore ritrasse la mano dalla tasca. Il passato, come un mostro a più teste, lo stava sbranando e inghiottendo.

Guardò la strada che scendeva dall’Ascalesi e si biforcava in una foresta di palazzi. Via Annunziata da un lato, via Egiziaca a Forcella dall’altro. In mezzo, l’ospedale della Real Casa dell’Annunziata.

Quale strada hai scelto?

Con la gamba dolente, discese il vicolo che portava alla Ruota della vergogna.

Sebbene in giro non vi fosse anima viva, sentiva rumori. Passi, ansimi, singhiozzi. Si voltò, ma non vide nessuno.

Arrivò dinanzi al buco nero della Ruota, stretto in una cornice di marmo.

L’hanno abbandonata quattordici anni fa, nella Ruota della vergogna, all’Annunziata. Era il 21 dicembre.

Il 21 dicembre.

Il giorno dopo era andato a cercarle. Voleva trovare Amelia per mantenere le sue promesse, tutte quante. In salute e in malattia, in ricchezza e povertà. Amarla fino alla morte. Ammazzo te. Ammazzo te e la bambina.

Lo avrebbe fatto sul serio? Non lo avrebbe mai saputo, era arrivato tardi.

Tilde, la madre di Amelia, risaliva il crinale disseccato dall’inverno, china sotto la nebbia. Si era fermata quando lo aveva scorto sulla soglia della Casa di Pietra. I suoi occhi erano così rossi che sembrava avesse pianto sangue. Aveva aperto la porta e lo aveva fatto entrare, perché vedesse che le stanze erano vuote.

E adesso vattene. Qua non ci sta niente per te. Sono morte. Sono morte tutt’e due. E i corpi li ho bruciati.

Udì un rumore di tacchi alle sue spalle: una prostituta si riparava dal vento. L’assessore fu sul punto di chiedere a lei, ma si accorse che non era donna – la mascella squadrata, il pomo d’Adamo, i polpacci grossi – e ne fu disgustato. Non avrebbe trovato verità in quella menzogna umana.

Tornò a rivolgere gli occhi alla Ruota e pensò alla ragazza. La ragazza con la parrucca rossa. La ragazza che faceva meraviglie. La ragazza che entrava in casa sua. La ragazza che cercava la Casa di Pietra.

L’hanno abbandonata quattordici anni fa, nella Ruota della vergogna, all’Annunziata. Era il 21 dicembre.

Il 21 dicembre. Due ospedali vicini. Una bambina nata due volte.

«Non è possibile.»

Gli venne da ridere, si portò un pugno alla bocca. Non è possibile. Una campana batté l’ora: erano le otto. Per la prima volta nella sua vita, Augusto d’Avalos era in ritardo.

Si affrettò a tornare nella piazzola dell’Ascalesi, dove si era fermato Santacroce. Sebbene si sentisse un poco più padrone di sé, l’assessore non riusciva a liberarsi dell’idea che lo seguissero, e per questo si voltava, di tanto in tanto, per prendere atto della realtà della sua solitudine.

Rientrò nella vettura.

«Dove?»

«Al Castel dell’Ovo.»

La sensazione che dietro di lui si aprisse un lago di oscurità non lo abbandonò per tutto il viaggio, anzi crebbe a dismisura quando costeggiarono il mare. Ombre. Era tallonato da ombre. Ma da dove venivano? Dal ragazzo. Tommaso si portava appresso il buio gelido, fitto e senza scampo della terra che ricopre i morti.

Ossa umane.

Si passò una mano sul volto, non riconoscendosi nei pensieri che faceva. Era colpa dell’insonnia, che fa a pezzi la realtà. Erano le notti eterne, a rendere i giorni fragili, a tramutarli in discariche di incubi.

«Assessore.»

Erano fermi davanti al ponte illuminato da antichi lampioni. Il Castel dell’Ovo si ergeva nel grembo stesso del mare, nella solitudine fatata dell’isolotto di Megaride, ultimo baluardo di luce in un mondo di tenebre.

«Ci sono», disse.

Ma non si mosse. Voleva godere ancora un poco del bagliore tenue di quei lampioni, nel caso il suo passaggio li avesse spenti, nel caso l’oscurità lo avesse seguito anche lì.

Santacroce lo guardava dallo specchietto retrovisore.

«Ho commesso degli errori», sospirò.

«Assessore?»

«Ho commesso degli errori», ripeté a voce più forte.

Aveva commesso degli errori.

Ossa umane.

Il suo corpo – la sua mente – era una casa infestata di presenze, che per anni erano rimaste silenziose, accontentandosi di esistere nel sonno della coscienza, ma ora – per colpa di chi, di cosa? – si risvegliavano, e tutto era muffa e spifferi, sospiri e tenebra.

«Io sono un uomo che crede nel cambiamento», disse.

Le parole del discorso che si era preparato.

Io sono un uomo che crede nel cambiamento. Sono un uomo che crede in questa città.

«Assessore.»

Una famosa canzona napoletana dice: scurdammoce ’o passato. Ma io mi domando, e domando a voi: i napoletani credono in quello che dicono?

«Assessore...»

Con questo progetto, ho voluto lanciare una sfida alla città.

«Assessore, sta bene?»

«Stia zitto, Santacroce, non m’interrompa!»

Colpì il finestrino con un pugno.

Santacroce lo fissò immobile dallo specchietto retrovisore.

L’assessore fece un respiro profondo, come se dovesse calarsi sott’acqua, e spalancò la portiera. Lasciandola aperta, si incamminò lungo il ponte di pietra sospeso sul mare.

Tirava un vento violento, carico di polvere d’oro come le sabbie del deserto. Lo aspettavano sulla soglia del castello. Membri della giunta comunale, giornalisti, ospiti da tutto il mondo. Ci aveva messo anni per organizzare quell’evento, per averli tutti lì. Non se lo sarebbe lasciato portare via. Aveva fatto grandi cose per quella città, grandi cose. Aveva commesso degli errori, ma quale uomo non li commette?

Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

La pietra... La pietra. Ecco dove stava la colpa. La pietra distorceva il tempo, bucava la mente, sprigionava memorie laide. Appena l’aveva vista, sospesa su quell’altare su cui era impressa la sirena – la stessa sirena che Amelia portava con sé – l’aveva desiderata – lo stesso lacerante desiderio che aveva provato quando aveva visto Amelia la prima volta – e l’aveva presa. Ma entrambe, la pietra e Amelia, avevano qualcosa di oscuro, di potente, di antico, che sfuggiva alla sua comprensione e al suo possesso. Non era necessario che fosse vero, non era necessario che ci credesse. Bastava disfarsene.

Ripiombò in sé, e la zavorra del corpo lo salvò dai tormenti dello spirito.

Disfarmene. Tutto qui.

Quella decisione gli restituì il controllo. Mentre accoglieva e veniva accolto dai suoi ospiti con un sorriso che nulla tradiva, l’assessore d’Avalos entrò nel castello.