Nancy guardò il suo insopportabile nipote che si trascinava verso la bara della madre. Patrick non avrebbe mai potuto capire il modo favoloso in cui lei ed Eleanor erano state educate. Eleanor era stata tanto stupida da ribellarsi a quel modello, mentre a Nancy era stato strappato dalle mani giunte in un’ultima, disperata preghiera.
«La sua preziosa rubrica» disse di nuovo, sospirando, sotto braccio a Nicholas. «Tanto per fare un esempio, Mamma ha avuto un solo incidente d’auto in tutta la vita, ma anche allora, mentre era intrappolata a testa in giú tra le lamiere accartocciate, appesa accanto a lei c’era l’Infanta di Spagna».
«Davvero notevole» commentò Nicholas. «Gli incidenti d’auto portano spesso a mescolarsi con figuri di ogni sorta. Prova a pensare all’agitazione al Collegio Araldico, se una goccia di sangue nobile colasse sul cruscotto di un autocarro e si mescolasse ai fluidi corporei del bruto che ha appena sbattuto la testa sul volante».
«Devi proprio essere sempre cosí faceto?» ribatté seccamente Nancy.
«Faccio del mio meglio» disse Nicholas. «Ma tu non puoi fingere che tua madre amasse la gente comune. Non ha comprato tutta la strada che costeggiava le mura del Pavillon Colombe per demolirla e ampliare i giardini? Quante case ha fatto buttare giú, in tutto?».
«Ventisette» disse Nancy, rinfrancata. «Ma non sono state tutte demolite. Alcune sono state trasformate in rovine per fare da contorno ideale alla villa. C’erano follie d’acqua e grottini, e Mamma ha fatto costruire una copia esatta della casa padronale, ma cinquanta volte piú piccola. La usavamo per prendere il tè, e sembrava di trovarsi dentro Alice nel paese delle meraviglie». Il viso di Nancy si rabbuiò. «C’era un orribile vecchio che si rifiutò di vendere, anche se Mamma gli aveva fatto un’offerta fin troppo generosa per il buco in cui abitava, e cosí è rimasta una rientranza lungo la linea delle vecchie mura, non so se hai presente».
«Ogni paradiso deve avere il suo serpente» disse Nicholas.
«Lo ha fatto solo per darci una seccatura» commentò Nancy. «Ha piantato una bandiera francese sul tetto e non faceva che mettere Edith Piaf sul suo giradischi. Ci è toccato soffocarlo in mezzo alla vegetazione».
«Magari gli piaceva Edith Piaf» disse Nicholas.
«Non dire sciocchezze! A nessuno può piacere Edith Piaf. Non a quel volume!».
L’orecchio allenato di Nancy aveva colto una punta di acidità nelle parole di Nicholas. Che male c’era se la Mamma non aveva mai voluto che la gente qualunque si accatastasse intorno alle sue proprietà? Non c’era da stupirsene, quando tutto il resto era cosí divino. Fragonard aveva dipinto Les Demoiselles Colombe in quel giardino, da cui la necessità di avere dei Fragonard in casa. I proprietari originari avevano appeso un paio di grandi Guardi in soggiorno, da cui l’impulso a recuperarli per restaurare l’autenticità dell’ambiente.
Nancy non riusciva a togliersi di dosso l’ossessione per lo splendore e la rovina della famiglia materna. Un giorno avrebbe scritto un libro su sua madre e le sue zie, le leggendarie sorelle Jonson. Erano anni che raccoglieva materiali, frammenti pieni di fascino che dovevano solo essere organizzati in un insieme coerente. La settimana prima aveva licenziato un giovane ricercatore incapace – il decimo di una serie di avidi egotisti che volevano sempre essere pagati in anticipo – ma non prima che il suo ultimo schiavo avesse scovato una copia del certificato di nascita di sua nonna. Secondo questo documento meravigliosamente scolorito, la nonna di Nancy era “nata nei territori indiani”. Come avrebbe potuto la figlia di un giovane ufficiale dell’esercito, venuta al mondo in luoghi cosí improbabili, pensare, mentre camminava traballante tra gli scomodi pagliericci e i cavalli agitati dentro un forte di argilla rossa, nel cuore del selvaggio West, che le sue figlie avrebbero gironzolato per i corridoi di castelli in Europa e avrebbero riempito le loro case con gli scarti di dinastie in rovina, sguazzando nella vasca da bagno di marmo nero di Maria Antonietta mentre i loro labrador gialli sonnecchiavano su tappeti che venivano dritti dalla Sala del Trono del Palazzo Imperiale di Pechino? Perfino le vasche di piombo sulla terrazza del Pavillon Colombe erano state fabbricate per Napoleone. Api dorate che frugavano in boccioli d’argento, madidi di pioggia. Nancy era sempre stata convinta che Jean avesse costretto la Mamma a comprare quelle vasche per prendersi una segreta rivincita su Napoleone, il quale aveva osato affermare che il suo antenato, il grande duca di Valençay, era “un pezzo di merda in calze di seta”. Si divertiva ad affermare che il suo patrigno aveva tenuto alta la tradizione di famiglia, ma senza calze di seta. Si strinse ancor piú al braccio di Nicholas, come se quell’orrendo Jean potesse cercare di rubarle anche lui.
Se solo la Mamma non avesse divorziato da Papà! La loro vita era stata cosí eccitante a Sunninghill Park, dove erano cresciute lei ed Eleanor. Il principe di Galles andava in visita quasi tutti i giorni, e non c’erano mai meno di venti ospiti in casa, tutti a spassarsela. Certo, Papà aveva l’abitudine di comprare a Mamma un’infinità di regali costosissimi che era lei a dover pagare. Quando Mamma diceva, “Oh, tesoro, non dovevi”, la sua non era una formula di cortesia. Se le sfuggiva di bocca un qualunque commento sul giardino, diventava subito nervosa. Se diceva che in un certo angolo ci sarebbe stata meglio una sfumatura piú accesa di blu, un paio di giorni dopo scopriva che Papà aveva fatto arrivare dal Tibet un fiore improbabile che aveva una fioritura di tre minuti in tutto e costava quanto un’intera casa. Ma prima che l’alcol prendesse il sopravvento, Papà era un bell’uomo, affettuoso e cosí irresistibilmente divertente che spesso il cibo arrivava in tavola tremando perché i camerieri ridevano troppo per riuscire a tenere fermi i piatti da portata.
Quando giunsero gli anni della Grande Depressione, gli avvocati di famiglia vennero dagli Stati Uniti per chiedere ai Craig di scervellarsi e trovare qualcosa di cui avrebbero potuto fare a meno. E i Craig presero sul serio l’invito. Ovviamente, non potevano vendere Sunninghill Park. Dovevano continuare a intrattenere i loro amici. Sarebbe stato troppo crudele, oltre che sconveniente, licenziare qualcuno della servitú. Non potevano fare a meno della casa a Bruton Street, indispensabile per pernottare a Londra. Avevano bisogno di due Rolls-Royce e di due autisti perché Papà era di una puntualità incorreggibile e Mamma era incorreggibilmente ritardataria. Alla fine sacrificarono uno dei sei giornali che ogni ospite riceveva insieme alla colazione. Gli avvocati si ammorbidirono. Le sorgenti da cui sgorgava il denaro dei Jonson erano troppo profonde per fingere che la crisi le potesse colpire. I Jonson non speculavano sui mercati finanziari: erano industriali e proprietari di una grossa fetta di America urbana. La gente avrebbe avuto sempre bisogno di grassi solidi, di solventi per il lavaggio a secco e di case in cui abitare.
Anche se Papà si era dimostrato un po’ troppo stravagante, il matrimonio di Mamma con Jean era stata una follia che si poteva spiegare solo con il titolo nobiliare acquisito – era sempre stata gelosa di zia Gerty, che aveva sposato un granduca. Il ruolo di Jean nella storia della famiglia Jonson era consistito nel coprirsi di ludibrio, dimostrandosi un ladro e un bugiardo, un patrigno lascivo e un marito tirannico. Mentre Mamma era in punto di morte, consumata dal cancro, Jean aveva avuto uno dei suoi accessi di furia e si era messo a gridare che il testamento metteva in dubbio la sua onorabilità. Aveva ricevuto in eredità le case, i quadri e il mobilio vita natural durante, dopodiché i beni sarebbero passati alle figlie, come se Mamma non fosse convinta che, quando fosse giunto il suo turno, il consorte avrebbe comunque provveduto in tal senso. Jean sapeva perfettamente che tutti quei beni appartenevano ai Jonson… Da allora, era stato un continuo: la morfina, i dolori, le urla, le promesse piene d’indignazione, finché Mamma non aveva cambiato testamento e Jean si era rimangiato la parola data, lasciando tutto a suo nipote.
Dio, pensò Nancy, quanto disprezzava Jean! Era morto da quasi quarant’anni, eppure avrebbe voluto ammazzarlo ogni giorno, con le sue mani. Si era rubato tutto e le aveva rovinato la vita. Sunninghill, il Pavillon, Palazzo Arichele: tutto svanito nel nulla. Rimpiangeva addirittura la perdita di alcune tra le case dei Jonson che non avrebbe mai ereditato a meno che non fosse morto un numero improbabile di persone. Il che sarebbe stato una tragedia, non fosse stato che, se non altro, lei avrebbe saputo come viverci, cosa che di sicuro non si poteva dire di certi personaggi che non avrebbe avuto problemi a elencare.
«Tutte quelle cose belle, e quelle splendide case, che fine hanno fatto?» disse Nancy.
«Immagino che le case siano ancora dove sono sempre state» ribatté Nicholas, «è solo che adesso ci abitano persone che se le possono permettere».
«Ma è proprio questo il punto! Anch’io dovrei potermele permettere!».
«Mai usare il condizionale, quando si parla di soldi».
Nicholas si stava dimostrando davvero insopportabile. Di una cosa era certa: non gli avrebbe parlato del libro che voleva scrivere. Ernest Hemingway aveva detto a Papà che avrebbe assolutamente dovuto scrivere un libro, visto che raccontava storie tanto divertenti. Quando Papà gli aveva risposto che non sapeva scrivere, Hemingway gli aveva spedito un registratore. Papà si era scordato di attaccarlo alla presa di corrente, e quando aveva visto che le bobine restavano immobili si era spazientito e aveva scaraventato quell’aggeggio fuori dalla finestra. Fortunatamente, la donna che era stata centrata in pieno non aveva sporto denuncia, e Papà si era ritrovato con un’altra magnifica storia da raccontare, ma l’incidente aveva fatto nascere in Nancy una vera e propria superstizione per i registratori. Forse avrebbe dovuto assumere un ghost-writer. Farsi esorcizzare da un fantasma! Una cosa decisamente originale. Però, avrebbe dovuto fornire al fantasma quanto meno un’idea generale su come intendeva procedere. Ogni capitolo poteva incentrarsi su un tema o un decennio specifico, ma d’altro canto quello le sembrava un approccio piú adatto alle teste d’uovo, o ai topi di biblioteca. Lei preferiva che il libro fosse diviso in parti, ciascuna dedicata a una diversa sorella; dopo tutto, era stata la rivalità tra di loro a costituire il fattore trainante della famiglia.
Gerty, la piú piccola e la piú bella delle tre sorelle Jonson, era decisamente quella con cui Mamma era stata piú in competizione. Aveva sposato il granduca Vladimir, nipote dell’ultimo zar di Russia. Lo “zio Vlad”, come lo chiamava Nancy, aveva contribuito all’assassinio di Rasputin, prestando il suo revolver imperiale al principe Yussopov per quello che avrebbe dovuto essere il colpo di grazia e si era invece rivelato solo uno stadio intermedio tra l’avvelenamento da arsenico e l’annegamento del prete testardo nella Neva. Nonostante una sequela di suppliche, lo zar aveva esiliato Vladimir per il ruolo avuto nell’omicidio, facendogli cosí perdere la Rivoluzione russa e l’opportunità di essere passato a filo di baionetta, strangolato o fucilato dai nuovi padroni bolscevichi della Russia. Una volta in esilio, lo zio Vlad aveva ben pensato di assassinare se stesso, ingurgitando ventitré martini dry prima di ogni pranzo. Grazie alla fisima tutta russa di rompere i bicchieri dopo aver bevuto, in casa non c’era mai un attimo di silenzio. Nancy possedeva una copia, già appartenuta a suo padre, di un memoriale ormai caduto nell’oblio della sorella di zio Vlad, la granduchessa Anna. Era dedicato in inchiostro rosso “al mio caro cognato”, anche se in realtà Papà era il marito della cognata di suo fratello. La dedica sembrava a Nancy un tipico esempio della generosa ampiezza di vedute che aveva consentito a quella stupefacente famiglia di vivere a cavallo tra due continenti, da Kiev a Vladivostok. Prima del matrimonio con Gerty, avvenuto a Biarritz, la granduchessa aveva dovuto impartire al fratello la benedizione che secondo la tradizione sarebbe spettato ai loro genitori dare. Era un momento che sia lei che Vlad temevano, perché richiamava alla mente il terribile motivo che era dietro l’assenza della loro famiglia. La granduchessa aveva descritto il suo stato d’animo nel Palazzo della memoria:
Dalla finestra vedevo le grandi onde che si frangevano sugli scogli; il sole era tramontato. In quel momento l’oceano grigio mi sembrò spietato e indifferente come il fato, e carico di un’infinita solitudine.
Gerty decise di convertirsi alla religione ortodossa per essere piú vicina alle origini di Vladimir. Anna proseguiva:
Insieme a un nostro cugino, il duca di Leuchtenberg, le concessi il mio patronato. La cerimonia fu lunga e faticosa, e mi sentivo in pena per Gerty, che non capiva una sola parola.
Se il suo ghost-writer fosse riuscito a scrivere altrettanto bene, Nancy era certa che avrebbe avuto per le mani un best seller. La piú grande delle sorelle Jonson era anche la piú ricca delle tre: la dispotica e pragmatica zia Edith. Mentre le volubili sorelle minori saltavano dritte nelle pagine dei libri di storia illustrata, tenendosi per mano con i superstiti di alcune tra le famiglie di piú alto lignaggio al mondo, la sensata zia Edith, che le antichità preferiva tenerle dentro un baule, optò per un solido matrimonio con un uomo il cui padre, come quello della stessa Edith, era stato incluso nella lista dei cento uomini piú ricchi d’America nel 1900. Nancy aveva trascorso i primi due anni di guerra a casa di Edith, mentre Mamma cercava di portare al sicuro in Svizzera alcuni dei suoi beni piú preziosi prima di raggiungere le figlie in America. Il marito di Edith, lo zio Bill, introdusse una nota di originalità pagando di tasca propria per i doni che faceva alla moglie. Uno dei suoi tanti regali di compleanno consisté in una casa bianca d’assi, con gli scuri verdi e due ali arrotondate, su un declivio erboso che dominava un laghetto, al centro di una piantagione da diecimila acri. La zia la adorava. Era la classica trovata di cui non c’è traccia nei libri che si intitolano L’arte di fare regali.
Patrick guardava la sua infelice zia che continuava a lamentarsi con Nicholas, ferma all’ingresso. Non poté non pensare alla massima preferita dal moderatore del suo Gruppo anti-depressione. “Provare risentimento è come bere un veleno e sperare che sia qualcun altro a morire”. Tutti i pazienti avevano fatto propria quella frase almeno una volta al giorno, in un’imitazione piú o meno convincente del suo accento scozzese.
Se ora era in piedi accanto alla bara di sua madre con un distacco non scevro d’inquietudine, non era perché avesse apprezzato il riferimento della zia alla “preziosa rubrica”. Per quanto lo riguardava, il passato era un cadavere che attendeva solo di essere cremato, e benché il suo desiderio stesse per realizzarsi nel modo piú letterale che si potesse immaginare, in un forno a pochi metri dal punto in cui si trovava, serviva un altro tipo di fuoco per ridurre in cenere gli atteggiamenti che tormentavano Nancy: l’impatto psicologico della ricchezza ereditaria, il desiderio furioso di sbarazzarsene e quello altrettanto furioso di tenersela stretta; l’effetto demoralizzante di possedere già ciò che quasi chiunque altro sacrificava l’intera esistenza nel tentativo di acquisire; l’intimo senso di superiorità e la segreta vergogna, piú o meno forti, legati all’essere ricchi, che generavano i loro particolari travestimenti: la soluzione della filantropia, quella dell’alcolismo, la maschera dell’eccentricità, la ricerca della salvezza nella raffinatezza del gusto; gli sconfitti, i pigri, i frivoli e il loro opposto, le persone perfettamente ordinarie, tutti immersi in un mondo cosí denso di scintillanti alternative da risultare quasi impenetrabile all’amore e al lavoro. Se questi valori erano già di per se stessi sterili, sembravano ancor piú ridicoli dopo due generazioni di diseredati. Patrick voleva prendere le distanze da quella che considerava l’irrilevanza virulenta di sua zia, eppure nella linea materna della sua famiglia scorreva una passione per lo status sociale che si vedeva costretto a comprendere, in un modo o nell’altro.
Gli tornò in mente quando era andato a trovare Eleanor, subito dopo il lancio del suo ultimo progetto filantropico, la Fondazione transpersonale. Sua madre aveva deciso di rinunciare alla frustrazione di essere una persona, optando per l’eccitante prospettiva di trasformarsi in una transpersona, negando la propria identità di figlia in una famiglia piena di confusione e quella di madre in un’altra famiglia, altrettanto confusa, e proponendosi per ciò che non era, una guaritrice e una santa. L’impatto di quel progetto adolescenziale sul suo corpo ormai invecchiato aveva prodotto di lí a poco il primo della serie di ictus che avrebbero finito per demolirla. Quando Patrick andò a farle visita a Lacoste, dopo quel primo ictus, Eleanor era ancora in grado di parlare con una certa fluidità, ma la sua mente si era fatta sospettosa. Non appena si erano trovati da soli nella stanza, con le tende lacere che ondeggiavano sospinte dalla brezza serale, gli aveva stretto un braccio e aveva sussurrato, agitata, «Non dire a nessuno che mia madre era una duchessa».
Patrick aveva annuito, con fare cospiratorio, ed Eleanor aveva allentato la presa e alzato gli occhi al soffitto per trovare un altro motivo di agitazione.
Le istruzioni di Nancy, senza bisogno di un ictus per giustificarle, sarebbero state di segno esattamente opposto. Non dirlo a nessuno? Dirlo a chiunque, invece! Dietro il contrasto di facciata tra la mondanità di Nancy e le pulsioni oltremondane di Eleanor, tra la mole di Nancy e il corpo smagrito di Eleanor, c’era una causa comune, un passato che andava falsificato, sopprimendolo o glorificandone solo alcuni aspetti. Che cosa se ne doveva dedurre? Eleanor e Nancy erano individui o parte integrante della decadenza che caratterizzava la loro classe sociale e la loro famiglia?
Eleanor aveva portato Patrick a vivere con la zia Edith all’inizio degli anni Settanta, quando suo figlio aveva dodici anni. Mentre il resto del mondo si preoccupava della crisi dell’OPEC, della stagflazione, dei bombardamenti a tappeto, e si domandava se gli effetti dell’ LSD fossero permanenti, irreversibili o temporanei, Edith manteneva uno stile di vita che non faceva la minima concessione ai cinquant’anni trascorsi da quando Live Oak le era stata data in eredità. I quaranta servitori neri facevano sembrare gli schiavi di Via col vento, altrettante comparse sul set di un film. La sera in cui Patrick ed Eleanor erano arrivati, Moses, uno dei valletti, aveva chiesto il permesso di recarsi ai funerali di suo fratello. Edith glielo aveva negato. C’erano quattro persone a cena, e Moses doveva occuparsi di servire il porridge di mais. A Patrick non importava se il valletto che avrebbe servito la quaglia o le verdure si fosse occupato anche del porridge, ma esisteva una rigida etichetta, e Edith non era disposta ad ammettere eccezioni. Moses, in guanti bianchi e giacca bianca, si accostò al tavolo in silenzio, con le lacrime che gli rigavano le guance, e serví a Patrick il primo piatto di porridge della sua vita. E Patrick non seppe mai se, in altre circostanze, lo avrebbe trovato di suo gusto.
Piú tardi, in camera da letto, con il fuoco che crepitava nel camino, Eleanor aveva criticato selvaggiamente la brutalità di sua zia. La scena durante la cena aveva lasciato un segno troppo profondo; non sarebbe mai piú riuscita a disgiungere il sapore del porridge dalle lacrime di Moses, come del resto il gusto impeccabile di sua madre dai tanti pianti che avevano segnato la sua infanzia. La convinzione che la sua sanità mentale si basasse sulla gentilezza dei servitori rendeva inevitabile per lei stare sempre dalla parte di Moses. Se fosse stata eloquente, questa forma di lealtà avrebbe potuto fare di lei un animale politico; vista la sua vera natura, aveva fatto di lei un essere caritatevole. Ma a mandarla su tutte le furie era soprattutto la capacità di zia Edith di farla sentire come se avesse ancora dodici anni, quando la guerra era appena cominciata e lei era un’ospite muta e appassionata a Fairley, la villa di Bill e Edith a Long Island. Eleanor era ipnotizzata dall’idea di aver avuto la stessa età di Patrick. Il suo sviluppo bloccato gettava un’ombra implacabile su qualunque sforzo di crescita del figlio. Durante l’infanzia di Patrick, si era preoccupata di quanto fosse importante per lei la tata, anziché garantire a suo figlio un calore e un’affidabilità anche solo paragonabili.
Alzando gli occhi dalla bara della madre, Patrick vide che Nancy e Nicholas sembravano intenzionati ad avvicinarsi nuovamente a lui, spinti da quell’istinto per le gerarchie sociali che trasformava un figlio in lutto in una figura almeno temporaneamente dominante. Posò una mano sul feretro di Eleanor, stringendo un’alleanza segreta contro ogni tipo di incomprensione.
«Mio caro» disse Nicholas, che sembrava rinfrancato da una qualche notizia della massima importanza, «non mi ero reso conto, finché non me l’ha detto Nancy, di quanto fosse festaiola tua madre, prima di dedicarsi alle sue “opere buone”». E nel pronunciare quel termine, sembrò allontanarlo con il bastone da passeggio per evitare che gli ingombrasse il passaggio. «Mi sembra quasi incredibile pensare alla piccola, timida e pia Eleanor alla Beistegui Hall! A quei tempi non la conoscevo ancora, altrimenti mi sarei sentito in obbligo di proteggerla da quell’orda di famelici arlecchini». Nicholas sventolò la mano, con un gesto di studiata eleganza. «Fu un evento davvero fantastico. Era come se i ricchi fannulloni di un quadro di Watteau fossero stati liberati dalla loro prigione incantata, imbottiti di steroidi e muniti di una flotta di motoscafi».
«Oh, non era poi cosí timida, a volerla dir tutta» intervenne Nancy. «Aveva un’infinità di corteggiatori. Sai, Patrick, tua madre avrebbe potuto permettersi il matrimonio piú sfarzoso che si possa immaginare».
«E risparmiarmi cosí l’imbarazzo di venire al mondo».
«Oh, non essere sciocco. Saresti nato in ogni caso».
«Non proprio».
«Quando penso a tutti gli impostori che sostengono di aver partecipato a quella festa leggendaria» disse Nicholas, «mi riesce difficile credere di aver conosciuto una persona che c’era stata davvero, e che ha scelto di non parlarne mai con nessuno. Se non fosse troppo tardi, mi congratulerei con lei per la sua modestia». Diede un colpetto al coperchio della bara, come il proprietario di un cavallo che abbia appena vinto la sua corsa. «Il che dimostra quanto poco senso abbia tutta quell’ostentazione».
Nancy avvistò un uomo con i capelli bianchi, un gessato nero e una cravatta di seta anch’essa nera, che incedeva lungo il corridoio.
«Henry!» esclamò, barcollando con fare teatrale. «Era ora che arrivasse un Jonson di rinforzo!». Nancy adorava Henry. Era cosí ricco. Sarebbe stato meglio che i soldi appartenessero a lei, ma il fatto che fossero nella disponibilità di un parente cosí stretto era comunque incoraggiante.
«Come stai, Vecchio Cavolo?» gli chiese, abbracciandolo.
Henry la baciò su una guancia, senza mostrare entusiasmo per il nomignolo con cui era stato accolto.
«Mio Dio, non avrei mai pensato di vederti qui» disse Patrick, con un accenno di rimorso.
«Non me lo aspettavo neanch’io» disse Henry. «Nessuno comunica, in questa famiglia. Sono venuto per qualche giorno, dormo al Connaught, e stamane, quando mi hanno portato la colazione e i giornali in camera, ho letto sul Times che tua madre era morta e che la cremazione era prevista per oggi. Fortunatamente, l’albergo mi ha procurato subito un’auto, e ho fatto in tempo ad arrivare».
«Non ti vedevo da quando sei stato cosí gentile da ospitarci sulla tua isola» disse Patrick, decidendo di andare subito al punto. «Devo essere stato un incubo, e mi dispiace molto».
«Credo che a nessuno faccia piacere essere infelice» rispose Henry. «Ed è impossibile riuscire a non farlo vedere. Ma non dobbiamo lasciare che vedute differenti sulla politica estera si sovrappongano alle cose che contano davvero».
«Sono assolutamente d’accordo» disse Patrick, colpito dalla gentilezza di Henry. «E sono davvero contento che tu sia riuscito a venire. Eleanor ti voleva molto bene».
«Be’, anch’io volevo molto bene a tua madre. Come sai, è stata da noi a Fairley per un paio d’anni all’inizio della guerra, perciò naturalmente avevamo legato molto. Aveva una forma di innocenza che la rendeva particolarmente attraente; era un modo di avvicinarti a sé, mantenendo al contempo le distanze. È difficile da spiegare, ma qualunque cosa tu pensi di tua madre e di questa organizzazione benefica da cui si è fatta prendere, spero tu sappia che era una brava persona, animata dalle migliori intenzioni».
«Sí» disse Patrick, accettando per un istante la semplicità dell’affetto che Henry dimostrava, «credo che “innocente” sia proprio la definizione giusta». Ancora una volta, si stupí degli effetti che la proiezione dei propri stati d’animo poteva generare: tanto Henry gli era parso ostile quando lui stesso era animato da una furibonda ostilità verso il mondo intero, quanto gli sembrava premuroso adesso che tra loro due non esisteva alcun motivo di contrasto. Come sarebbero cambiate le cose, se avesse rinunciato alle sue proiezioni? Ed era possibile, farlo?
Mentre si voltava per allontanarsi, Henry si allungò e toccò Patrick su una spalla.
«Le mie condoglianze» disse, con un’espressione formale ma infusa di emozione. A Nancy e Nicholas rivolse solo un cenno del capo.
«Scusatemi» disse Patrick, voltandosi verso l’ingresso del forno crematorio, «devo salutare Johnny Hall».
«Chi è?» chiese Nancy, sentendo che qualcosa le sfuggiva.
«Giusto che tu lo chieda» rispose Nicholas, furibondo. «In realtà sarebbe un perfetto signor nessuno, se non fosse lo psicoanalista di mia figlia. Il che è quanto basta per farne il diavolo incarnato».