3.

Patrick si allontanò dalla bara di sua madre, consapevole che se non fosse tornato indietro con uno scatto isterico quella sarebbe stata l’ultima volta che le era stato accanto. Aveva visto il contenuto freddo e umido della bara la sera prima, quando si era recato all’agenzia di pompe funebri Bunyon. Una donna con i capelli corti e bianchi e un fare amichevole lo aveva accolto sulla porta.

«Salve, mio caro. Ho sentito un taxi arrivare e ho pensato che potesse essere lei».

Lo aveva scortato al piano inferiore. La moquette a losanghe rosa e marroni faceva pensare al bar di un albergo di campagna. Qua e là erano sistemate con discrezione pubblicità per servizi speciali. In una foto incorniciata, una donna era inginocchiata accanto a una cassetta nera dalla quale si levava in volo una colomba, in un frullio di ali bianche, ben lieta di aver ritrovato la libertà. Era tornata nella colombaia di Bunyon, pronta a essere riciclata per un’altra occasione? Oh, no, basta con quella cassetta nera! «Possiamo liberare una colomba per il giorno del vostro funerale». Una volta messo piede in agenzia, sembrava che per scrivere non esistessero che i caratteri gotici, come se la morte fosse un villaggio tedesco. C’erano finestre a mosaici colorati, illuminate dall’interno, sulle scale che portavano al seminterrato.

«La lascio con sua madre. Se ha bisogno di qualcosa, non esiti a chiedere. Sono al piano superiore».

«Grazie» disse Patrick, aspettando che la donna girasse l’angolo prima di entrare nella Cappella dei Salici.

Si chiuse la porta alle spalle e lanciò una rapida occhiata dentro la bara, come se sua madre gli avesse detto che non era buona educazione fissare troppo a lungo i morti. Qualunque cosa stesse guardando non sembrava viva, come gli era stato promesso con solenne intimità pochi minuti prima. L’assenza di vita in quel corpo cosí familiare, i lineamenti rigidi e ritoccati di quel viso che conosceva fin da prima di nascere, facevano tutta la differenza del mondo. Davanti a lui c’era solo un oggetto in transito, diretto verso l’ultima tappa del suo percorso. Al posto del giocattolo di gomma o dello straccetto che i bambini usano per far fronte all’assenza della madre, gli era stato offerto un cadavere, le dita ossute che stringevano una rosa bianca artificiale con i rigidi petali di seta disposti sopra un cuore che non batteva piú. C’era in quel corpo il sarcasmo della reliquia e insieme il prestigio della metonimia. Il cadavere stava a rappresentare con la medesima autorevolezza sua madre e la sua assenza. In ogni caso, si trattava dell’ultima apparizione di Eleanor, prima di ritirarsi nei ricordi di chi l’aveva conosciuta.

Avrebbe dovuto guardare ancora, piú a lungo e senza astrazioni, ma come era possibile concentrarsi in quello sconcertante piano interrato? La Cappella dei Salici si trovava al di sotto di una strada molto frequentata, trafitta dalle squillanti declamazioni di chi chiacchierava al cellulare, e tatuata dal suono secco e scandito dei tacchi. Un taxi rombante emerse dal traffico centrando in pieno una pozzanghera e schizzando il marciapiede sopra l’angolo piú lontano del soffitto. Patrick ripensò dopo quasi dieci anni alla poesia di Tennyson: “Morta da tempo, / Da troppo tempo morta, / E il mio cuore è un pugno di polvere, / E le ruote mi scorrono sul capo, / Le mie ossa treman di dolore / Poiché non profonda abbastanza è la fossa, / Solo di un metro sotto la strada, / E battono, battono gli zoccoli / Sul cranio e sul cervello / Scorrono senza sosta i piedi dei passanti.” Non gli riusciva difficile capire perché l’agenzia Bunyon avesse deciso di chiamare quella stanza “la Cappella dei Salici” anziché “la Carbonaia” o “la Fossa”. «Salve, tesoro, tua madre è giú in Carbonaia» mormorò Patrick. «Potremmo liberare una colomba nella Fossa, ma non avrebbe nessuna via di fuga». Si sedette, dondolando con il busto sopra le braccia conserte. Aveva le budella in fiamme, come gli accadeva regolarmente da quando, tre giorni prima, aveva saputo che sua madre era morta. Non c’era bisogno di dieci anni di psicoanalisi per capire che la notizia lo aveva letteralmente “sventrato”. Si comportava come sempre quando era sotto pressione: osservava tutto, chiacchierava tra sé e sé in un profluvio di voci diverse, girando attorno ai sentimenti piú inaccettabili, in quel caso opportunamente racchiusi dentro la bara di sua madre.

Eleanor aveva lasciato il mondo con scricchiolante lentezza, scivolando centimetro dopo centimetro nell’oblio. All’inizio Patrick non aveva potuto fare a meno di apprezzare la quiete relativa della sua presenza, ma poi si era reso conto di essersi attaccato con tutte le forze ai rumori che venivano da fuori per non lasciarsi trascinare nel profondo pozzo di silenzio al centro della stanza. Doveva guardare piú da vicino, ma prima era indispensabile spegnere le luci abbaglianti che venivano dalle griglie cromate incassate nel soffitto basso di polistirene, e cancellavano quasi il brillio delle quattro grosse candele impalate su basi di ottone ai quattro angoli del feretro. Abbassò i faretti e restituí almeno parte della pompa ecclesiastica alle candele. C’era ancora una cosa che doveva controllare. Una tenda di velluto rosa divideva a metà la stanza; doveva scoprire cosa ci fosse dietro, prima di poter concentrare le sue attenzioni sulla madre. Dai suoi controlli emerse che lo spazio dietro la tenda era stato trasformato in una sorta di magazzino, pieno di materiali: un carrello grigio in metallo con le ruote mobili, dei semplici tubi di gomma e un enorme crocifisso dorato. Tutto ciò che occorreva per imbalsamare un cristiano. Eleanor era sempre stata convinta che, una volta morta, avrebbe incontrato Cristo in fondo a un tunnel. Quel poveraccio era schiavo dei suoi fan, costretto ad attendere per mostrare a folle di morti bramosi il paesaggio illuminato al neon oltre il canale che dall’annichilimento del corpo conduceva alla rinascita. Doveva essere dura venire scelti come cliché quintessenziale dell’ottimismo, la Luce in fondo al tunnel che regna sopra uno sfavillante esercito di bicchieri mezzi pieni, e di speranze che sono sempre le ultime a morire.

Patrick lasciò ricadere la tenda con qualche riluttanza, ammettendo che le fonti di distrazione erano ormai esaurite. Si accostò lentamente al feretro, come un uomo che si avvicini a un dirupo. Se non altro, sapeva già che nella bara c’era il cadavere di sua madre. Vent’anni prima, quando era andato a recuperare le spoglie del padre a New York, lo avevano spedito nella sala sbagliata. «In memoria dell’amato Hermann Newton». Aveva fatto del suo meglio per sottrarsi alla coscienza del lutto, ma stavolta non aveva intenzione di tentare la fuga. La parte piú fredda e distaccata della sua mente cercava di ricondurre le emozioni nel meandro degli aforismi, ma il dolore che gli squassava le viscere minava quest’ambizione e gettava lo scompiglio nelle sue difese.

Mentre guardava dentro la bara, si sentí invadere da una tristezza incontrollata, quasi animalesca. Avrebbe voluto soffermarsi incredulo accanto al corpo, dedicandogli almeno una parte delle attenzioni che aveva preteso quando era in vita: scuoterlo, toccarlo, rivolgergli una parola o un’occhiata inquisitoria. Si sporse e posò una mano sul petto di Eleanor, scioccato nel sentirne l’esilità. Si piegò e la baciò sulla fronte, scioccato nel sentirne il gelo. Quelle sensazioni cosí violente minarono ulteriormente le sue difese, e fu travolto da una potente ondata di affetto per quell’essere umano in rovina che si trovava davanti. Durante la sua effimera vita, quella sensazione immensa di tenerezza aveva ridotto la personalità di sua madre a un dettaglio, e il rapporto tra lei e Patrick al dettaglio di un dettaglio.

Tornò a sedersi e si piegò sopra le gambe incrociate, le braccia conserte nel tentativo di placare almeno in parte il dolore allo stomaco. Poi, tutto d’un tratto, fece un collegamento. Strano, certo, ma incontrovertibile. Aveva sette anni, ed era partito per il suo primo viaggio all’estero da solo con la madre, pochi mesi dopo il divorzio dei suoi genitori. Le prime immagini dell’Italia: le targhe bianche delle auto, l’azzurro della baia, il giallo ocra delle chiese. Dormivano all’Excelsior di Napoli, su un lungomare affollato di motorini ronzanti e di tram pieni come uova. Dal balcone della loro splendida camera, sua madre indicava gli scugnizzi acquattati sui tetti o appesi ai tram in corsa. Patrick, convinto che fossero a Napoli in vacanza, fu molto allarmato quando si sentí dire che Eleanor era venuta fin lí per salvare quei poveri bambini. C’era un uomo meraviglioso, un sacerdote che si chiamava Padre Tortelli, infaticabile nel raccogliere dalla strada ragazzini napoletani e sistemarli nel rifugio che Eleanor finanziava generosamente da Londra. Ora sua madre intendeva visitarlo per la prima volta. Non era eccitante? Non era una bella cosa da fare? Mostrò a Patrick una foto di Padre Tortelli: un uomo basso e tonico sulla cinquantina, che indossava una camicia nera e sembrava appena sceso da un ring di pugilato. Le sue braccia ursine cingevano le spalle fragili e ossute di due bambini abbronzati con indosso una veste bianca. Padre Tortelli li proteggeva dalla strada, ma chi li avrebbe protetti da Padre Tortelli? Non Eleanor. Lei gli forniva i mezzi per riempire il suo rifugio con un numero sempre crescente di orfani e sbandati. Quel giorno, dopo pranzo, Patrick ebbe un violento attacco di gastroenterite, e invece di abbandonarlo nel lusso per andare a occuparsi di altri bambini, sua madre fu costretta a rimanere con lui e a tenergli la mano mentre ululava di dolore nella stanza da bagno di marmo verde.

Stavolta, nessun dolore allo stomaco avrebbe potuto farla restare. Non che Patrick lo volesse, ma il corpo aveva una memoria tutta sua che continuava a produrre racconti, senza alcun riferimento ai suoi desideri attuali. Che cos’era stato a spingere Eleanor a rifornire di bambini sia suo padre che Padre Tortelli, e perché quell’impulso era stato tanto forte da indurla, dopo il crollo del suo matrimonio, a sostituire immediatamente un padre con un Padre, un dottore con un sacerdote? Patrick non dubitava che le ragioni fossero inconsce, proprio come la memoria del corpo che si era impadronita di lui negli ultimi tre giorni. Che cosa poteva fare se non trascinare quei frammenti fuori dalle tenebre, e riconoscerli come suoi?

Dopo un lieve bussare, la porta si aprí e l’addetto alle pompe funebri si affacciò nella stanza.

«Volevo solo assicurarmi che vada tutto bene» sussurrò.

«Può darsi di sí» disse Patrick.

Il rientro al suo appartamento ebbe una qualità vagamente allucinatoria per Patrick, impennato sopra la notte piovosa a bordo di un autobus fluorescente, travolto da un’ondata continua di nuove impressioni e antichi ricordi. A bordo c’erano due Testimoni di Geova: un nero che distribuiva volantini e una nera che predicava con voce stridula. «Pentitevi dei vostri peccati e accogliete Gesú nei vostri cuori, perché quando morirete sarà troppo tardi per chiedere perdono nella tomba, e brucerete tra le fiamme dell’inferno…».

Un irlandese con gli occhi arrossati e una logora giacca di tweed cominciò a strillare da uno dei sedili posteriori, a mo’ di contrappunto: «Chiudi quella boccaccia, brutta stronza. Va’ a fare un pompino a Satana. Non hai il diritto di fare questo, che tu sia musulmana, cristiana o satanista». Quando l’uomo con i volantini imboccò le scale per il piano superiore dell’autobus, l’irlandese insisté, caricando il suo accento di una sadica cadenza sudista. «Ti vedo, ragazzo. Pensa come staresti bene con la testa mozzata sotto un braccio, ragazzo. Se quella stronza non chiude il becco, ti cambio i connotati, ragazzo».

«Oh, chiudi il becco tu, piuttosto» intervenne un pendolare, esasperato.

Patrick notò che i suoi dolori di stomaco erano spariti. Guardò l’irlandese che si agitava sul sedile, muovendo le labbra in una silenziosa disputa con la Testimone di Geova, o forse con un Gesuita che aveva funestato la sua infanzia. Affidateci un bambino prima dei sette anni, e sarà nostro per sempre. Non io, pensò Patrick. Non mi avrete mai.

Mentre l’autobus procedeva incerto verso la sua destinazione, ripensò a quelle notti rare ma fondamentali nel Reparto aspiranti suicidi, quando si sfilava di dosso una maglietta zuppa di sudore dopo l’altra e scalciava via le lenzuola come fosse in una sauna, per poi combattere il gelo della loro assenza; quando accendeva e spegneva l’interruttore perché la luce gli feriva gli occhi e le tenebre lo mettevano in allarme, mentre una velenosa emicrania gli pesava sul cervello come la zavorra di una mongolfiera. Non si era portato niente da leggere a parte Il libro tibetano dei morti, nella speranza di trovare la sua esotica iconografia abbastanza ridicola da cancellare ogni convinzione residuale che la coscienza potesse sopravvivere alla morte. In realtà, la sua immaginazione si era lasciata sedurre da un passo dell’introduzione al Bardo Thodol: “O figlio nobile, quando il tuo corpo e la tua mente si separavano, devi aver intravisto un barlume della Suprema Verità, sottile, splendente, accecante, gloriosa, come un miraggio che attraversi una scena primaverile in un unico, ininterrotto flusso di vibrazioni. Non lasciarti intimorire, terrorizzare, spaventare. Quello che hai intravisto è lo splendore della tua stessa, autentica natura. Devi soltanto riconoscerlo”.

Quelle parole avevano un’autorevolezza psichedelica che dominava sul materialismo nichilista nel quale Patrick avrebbe voluto credere con tutto se stesso. Si sforzò in ogni modo di ripristinare la sua fede nella natura definitiva della morte, ma non poté fare a meno di vederla come una superstizione non diversa dalle altre e priva di un fondamento razionale che potesse distinguerla. L’idea che la vita dopo la morte fosse stata inventata per rassicurare chi non riusciva a far fronte all’inesorabilità del decesso era non meno plausibile dell’idea che la natura definitiva della morte fosse stata inventata per rassicurare chi non riusciva a sopportare l’incubo di un’esperienza infinita. Il delirium tremens collaborava con i poeti del Bardo a produrre un senso di inesorabile folgorazione mentre Patrick veniva trascinato verso il mattatoio del sonno, terrorizzato all’idea che, mentre la sua mente razionale veniva macellata, potesse apparirgli, come in un miraggio, “un barlume della Suprema Verità”.

I ricordi e le frasi apparivano e svanivano come banchi di nebbia notturni. I pensieri lo minacciavano da lontano, per poi scomparire non appena provava ad avvicinarsi. “Annegato nei sogni, sognavo di sparire”. Chi lo aveva detto? Sempre e comunque parole di qualcun altro. Non lo aveva già pensato, che quelle parole non gli appartenevano? Le cose sembravano remote e, un istante dopo, aveva l’impressione di ripeterle di continuo. Era calzante il paragone con la nebbia o era meglio pensare alla sabbia bollente, una materia nella quale era immerso e in cui avanzava a fatica, e che al contempo cercava in ogni modo di non sfiorare? Freddo e bagnato, caldo e secco. Come potevano essere vere entrambe le cose? E come potevano non essere vere? Similitudini dissimili: ecco un’altra definizione che sembrava inseguire se stessa, come un trenino su un circuito ad anello. Avrebbe fatto qualunque cosa, perché si fermasse.

Una scena che continuava a riversarsi nel delirio dei suoi pensieri era la sua visita al filosofo Victor Eisen, reduce da un’esperienza di semimorte. Aveva trovato il suo antico vicino di casa a Saint-Nazaire nella clinica di Londra, ancora attaccato ai macchinari che, pochi giorni prima, avevano segnalato una linea piatta. Le braccia gialle e rinsecchite di Victor emergevano fiacche da un camice ospedaliero, ma quando descrisse ciò che gli era accaduto la sua voce fu sciolta ed enfatica come ai bei tempi, saturata da una vita intera di fiduciose opinioni.

«Sono arrivato in riva a un fiume, e sulla sponda opposta c’era una luce rossa che controllava l’universo. In piedi ai lati della luce c’erano due figure, e io sapevo che si trattava del Signore del Tempo e del Signore dello Spazio. Comunicavano con me in via diretta, attraverso il pensiero e senza bisogno di parlare. Mi hanno detto che il tessuto spazio-temporale si era lacerato e che spettava a me rammendarlo; che il destino dell’universo era nelle mie mani. Sapevo di dover agire in fretta e con decisione, ma quando mi apprestavo a eseguire il mio compito mi sono sentito tirar via, dentro il mio corpo, e con grande riluttanza sono tornato».

Per tre settimane, Victor era stato conquistato dal senso di autenticità che accompagnava la sua visione, ma poi le consuetudini dell’ateismo che aveva professato in pubblico e il timore che le semplificazioni logiche che innervavano la sua opera filosofica potessero essere invalidate lo indussero a comprimere quelle impressioni di infinita apertura all’interno della crisi biologica di cui aveva sofferto in quei momenti cruciali. Decise che l’irrinunciabile missione di cui era stato investito dai controllori dell’universo era un’allegoria prodotta da un cervello in debito di ossigeno. Ben lungi dall’espandersi, la sua mente aveva subíto un arresto.

Mentre se ne stava steso in quella stanza angusta, sudando e pensando al bisogno di Victor di decidere sul significato di ogni cosa, Patrick si chiese se sarebbe mai riuscito ad alleggerire il suo ego al punto di rilassarsi, senza sentirsi costretto a stabilire il senso ultimo di ogni minimo dato di realtà, e che sensazione avrebbe provato, in quel caso.

Nel frattempo, il Reparto aspiranti suicidi si dimostrava pienamente all’altezza del suo nome altisonante, offrendogli il destro per capire che il suicidio aveva sempre rappresentato lo scenario indiscusso della sua esistenza. Prima ancora di prendere l’abitudine di portare una copia del Mito di Sisifo nella tasca del soprabito, trasformando la frase d’apertura del libro nel mantra dei suoi vent’anni, Patrick salutava l’inizio di ogni giornata con il quesito fondamentale: “È possibile pensare a un solo buon motivo per non togliersi la vita?”. Poiché in quel periodo viveva in una condizione di solitudine teatrale, affollata di voci pazze e irridenti, era improbabile che potesse trovare da qualche parte una risposta affermativa. Il massimo in cui poteva sperare era un argomentato posticipo, e alla fine l’obbligo di chiacchierare era prevalso sul desiderio di morte. Nei vent’anni successivi, il costante blaterio suicida si era ridotto a un sussurro occasionale, pronunciato costeggiando una scogliera o aspettando il proprio turno in una silenziosa farmacia. E quando riprendeva forza, assumeva la forma di un tetro monologo, anziché di un coro surreale. La relativa semplicità degli ultimi accessi gli aveva fatto capire che il suo amore per una morte serena era sempre stato superficiale, e che era attratto in modo ben piú profondo dalla sua stessa personalità. Il suicidio indossava la maschera del rifiuto di sé, ma in realtà nessuno prendeva la propria personalità piú sul serio di chi programmava di uccidersi, seguendone nel dettaglio le istruzioni. Nessuno era piú determinato a mantenere il controllo a ogni costo, inglobando gli aspetti piú misteriosi dell’esistenza all’interno del proprio imperioso disegno.

Il mese trascorso al Priory era stato un periodo cruciale della sua vita, perché aveva saputo trasformare la crisi che aveva portato alla fine del suo matrimonio e all’escalation del suo alcolismo. Era inquietante pensare a quanto fosse stato vicino alla fuga, dopo soli tre giorni dal ricovero, seguendo il richiamo dell’allontanamento di Becky. Prima di andarsene, la ragazza lo aveva trovato nella sala d’aspetto dell’ala riservata ai depressi.

«Cercavo proprio te. Non vogliono che parli con nessuno» disse, in un sussurro beffardo, «perché sono una pessima influenza».

Gli consegnò un foglietto ripiegato e gli scoccò un bacio leggero sulle labbra prima di correre via.

Questo è l’indirizzo di mia sorella. È andata negli Stati Uniti, perciò sarò da sola, se ti va di scappare da questo posto di merda e fare qualcosa di FOLLE. Un bacio. Becks.

Quel messaggio gli fece tornare in mente quante volte aveva annotato la parola FOLLE a margine dei suoi appunti di chimica, a scuola, dopo essersi fatto uno spinello durante la ricreazione. Farle visita era fuori questione, si disse, mentre chiamava un servizio di taxi usando la lista di numeri utili che si trovava nella cabina telefonica sotto le scale del retro. Era questo che intendevano, quando alludevano alla sua mancanza di volontà?

«Non farlo!» borbottò, sbattendo con forza la porta del minicab per dimostrare quanto fosse deciso a non imbarcarsi in una sanguinosa kermesse di disfunzioni. Diede all’autista l’indirizzo scritto sul foglietto di Becky.

«Deve star meglio, se la lasciano uscire» disse il tassista con fare scherzoso.

«Ho deciso io. Non potevo permettermi di restare».

«È parecchio costoso, eh?».

Patrick non rispose, stordito dal desiderio e dai conflitti interiori.

«Ha mai sentito quella dell’uomo che entra nello studio di uno psichiatra?» chiese l’autista, avviandosi lungo il viale d’accesso dell’ospedale e sorridendo nello specchietto retrovisore. «Dice, “È terribile, dottore, per tre anni ho creduto di essere una farfalla, ma adesso va ancora peggio: negli ultimi tre mesi mi sono convinto di essere una falena”. “Cristo santo” risponde lo psichiatra, “dev’essere un periodo davvero complicato, per lei. Che cosa l’ha indotta a venire qui e chiedere il mio aiuto?”. “Be’” dice l’uomo, “ho visto la luce alla finestra, mi sono sentito attratto e sono volato dritto sul suo tavolo!”».

«Niente male» disse Patrick, sempre piú occupato a immaginare Becky nuda e al contempo chiedendosi quanto sarebbero durati ancora gli effetti dell’ultima dose di Oxazepam. «Si è specializzato a trasportare pazienti del Priory per via del suo carattere solare?».

«Non ci crederà» rispose l’autista, «ma l’anno scorso per quattro mesi non sono riuscito letteralmente ad alzarmi dal letto: tutto mi sembrava privo di senso».

«Oh, mi spiace» disse Patrick.

Dalla Hammersmith Broadway fino alla rotatoria di Shepherd’s Bush parlarono degli accessi di pianto immotivati, degli incubi a occhi aperti, del senso esasperante di lentezza, delle notti insonni e delle giornate inutili. Quando arrivarono a Bayswater erano amici per la pelle, e il tassista si voltò verso Patrick e disse, con roboante, riconquistata allegria, «Tra qualche mese ripenserai a quello che hai passato e dirai, ma qual era il problema? Perché tanta agitazione, e tanta tristezza? Almeno, è questo che è successo a me».

Patrick diede ancora un’occhiata al foglietto di Becky. Si era firmata col nome di una birra. Becks. Cominciò a sussurrare sotto voce, rauco, in un’imitazione di Marlon Brando nel ruolo di Vito Corleone: «La persona che verrà da te e ti chiederà un incontro, e avrà lo stesso nome di una nota marca di birra… quella è la persona che vorrà farti avere una ricaduta…».

Le voci no: doveva assolutamente tenerle a bada. «Cominci con un po’ di Marlon Brando» sospirò Mrs Mop, «e senza neanche accorgertene…».

«Silenzio!» la interruppe Patrick.

«Come hai detto?».

«Scusa, non parlavo con te».

Svoltarono in una grande piazza con un giardino al centro. Il tassista accostò di fronte a un palazzo stuccato di bianco. Patrick si sporse su un lato per guardare fuori dal finestrino. Becky era al terzo piano, bella, disponibile e malata di mente.

Ripensò alle cose che aveva fatto pur di avere un po’ di intimità; alla terra che gli volava alle spalle mentre si scavava la fossa da solo. Alle tante brave donne che gli avevano prestato tutte le cure che non aveva mai riservato a se stesso. Doveva torturarle perché lo lasciassero andare, dimostrando cosí che non ci si poteva fidare di loro. E poi c’erano le donne cattive, che ti facevano risparmiare tempo dimostrandosi inaffidabili fin da subito. In generale, preferiva alternare tra quelle due categorie femminili, lasciandosi incantare da qualche variante che, seppur brevemente, sembrava smentire l’assoluta futilità di qualunque tentativo di difendere la fortezza in disarmo della propria personalità, nella speranza che gli facesse la cortesia di riorganizzarsi, trasformandosi in un tempio di pace e compiutezza. Sperare e soffrire, soffrire e sperare. Bastava un briciolo di distacco, e la sua vita amorosa prendeva le sembianze di un giocattolo a molla, costretto a marciare all’infinito sopra il precipizio di un tavolo da cucina. La fase dell’idillio era quella in cui l’amore era piú in pericolo, non quella in cui poteva raggiungere la sua espressione piú alta. Se una candidata era sufficientemente inadeguata, come Becky, assumeva il magnetismo di chi è in tutta evidenza destinato al fallimento. Era imbarazzante illudersi, e ancor piú imbarazzante reagire all’illusione, come un uomo che fugga dalla sua stessa ombra.

«So che ti sembrerà un po’ da pazzi, in mancanza di una parola migliore» disse Patrick sbottando a ridere, «ma credi di potermi riportare indietro? Non sono ancora pronto».

«Al Priory?» chiese il tassista, in un tono improvvisamente assai meno comprensivo.

Non ne vuole sapere, di quelli tra noi che sono costretti a tornare indietro, pensò Patrick. Chiuse gli occhi e si allungò sul sedile di dietro. “Parole su parole, che avanzano di sbieco… qualcosa…. qualcosa… Sfuggire al manicomio dell’intero…”. L’intero. La meravigliosa inarticolatezza del termine, carico di minaccia e di un’urgenza che lo fa immediatamente contrarre.

Sulla via del ritorno, Patrick cominciò a sentire dei dolori al petto che neppure la violenza con cui aveva desiderato un idillio al limite della patologia poteva spiegare. Le mani gli tremavano e sentiva il sudore colare a rivoli dalla fronte. Quando arrivò nello studio del dottor Pagazzi soffriva di lievi allucinazioni e sembrava intrappolato in uno spazio bidimensionale, come un insetto che strisci sul vetro di una finestra, cercando una via d’uscita. Il dottor Pagazzi lo sgridò perché aveva saltato la dose di Oxazepam delle quattro, spiegandogli che avrebbe potuto rischiare l’infarto, se avesse interrotto il trattamento in modo troppo brusco. Patrick sollevò il tubetto di plastica con la mano tremante e mandò giú tre Oxazepam.

Il giorno dopo “condivise” il tentativo di fuga con il Gruppo anti-depressione. Venne fuori che quasi tutti avevano provato a scappare, o lo avevano fatto per poi tornare indietro, o avevano pensato continuamente di farlo. Alcuni provavano invece un autentico terrore all’idea di andarsene, ma erano diversi solo in apparenza da chi voleva scappare: non c’era un solo paziente che non fosse ossessionato dalla quantità di terapia necessaria prima di poter riprendere una “vita normale”. Patrick fu stupito di quanto si sentisse grato per il senso di solidarietà verso gli altri pazienti. L’abitudine inveterata di tenersi in disparte era stata travolta per qualche istante da un’ondata di benevolenza nei confronti di tutti i membri del gruppo.

Johnny Hall aveva preso posto con discrezione quasi in fondo alla sala. Patrick girò intorno alla panca per raggiungere il suo vecchio amico.

«Come stai?» chiese Johnny.

«Bene, tutto sommato» rispose Patrick, sedendoglisi accanto. «Provo uno strano senso di eccitazione che non sarei disposto ad ammettere con nessuno, a parte te e Mary. I primi giorni stavo piú o meno a pezzi, ma poi ho avuto quella che voi psicoanalisti definireste una “intuizione”. Ieri sera sono andato all’agenzia di pompe funebri e mi sono seduto accanto al cadavere di Eleanor. E ho sentito una connessione… ma magari te ne parlo piú tardi».

Johnny sorrise con aria incoraggiante. «Cristo» disse, dopo un istante di silenzio, «Nicholas Pratt. Non mi aspettavo di vederlo».

«Neanche io. Se non altro, per tua fortuna, hai un’ottima ragione etica per non rivolgergli la parola».

«E non vale per tutti?».

«Direi di sí».

«Ci vediamo piú tardi, agli Onslow» disse Johnny, lasciando Patrick alle prese con l’usciere, che gli si era avvicinato e attendeva in piedi, con fare rispettoso.

«Appena si sente pronto possiamo cominciare» disse l’usciere, forse alludendo alla pila di cadaveri che si sarebbero ammucchiati se la cerimonia non fosse iniziata subito.

Patrick percorse rapidamente con lo sguardo la sala. C’erano una quarantina di persone sedute sulle panche, di fronte alla bara di Eleanor.

«D’accordo» rispose. «Cominciamo tra dieci minuti».

«Dieci minuti?» ripeté l’usciere, con il tono di un ragazzino cui fosse stato appena detto che avrebbe potuto fare qualcosa di davvero eccitante, ma solo quando avesse compiuto ventun anni.

«Sí, c’è ancora gente che sta arrivando» disse Patrick, notando Julia in piedi sulla porta, una puntuta esplosione di nero contro l’opacità del mattino: velo nero, cappello nero, severo abito nero di seta e, immaginò, biancheria intima di seta nera. Sentí immediatamente l’impatto della sua forma mentis: una sensibilità intensa ma esclusiva. Era come la tela di un ragno, pronta a tremare al tocco piú lieve, ma indifferente alla luce del sole che faceva splendere i suoi fili nell’erba bagnata.

«Arrivi giusto in tempo» disse Patrick, baciandola attraverso il velo ruvido e nero.

«Vuoi dire tardi, come al solito».

«No: giusto in tempo. Stiamo per dare inizio alle ostilità, se è questo il termine appropriato».

«Non lo è, direi» rispose lei, con quel risolino di gola che lo eccitava sempre.

L’ultima volta che si erano visti era stata in quell’albergo francese dove la loro relazione aveva avuto termine. Nonostante le camere comunicanti, non avevano trovato una sola cosa da dirsi. Seduti lungamente a tavola, sotto la volta di un cielo artificiale, cosparso di nuvole appena sbozzate e di ghirlande di rose che sembravano sul punto di precipitare, erano rimasti a fissare una scalinata che scendeva fino alle chiglie delle barche, cullate dalle onde in una caletta privata, le corde che scricchiolavano contro le bitte, le bitte che arrugginivano sulle banchine di pietra, in un unico, intenso desiderio di lasciarsi tutto alle spalle.

«Ora che non stai piú con Mary, non hai bisogno di me. Ero… strutturale».

«Esatto».

Una risposta secca, al punto che solo il silenzio avrebbe potuto risultare peggiore. Julia si era alzata e si era allontanata, senza altri commenti. Un gabbiano si era lanciato in volo dalla balaustrata sozza di escrementi, puntando dritto verso il mare aperto, con uno strido acuto. Avrebbe voluto chiederle di tornare indietro, ma l’impulso era rimasto soffocato nello spesso tappeto che si allungava tra di loro.

Guardandolo adesso, nei panni del figlio appena colpito da un lutto, Julia decise che si sentiva lontanissima da Patrick, pur desiderando ovviamente che la trovasse irresistibile.

«Non ti vedo da una vita» disse Patrick, lo sguardo fisso sulle labbra di Julia, rosse sotto la rete nera del velo. Continuava a provare una sconveniente attrazione per quasi tutte le donne con cui era andato a letto, anche quando la sola idea di un ritorno di fiamma gli provocava un moto di avversione.

«Un anno e mezzo» disse Julia. «È vero che hai smesso di bere? Dev’essere dura, soprattutto adesso».

«Niente affatto: le crisi richiedono sempre la presenza di un eroe. I problemi cominciano quando le cose vanno bene, o almeno, è quanto mi è stato detto».

«Se non riesci a parlare di te stesso e dire che le cose vanno bene, significa che non sono cambiate granché».

«Sono cambiate, ma il mio vocabolario ha bisogno di tempo per adattarsi».

«Non vedo l’ora».

«Se mi si presenta un’opportunità per fare dell’ironia…».

«La cogli sempre al volo».

«È la dipendenza peggiore in assoluto» disse Patrick. «Altro che l’eroina. Non esiste impresa piú disperata che cercare di abbandonare l’ironia, il bisogno profondo di intendere una cosa e il suo contrario, di essere in due posti nello stesso istante, di sfuggire alla catastrofe dei significati inequivocabili».

«Non farlo!» esclamò Julia. «Ho già abbastanza problemi a mettermi i cerotti alla nicotina quando in realtà ancora fumo. Non togliermi la mia dose di ironia» lo implorò, afferrandolo con teatralità per un braccio. «O almeno, lasciami un briciolo di sarcasmo».

«Il sarcasmo non conta. Implica una sola cosa: disprezzo».

«Sei sempre stato fissato con la qualità» disse Julia. «Ma ad alcuni di noi il sarcasmo piace».

Julia si rese conto che stava giocando con Patrick. Provò una lieve fitta di nostalgia, ma si irrigidí subito, ricordando a se stessa che si era sbarazzata di lui già da un pezzo. E poi, adesso aveva Gunther, un affascinante banchiere tedesco che trascorreva a Londra i giorni centrali della settimana. Era sposato, questo sí, come del resto lo era stato Patrick ai tempi della loro relazione, ma per il resto non avrebbe potuto essere piú diverso: scaltro, in gran forma, ricco e disciplinato. Aveva sempre i biglietti per l’opera, prenotazioni nei bar dove si consumava caviale, tessere dei nightclub, il tutto organizzato per lui dalla sua assistente personale. A volte si sbarazzava di ogni precauzione, si infilava i suoi jeans scoloriti e il giubbotto di pelle con la zip e la portava ad ascoltare jazz nei posti piú inusuali della città, sempre naturalmente con una grossa auto rassicurante che li attendeva fuori dai locali per riportarli a Hays Mews, alle spalle di Berkeley Square, dove Gunther, come tutti i suoi amici, stava facendo costruire una piscina nel seminterrato della dépendance della sua villetta a tre livelli. Collezionava orrendi esemplari di arte contemporanea comprando a casaccio, con la credulità tipica di chi ha amici nel settore. Nella sua dressing room c’erano foto artistiche in bianco e nero di capezzoli femminili. In sua compagnia Julia si sentiva sofisticata, ma non aveva mai la minima voglia di scherzare. Non le passava neanche lontanamente per la testa. Gunther non aveva mai dovuto lottare per sbarazzarsi dell’ironia. Naturalmente ne conosceva l’esistenza e la perseguiva ostinatamente, con tutta la stupidità di cui disponeva.

«Sarà meglio che troviamo da sederci» disse Patrick. «Non ho idea di come si svolgeranno le cose: non ho avuto neanche il tempo di dare una scorsa alla scaletta».

«Ma non hai organizzato tutto tu?».

«No, ci ha pensato Mary».

«Che dolce!» disse Julia. «È sempre cosí servizievole: ti fa da madre molto piú di tua madre».

Julia sentí il cuore che le accelerava nel petto; forse aveva esagerato. Era sorpresa dal fatto che il suo antico spirito competitivo verso quel modello di virtú fosse riesploso cosí all’improvviso, quando ormai non aveva piú ragione di essere.

«È stato proprio cosí, finché non ha avuto dei veri figli di cui occuparsi» disse Patrick, placido. «A quel punto, la mia copertura è saltata».

Se per un attimo aveva temuto che Patrick potesse offendersi, ora Julia scoprí che la sua calma la faceva infuriare.

L’organo prese vita, e le prime note si diffusero nella sala.

«Be’, che tu ci creda o no, devo ridurre in ceneri le spoglie mortali della sola madre che io abbia mai avuto» disse Patrick, rivolgendo a Julia un sorriso sbrigativo e avviandosi verso la prima fila, dove Mary gli aveva tenuto un posto.