I rumori erano strani. Cigolii di sartiame e pulegge, crepitii di legno che si tende e si restringe, sbattere di vele, un costante sciabordio di fondo. Aveva freddo. Non bastava la stufa, non gettava calore, neppure se ci stava vicina e infilava un dito nella griglia di fuoco. I suoi piedi sguazzavano nell’acqua. Si avvolse nella coperta trovata sul letto, ma il gelo non se ne andava, e allora le venne in mente che il freddo non sarebbe passato più: doveva abituarsi.
Osservò le pareti della stanza. Cartoline, volantini, fotografie. Sembravano animarsi sotto il suo sguardo. In quanti posti era stato Cristiano? Quante persone aveva conosciuto?
Tutto questo è dentro di me, pensò. Lui glielo aveva passato con il suo sangue.
Colpi improvvisi alla porta. Andò ad aprire. Sul mezzanino non c’era nessuno, ma l’arena del teatro Instabile era avvolta da un cerchio di luce gialla, come un tuorlo d’uovo, e Pulcinella, ritto nel mezzo, si scrocchiava le ossa, faceva gargarismi, ripeteva improbabili scioglilingua.
«Uè, uè! Alla buon’ora!» chiocciò alla vista di Fanny. «Qui tutti aspettavano i comodi tuoi. Vieni, piccere’, accummencia lo sció!»
Fanny discese le scale di pietra. Non c’era nessun altro.
Nell’arena, l’acqua di mare aveva formato una pozza, sgocciolando da soffitto e pareti.
Pulcinella le indicò una panca, sotto uno degli archi, ma cambiò idea: quel posto era umido. La fece spostare, raccomandandosi di fare attenzione a non pestare i piedi alle signore e di non tirare la barba ai signori. Fanny si accomodò in alto, ma Pulcinella non era ancora convinto: da quel punto Fanny non avrebbe goduto di certi angoli. La costrinse ad alzarsi per la terza volta e chiese a un paio di spettatori invisibili di farsi più stretti, per cortesia, in modo da ricavare un posto in terza fila, sotto l’arco centrale.
«Che te ne pare qua? È buono, eh? Ah!» Puntò l’indice contro il vuoto alle sue spalle. «Signore, non ha letto i cartelli? Non si fuma qui dentro! E che maniere!»
Mimò il gesto di spegnere una sigaretta. Prima di tornare al centro dell’arena, si protese verso Fanny e le diede una carezza che le fermò il cuore. Con un salto e una capriola riprese il suo posto. Si prostrò in un inchino tanto profondo da sbilanciarsi e cascare in acqua. Si rialzò, strizzandosi la camiciona bianca. Nella sala ronzava un silenzio ovattato, accompagnato dai suoni di un mondo marino.
La luce su Pulcinella divenne più intensa, il buio intorno più fitto. Parlò.
«Lenù! Lenù! A me quella guagliona mi fa una pena. Areto e annanze, annanze e areto. Tutti i juorni. Viene a vendere balsami da lontano, dalla costiera. Perché non la mettiamo a dormire a teatro? La stanza è vacante. Che dici, Lenù?»
Si avvicinò a un tavolaccio di legno, premendo i pugni, dondolandosi con un sorriso. Aprì la bocca, ma ne uscì solo aria. Nei buchi della maschera, i suoi occhi brillanti incontrarono gli occhi di Fanny.
«Ma tu il principio di ’sta storia lo conosci, vero, piccere’?»
Lei annuì. Pulcinella tornò al centro dell’arena, i suoi piedi facevano fatica a muoversi nell’acqua. Sorrise di nuovo, un sorriso amaro stavolta, che gli prese soltanto il lato sinistro.
«E sai pure dove finisce?»
Fanny trattenne il respiro, fece un cenno di assenso e di paura. Pulcinella bisbigliò, coprendosi la bocca con la mano piegata: «Finisce dentro a un pozzo».
Quelle parole riecheggiarono infinite volte attorno a loro.
Pulcinella camminava nell’arena del teatro, mormorando, gesticolando, e la sua ombra, proiettata sulle pareti, lo imitava.
«Sei brava, piccere’, sei brava che hai scoperto il principio e la fine della storia. Ma nel mezzo, nel mezzo vuoi sapere che ci sta?»
Prese fiato, e le parole vennero giù come un’inondazione, ritmate dallo sfarfallio delle sue mani.
«Ci sta una risata. E ci stanno chiacchiere, sigarette, caffè. Ci stanno ore passate a scrivere canzoni, cercando un accordo migliore, poi viene una parola più dolce, uno sguardo diverso, una mano che sfiori e tutto il corpo la sente. C’è il tempo che serve a voler bene a qualcuno per quello che è. E all’improvviso ti piglia la paura, che ne è di me se mi do a qualcun altro? Allora vai lontano, lontano, lontano. Vai alla ricerca di quello che eri, ma quello che eri ormai non c’è più, e di quello che sei soltanto metà ti appartiene, e la metà migliore nemmeno è con te.»
Pulcinella prese aria, sorrise tristemente. Parlò più piano.
«L’amore capita e non puoi farci niente. Io l’ho capito quando era tardi e lei si era già trovata un marito. Si era sentita sola, mentre ero lontano... Non è stata colpa sua. Quella – la colpa! – era tutta mia.» Si batté la fronte. «La chiamavo, però, la chiamavo sempre. Senza quella voce di sirena mi pareva di annegare nel mondo.»
Pulcinella si allentò il colletto. Sotto i riflettori la sua pelle era lucida di sudore.
«Poi un giorno tornai. Ti giuro, piccere’, te lo giuro sull’anima mia che è tutto quello che resta di me. Noi ci volevamo bene veramente. Mentre quello non la guardava nemmeno. Non l’ascoltava, non la toccava. Quando sto con lui non mi ricordo se sono viva, mi disse lei una volta. Allora, se facette coraggio. Ma lui non la fece andare via. Lei doveva essere sua. Non mia. E manco di se stessa. Sua.»
Pulcinella camminava. Guardava la punta delle ginocchia infrangere l’acqua nera.
«Un giorno lui venne a vedere il teatro. Diceva che voleva comprarlo. Ma era solo una scusa per farmi capire che lui sapeva. Per mettermi paura.» Tacque un istante. Sorrise. «Io però non mi metto a paura ’e niente.»
Si morse le labbra e allargò le braccia verso la platea.
«Non è vero. Io tenevo paura, paura per lei. Perché Amelia non teneva ’nu marito: teneva ’na bestia. Tu ’o ssaje che fanno le bestie, piccere’? Sì, sì che ’o ssaje.»
Fanny sentì in bocca un sapore metallico. Si toccò le labbra, la guancia, la testa. Scoprì di avere le dita sporche di sangue.
Pulcinella si fermò, spalle al muro, braccia conserte al petto, guardò un punto in alto, illuminato da un riflettore.
«Amelia era sparita, così una notte sono andato io da lei. La casa sta lassù. Io non me ne vado da qua se prima non la vedo. Non me ne vado se non so che sta bene.»
La luce si smorzò pian piano, nel teatro rimbombò un suono cupo di campana: batteva le ore. Pulcinella contò dieci rintocchi. Si udì il rumore di un portone. Pulcinella si staccò dalla parete e mosse qualche passo come se andasse verso qualcuno.
«D’Avalos!» trillò Pulcinella. «Pure voi qua? Sì, certo che mi ricordo! Siete venuto a vedere il teatro l’altra volta, per comprarlo.» Pulcinella fece una breve pausa. «Che ci faccio qua? Passeggiavo.» Con le mani in tasca, finse di passeggiare. Si fermò ad ascoltare il silenzio. «Sopra da voi a prendere un caffè? Ah, ma perché, è qua che state di casa?» Tentennò. «Va bene. Ci vengo.»
Pulcinella salì le scale del teatro, fece il giro della struttura, tornò nell’arena. Si guardò intorno.
«Tenete proprio una bella casa. E quanta bella roba, guardate un poco, guardate! Il caffè? Lo prendo amaro, grazie.»
Attese di essere solo. Cominciò a scrutare in giro, tra le quinte e la platea allagate, chiamando Amelia sottovoce. Si voltò d’un tratto e finse di prendere una tazzina di caffè.
«È buono, ’sto caffè. Lo ha preparato vostra moglie?» Silenzio. «Ah, vostra moglie non ci sta. E dove sta? Da sua madre, per qualche giorno? A Torca? Eh sì, fa bene. Aria pulita.»
Pulcinella finì di vuotare la tazzina invisibile e la restituì all’interlocutore fantasma.
«Grazie, mille grazie.»
Il suo sorriso si allentò. Un silenzio assoluto vibrò nel teatro. A parlare erano solo le espressioni di Pulcinella – confusione, sconcerto, rabbia, tristezza, paura – che mutavano in fretta sulla parte inferiore del volto, mutavano chiare, come riflessi di luce sulle onde. Le esaurì tutte, e non restandogli altro tirò fuori un sorriso.
«E accussì, sapete tutto. Bravo, bravo.» Pulcinella applaudì e infilò le mani nelle tasche. «Voi dite che non sono uomo. Ma voi che mi minacciate con quella pistola. Voi che umiliate vostra moglie. Voi che non le lasciate scelta. Voi che bestia siete?»
Aveva appena finito di parlare che uno sparo rimbombò nel vuoto.
Pulcinella cadde nell’acqua, in un vortice di bolle. Quando si alzò la sua ombra rimase stesa sul fondo, come una foglia nel fango. Pulcinella le girò attorno, guardandola con dispiacere. Tuttavia, quando sollevò gli occhi il suo sguardo era asciutto e fermo.
«E accussì m’ha acciso, m’ha jettato int’ ’o pozzo e poi m’ha seppellito pensando che bastava ’nu poco ’e terra a chiudere l’inferno.» Sorrise brevemente. «Lei poi mi cercò per dirmi che aspettava ’na creatura e che era mia. Ma io non la potevo sentire più, quella voce di sirena.» Una breve pausa. «Fine.»
Pulcinella fece un inchino e corse dietro un siparietto rosso.
Fanny restò a lungo immobile. Senza voce, senza pensieri, senza se stessa. Il teatro Instabile cigolava sotto la pressione dell’acqua.
Alla fine si alzò, controllò dietro il sipario: c’era un muro.
Sentì di avere un masso al posto del cuore e polvere nelle vene. Mai era stata tanto triste, mai tanto abbandonata. Si strinse nella coperta, chiamò Pulcinella. Però lui non la sentiva, non veniva a prenderla.
Fanny salì le scale che portavano all’ingresso. L’acqua sgorgava a fiotti dagli spiragli della porta; il legno, bombato dal mare, disegnava un arco tesissimo sul punto di spaccarsi. Non osò toccarlo. Tornò nella stanza, aprì la finestrella che dava sulla strada. Ma di strade non ce n’erano più: il mare si era preso Napoli.
Stranamente, Fanny non aveva paura.
Il mare scorreva lungo il vicolo, come se fosse una cosa naturale, una cosa che torna al suo posto dopo tanto tempo, sangue che di nuovo fluisce lungo arterie ostruite. A tratti il suo corso era lento, cullante, in altri si arricciava in vortici spumosi, come quando l’acqua si fa largo tra gli scogli. Si era infilato con le sue mille dita tra i vicoli della città, era entrato nei vasci senza chiedere il permesso, perché il mare era un dio e si prendeva le cose degli uomini.
«Uè, uè!»
Un gozzetto blu scendeva per i canali. A governarlo era Pulcinella.
Fanny provò un gran sollievo. Lui le fece cenno di saltare, lei s’infilò nel buco strettissimo della finestrella e si buttò in acqua. Pulcinella gettò una rete e la ripescò. Mentre la liberava dal tramaglio, lei fissò ansimante il suo eterno sorriso.
«Pullecene’», gli disse, «sono contenta che sei tu.»
«Ah, pur’io! Pur’io sono assai contento di essere me! È una cosa che mi ripeto spesso: beato me!»
E, intonando il canto di una sirena e di un marinaio, Pulcinella mise in moto il gozzetto.
Fanny sedette a prua, chiuse gli occhi, non chiese dove andassero. Era a casa. Ciò che temeva si era avverato, e non lo temeva più.
Il freddo diminuiva, sopra di loro il cielo era terso, e il sole, nascosto dalle cime dei palazzi, scopriva i suoi raggi; poi, negli slarghi delle piazze, esplodeva una pioggia di luce che asciugava il sangue, le lacrime e ogni dolore.
Non c’era pace più perfetta, pensò, di quella che danno il mare, il sole e un canto.
Attraversarono la città, che non apparteneva più agli uomini ma alle loro ombre. Dopo un tempo infinitamente breve e infinitamente lungo, apparve quel che restava del castello: un isolotto di tufo scampato alla marea. Torri anziché arbusti, terrazze anziché spiagge.
Pulcinella gettò l’ancora nei pressi di un arco.
«Che facciamo qui?» domandò Fanny.
«Come, che facciamo? Non la vuoi vedere?»
Fanny si domandò di chi parlasse. Poi si accorse che il canto continuava, anche se Pulcinella teneva i denti stretti in un sorriso da ventriloquo.
Amelia...
Spiccò un balzo oltre il bordo di un muretto e corse a cercarla. La cercò tra le stanze del castello, inondate d’acqua e di luce, su per le scale a chiocciola, tra le terrazze che erano piscine. Il suo fiato, il vento fresco, il cuore impennato di gioia, l’odore di molluschi, dell’estate. La voce di Amelia era vicinissima. Era in fondo a una scalinata, dentro una pozza, dietro un angolo. Finalmente lo vide. Un fiume di lava.
La lunga chioma di capelli rossi intrecciati dal vento. Sul ciglio della terrazza, seduta tra i merli della torre, Amelia cantava guardando il mare.
Fanny si avvicinò commossa e meravigliata, e la chiamò ancora: «Mamma».
Amelia si voltò. Fanny schiuse la bocca: la parrucca rossa volò via, rapita da una folata che rivelò l’inganno. A sostenerla, un bastone infilzato nei muri, coperto d’alghe.
Fanny raccolse la parrucca che rotolava ai suoi piedi. L’ennesima messinscena di Pulcinella.
Quando si sollevò erano tornati buio e freddo.
«Sta finendo.»
Si girò a guardare Pulcinella, che fece un inchino. Ricordò quando lo aveva visto la prima volta, proprio lì, il giorno del convegno. E adesso tutto era uguale ad allora e tutto era diverso.
Enormi onde nere rotolavano verso la costa, le isole erano sparite dietro pennellate di pioggia, i balconi erano vuoti, le finestre chiuse, le strade deserte, i bar e i ristoranti abbandonati. Trenta metri più in basso, i cavalloni picchiavano e annerivano le pareti del castello come se volessero espugnarlo.
Fanny non capiva. Cos’era la morte, luce o buio, pace o tormento?
«Dove sta Amelia?»
Pulcinella le si fece vicino.
«Tutto chello ca nun truove fora, cercalo ccà dinto.» Le premette un dito sullo sterno.
Ma Fanny ancora non capiva. Allora le prese la testa tra le mani, stretta stretta, e Fanny sentì che mentre la tratteneva la stava lasciando andare. Nei suoi occhi, lacrime e sorrisi.
«Tu ’o ssaje comme t’aggio riconosciuta? Pecché si’ tale e quale a essa. Quando uno ti guarda negli occhi vede tutto quello che c’è stato prima, tutto quello che non ha visto mai. Io vedo te, vedo lei, vedo le donne che sono venute, e le loro storie e le storie di questa terra. Fidati, io ’o ssaccio. La vita mia l’ho passata negli occhi suoi.»
Poi Pulcinella si portò una mano all’orecchio.
«Lo senti, piccere’? È la vita e ti sta chiamando.»
Le diede una leggera spinta e la buttò giù.