5.

Nella speranza di tenere a bada quel doloroso accesso di risa, Patrick respirò lentamente e si concentrò sulla tensione sorda che contraddistingue l’attesa. L’organo sospirò, quasi fosse stanco di cercare una partitura decente, quindi riprese le sue peregrinazioni, rassegnato. Patrick sapeva di dover riprendere il controllo di sé; era venuto a piangere sua madre, un compito della massima serietà.

C’erano però diversi ostacoli sulla sua strada. La rabbia per aver perso la sua casa in Francia gli aveva reso a lungo impossibile superare il proprio risentimento nei confronti di Eleanor. Senza Saint-Nazaire, la sua parte piú primitiva si trovava privata di quell’attaccamento immaginario che, nell’infanzia, lo aveva preservato dalla follia. Il suo attaccamento a quei luoghi era dovuto senza dubbio alla loro bellezza, ma, a un livello ancor piú profondo, a quel senso segreto di protezione cui non osava rinunciare, per paura di rimanere distrutto. I volti mutevoli creati dai crepacci, le macchie e le cavità della montagna calcarea di fronte alla villa gli avevano tenuto compagnia, giorno dopo giorno. La fila di pini sulla cresta gli era parsa una colonna di soldati pronti a soccorrerlo. Vi erano nascondigli dove nessuno era mai riuscito a scovarlo, e terrazze di vitigni da cui saltava ogni volta che voleva fuggire, e che gli davano la sensazione di poter volare. C’era un pozzo pericolosissimo dove gettare sassi e zolle di terra per poi guardarli annegare senza dover correre lo stesso rischio. L’elemento piú eroico in assoluto era rappresentato dal geco che aveva preso in custodia la sua anima in un momento di crisi, per poi schizzare sul tetto, al sicuro e in esilio. Povera bestia: come avrebbe fatto a ritrovare quel bambino, se Patrick non era piú lí?

L’ultima notte che aveva trascorso a Saint-Nazaire c’era stato un temporale spettacolare. I lampi si scatenavano dietro banchi di nubi, illuminando a giorno la cavità buia della vallata. All’inizio, grosse gocce da pioggia tropicale avevano macchiato qua e là il terreno polveroso, ma ben presto rivoli d’acqua avevano preso a riversarsi lungo i sentieri in pendenza, mentre piccole cascate scorrevano da una terrazza all’altra. Patrick era uscito di casa sotto la pioggia fitta e calda, pieno di rabbia. Sapeva di dover sciogliere il patto magico che lo legava a quei luoghi, ma l’elettricità nell’aria e la violenta protesta del temporale avevano rivitalizzato la sua mentalità arcaica di bambino, come se gli stessi accordi di piano, suonati con violenza dal tuono e dalle raffiche di pioggia, scorressero nel suo corpo e dentro la terra. Con il viso bagnato non c’era bisogno di piangere, e con il cielo che rimbombava sulla sua testa non era necessario gridare. Rimase in piedi sul viale, in mezzo alle pozze lattiginose, al mormorio di nuovi ruscelli e al profumo del rosmarino bagnato, finché non si lasciò cadere a terra, travolto dal peso di ciò cui non riusciva a rinunciare, e restò seduto immobile sulla ghiaia mista a fango. I lampi, biforcandosi, atterravano come corna di cervo sulla montagna di calcare. Nel bagliore improvviso intravide una sagoma che strisciava tra lui e il muro che delimitava il viale. Stringendo gli occhi per vedere meglio, si rese conto che un rospo si era avventurato in quel mondo acquatico oltre le siepi di alloro, abbandonando il nascondiglio dove Patrick immaginava che avesse trascorso l’intera estate, aspettando la pioggia; e ora se la godeva, in panciolle, su una striscia fangosa tra due pozzanghere. Rimasero seduti uno di fronte all’altro, perfettamente immobili.

Patrick rivide nella mente i corpi biancastri dei rospi morti che trovava, ogni primavera, in fondo alle pozze di pietra. Intorno ai loro corpi svuotati, centinaia di girini neri e mollicci si abbarbicavano alle alghe grigioverdi sulle pareti delle pozze, o strisciavano fino al lago, o si riversavano nei rigagnoli che trasportavano l’acqua da una pozza all’altra, tra la sorgente e il ruscello che scorreva a fondovalle. Alcuni dei girini scivolavano verso il basso, senza opporre resistenza, mentre altri nuotavano frenetici controcorrente. A Pasqua Robert e Thomas trascorrevano ore e ore tra le pozze, a rimuovere le piccole dighe che si formavano ogni notte e, quando la parte coperta del canale era bloccata e l’erba invadeva il laghetto piú in basso, a sollevare i girini tra le mani chiuse a coppa. Patrick ricordava di aver fatto lo stesso quando era bambino, e riviveva il senso di infinita compassione che lo invadeva quando li liberava, lasciandoli scivolare tra le dita bagnate nel laghetto, al sicuro.

In quei giorni c’era stato un coro di rane nelle serate di primavera, mentre durante il giorno le rane toro, acquattate sulle foglie di ninfea del laghetto a mezzaluna, si gonfiavano come i palloncini delle gomme da masticare; ma nel sistema di protezione immaginario che la terra gli offriva, erano solo le raganelle portafortuna, a contare davvero. Se fosse riuscito a toccarne una, era certo che tutto sarebbe andato per il meglio. Non era facile trovarle. Le ventose che avevano sulle zampe consentivano loro di appendersi agli alberi, mimetizzandosi nel verde acceso di una foglia appena germogliata o di un fico non ancora maturo. Quando vedeva una di quelle raganelle immobile contro il grigio liscio della corteccia, la pelle brillante tesa a mostrare lo scheletro, gli sembrava quasi un gioiello che pulsasse dall’interno. Allungava il dito indice e la sfiorava appena, in un gesto augurale. Poteva anche essere successo una sola volta, in realtà, ma Patrick ci pensava continuamente.

Ricordando quel gesto incerto e carico di aspettative, la testa verrucosa e fradicia del rospo che aveva di fronte gli ispirò un certo scetticismo. Al tempo stesso, gli tornò in mente la sua edizione commentata di Re Lear, e la nota a piè di pagina sul gioiello nella testa del rospo, un emblema dei tesori nascosti nel cuore delle esperienze piú sgradevoli, torbide, repellenti. Un giorno sarebbe riuscito a fare a meno delle superstizioni, ma non ora. Si allungò e toccò la testa del rospo. Fu colto da un timore reverenziale molto simile a quello che aveva provato da bambino, ma la rinnovata consapevolezza di cosa stava per perdere conferí a quel sentimento un’intensità annichilente. La folle fusione di mitologie diverse creò un eccesso di significati che avrebbe potuto capovolgersi a ogni istante in una totale assenza di senso. Si ritrasse, e come chi ritorni ai compromessi famigliari del proprio appartamento in città dopo un lungo viaggio in terre esotiche, ammise di essere un uomo di mezza età, eccentricamente seduto al centro del suo vialetto, nel bel mezzo di un temporale, impegnato nel tentativo di comunicare con un rospo. Si alzò, irrigidito, e si avviò verso casa trascinando i piedi, sentendosi realisticamente infelice, ma continuando a battere i piedi nelle pozzanghere, quasi a voler sfidare la sua inutile maturità.

Eleanor aveva ceduto Saint-Nazaire, ma almeno prima glielo aveva messo a disposizione come un gigantesco sostituto di se stessa, una madre terra pronta a coprire le sue incapacità. In un certo senso, la bellezza del luogo era un’esca: i rami dei mandorli in fiore che si stagliavano contro un cielo senza nubi, le iris non ancora sbocciate, come pennelli immersi nel blu, la resina trasparente e ambrata che colava dalla corteccia canna di fucile dei ciliegi… erano tutte esche, e doveva smettere di pensarci. Il bisogno di protezione di un bambino sarebbe riuscito a creare un sistema con qualunque materiale fosse disponibile, per quanto rituale e bizzarro. Che si trattasse di un ragno nello sgabuzzino delle scope, della breve apparizione di un vicino dall’ombra di un palazzo, o del numero di automobili rosse tra la porta di casa e i cancelli della scuola, ciascuno di questi elementi avrebbe potuto caricarsi il peso dell’amore e delle rassicurazioni. Nel suo caso, era stato il pendio di una collina, in Francia. La sua villa si stendeva tra i pini scuri in cima al declivio e i bambú chiari che crescevano sul bordo del ruscello, a fondovalle. In mezzo si susseguivano le terrazze, dove i vitigni crescevano prorompenti da tronchi contorti che d’inverno sembravano pali di ferro arrugginiti, e gli ulivi passavano dal verde al grigio e viceversa, a ogni soffio di vento. A metà circa del declivio c’era il gruppo di edifici e cipressi e il sistema di laghetti collegati dove aveva vissuto gli orrori piú profondi e negoziato le tregue piú durevoli. Perfino il ripido versante della montagna di fronte alla villa era stato colonizzato dalla sua immaginazione, e non solo per l’esercito di alberi che marciavano lungo la cresta. In seguito, la ribellione di quel luogo impervio a ogni umana colonizzazione era divenuta l’immagine del suo stesso distacco dal mondo, peraltro ben meno affidabile.

Nessuno poteva trascorrere tutta la vita in un luogo senza sentirne la mancanza una volta che l’avesse abbandonato. Le fallacie patetiche, le proiezioni, sostituzioni e dislocamenti facevano tutti parte del traffico che inevitabilmente si stabilisce tra una mente e il paesaggio che la circonda, ma vista l’intensità patologica che aveva conferito a quelle attività, per Patrick era vitale comprenderne il significato ultimo. Come sarebbe stato vivere senza consolazioni, o senza il desiderio di esse? Non lo avrebbe mai scoperto, se non avesse sradicato il sistema consolatorio che aveva preso vita sulla collina a Saint-Nazaire per poi estendersi a ogni armadietto dei medicinali, a ogni letto e a ogni bottiglia in cui si fosse imbattuto; surrogati che surrogavano altri surrogati: il sistema era sempre piú essenziale rispetto ai contenuti, e ancor piú essenziale era l’atto mentale alla base del sistema stesso. E se i ricordi fossero stati ricordi e nient’altro, senza alcun potere consolatorio o persecutorio? Sarebbero esistiti, in quel caso, o era sempre una pressione di tipo emotivo a evocare immagini da quello che potenzialmente era l’intero campo delle esperienze vissute? Ma anche se le cose stavano in quei termini, dovevano comunque esistere bibliotecari migliori del panico, del risentimento e della nostalgia divorante, per frugare tra gli scaffali bui e sovraccarichi.

Mentre, di norma, la generosità derivava dal desiderio di donare qualcosa a qualcuno, la filantropia di Eleanor era figlia del desiderio di donare tutto a chiunque. Le origini di questa smania compulsiva erano complesse. Coesistevano la coazione a ripetere di una figlia diseredata; il rifiuto del materialismo e dello snobismo che avevano caratterizzato il mondo di sua madre; un senso di vergogna per il mero fatto di possedere del denaro e un impulso inconscio a far convergere il proprio valore netto e la propria autostima verso lo zero assoluto; ma a parte tutte queste forze negative, c’era anche il precedente ispiratore della sua prozia, Virginia Jonson. Con un entusiasmo insolito quando si trattava dei suoi antenati, Eleanor aveva illustrato a Patrick nei minimi dettagli la portata eroica delle opere caritatevoli realizzate da Virginia, e la sua capacità di trasformare le vite di tante persone, esibendo quell’ardente altruismo che spesso risulta piú caparbio perfino del piú sfacciato tra gli egoismi.

Virginia aveva già perso due figli quando suo marito era morto, nel 1901. Nei venticinque anni successivi aveva dilapidato metà della fortuna dei Jonson con la sua luttuosa filantropia. Nel 1903 aveva donato venti milioni di dollari al Thomas J. Jonson Memorial Fund, seguiti da altri venticinque milioni nel suo testamento, in un periodo nel quale una somma del genere era davvero impressionante, e non il classico bonus natalizio di un mediocre manager specializzato in speculazioni finanziarie. Aveva collezionato anche dipinti di Tiziano, Rubens, Van Dyck, Rembrandt, Tintoretto, Bronzino, Lorenzo di Credi, Murillo, Velàzquez, Hals, Le Brun, Gainsborough, Romney e Botticelli, per poi donarli all’Ala Jonson del Museo di Cleveland. Quel retaggio culturale era la cosa che interessava meno Eleanor, forse perché somigliava troppo alla smania di accumulazione ben presente anche nel suo ramo della famiglia Jonson. Quelle che ammirava veramente erano le opere di bene di Virginia, gli ospedali e le sedi della YMCA che aveva fatto costruire, la nuova cittadina che aveva creato su un terreno di quattrocento acri, nella speranza di svuotare gli slum di Cleveland dando ai poveri un alloggio ideale. La città si chiamava Friendship: Amicizia, proprio come la sua residenza estiva a Newport. Quando fu completata, nel 1926, Virginia inviò un benvenuto ai suoi primi residenti dalle colonne del Friendship Messenger.

Buongiorno! Il solo splende di piú, laggiú a Friendship? L’aria è piú fresca? La vostra casa piú piacevole? I lavori di casa un po’ piú semplici? E quanto ai vostri figli… vi sentite piú sicuri? Hanno visi piú rubizzi, e gambe piú robuste? Ridono e scherzano a voce piú alta, a Friendship? In tal caso, sono soddisfatta.

Per Eleanor, c’era qualcosa di profondamente toccante in quella regina Vittoria dell’Ohio, una donnetta con una faccia bianca e gonfia, sempre vestita di nero, sempre riservata, mai a caccia di gloria personale per le sue azioni caritatevoli, spinta da profonde convinzioni religiose, che aveva continuato fino alla fine dei suoi giorni a intitolare strade e palazzi alla memoria dei suoi figli: Albert aveva avuto la sua Avenue e Sheldon il suo Close nelle zone piú sicure e consone ai bambini di tutta Friendship.

Al contempo, la freddezza dei rapporti tra le sorelle Jonson e la zia Virginia dimostrava che, nell’opinione delle sue nipoti, non era riuscita a raggiungere il giusto equilibrio tra la sua passione civica e gli interessi di famiglia. Se proprio era necessario scialacquare i soldi dei Jonson, le sorelle erano convinte che spettasse a loro farlo, e non alla figlia di un prete squattrinato che aveva sposato lo zio Thomas. Il testamento di Virginia riservò loro centomila dollari a testa. Perfino gli amici avevano avuto miglior fortuna. Virginia aveva versato due milioni e mezzo in un fondo fiduciario, che avrebbe garantito una rendita annua a vita per sessantanove di loro. Patrick sospettava che il talento di Virginia nel far infuriare la madre e le zie di Eleanor fosse la ragione inconfessata dell’ammirazione che sua madre provava per la prozia. Lei e Virginia non avevano niente a che fare con le brame di ricchezza della loro dinastia. Consideravano il denaro come qualcosa che era stato loro affidato da Dio e che doveva essere usato per fare del bene. Patrick sperava che nei lunghi giorni di irrequieto silenzio trascorsi nella casa di riposo, Eleanor avesse sognato, almeno ogni tanto, il posto che avrebbe potuto occupare accanto alla grande filantropa della famiglia Jonson, che l’aveva preceduta.

L’avarizia dimostrata da Virginia nei confronti delle sorelle Jonson era sicuramente sorretta dalla certezza che suo cognato avrebbe lasciato a ciascuna di loro una fortuna.

E tuttavia, per la loro generazione, il brivido della ricchezza era sempre oscurato dallo shock di trovarsi diseredate e dai paradossi della filantropia. Il Crollo del 1929 era sopravvenuto due anni dopo la morte di Virginia. I poveri divennero nullatenenti, e la borghesia bianca, molto impoverita rispetto al passato, fuggí dalla città per l’intimità e per il caldo legno delle case di Friendship, anche se Virginia aveva costruito quella cittadina in memoria di un marito che era sempre stato “amico della razza negra”.

L’amicizia di Eleanor era rivolta a qualcosa di molto piú vago rispetto alla razza negra. La definizione “amica del revival neo-sciamanico del Crepuscolo Celtico” sembrava assai piú improbabile come viatico per un concreto progresso sociale. Durante l’infanzia di Patrick, le sue iniziative caritatevoli avevano ricordato molto piú da vicino le Opere di Bene di Virginia, eccetto per il fatto che erano rivolte interamente ai bambini. Patrick era stato lasciato spesso da solo con il padre, mentre Eleanor si recava alle riunioni di un comitato del Fondo Save the Children. La determinazione con cui Eleanor metteva al bando ogni ironia dal suo nuovo personaggio pubblico creava un mercato nero per il cieco sarcasmo celato nelle sue azioni. In seguito, le sue evasive opere di carità si erano concentrate su Padre Tortelli e sui suoi bambini di strada a Napoli. Patrick non riusciva a non pensare che quel desiderio di salvare tutti i bambini al mondo equivalesse inconsciamente ad ammettere di non aver saputo salvare suo figlio. Povera Eleanor, come doveva essere stata terrorizzata. Tutto d’un tratto, Patrick sentí di volerla proteggere.

Quando l’infanzia di Patrick era finita e gli echi inarticolati dei suoi primi anni di vita erano svaniti, Eleanor smise di finanziare enti benefici per bambini e si avventurò nella seconda adolescenza della sua esperienza New Age. Dimostrò la stessa, geniale tendenza a generalizzare che aveva caratterizzato i suoi interventi per l’infanzia, salvo che la sua crisi di identità si rivelò non semplicemente globale, ma addirittura interplanetaria e cosmica, senza mai affondare di un millimetro nel resistente sostrato della conoscenza di sé. Tutt’altro che estranea all’“energia dell’universo”, rimaneva estranea a se stessa. Patrick non poteva certo raccontarsi menzogne, sostenendo che avrebbe approvato una qualunque donazione che rigaurdasse l’intero patrimonio materno, ma una volta che ciò si era rivelato inevitabile, trovava ulteriormente penoso che i fondi fossero finiti tutti alla Fondazione transpersonale.

Neanche la zia Virginia avrebbe approvato. Il suo obiettivo era apportare benefici reali ad altri esseri umani. Il suo influsso su Eleanor era stato indiretto ma forte e, come del resto tutti gli altri influssi, di natura matriarcale. A volte gli uomini della famiglia Jonson sembravano a Patrick come quei minuscoli ragni maschi che assolvevano subito alla loro unica, vera responsabilità prima di essere divorati dalle ben piú grandi femmine. I due figli del capostipite avevano lasciato due vedove: Virginia, specializzata in opere di bene, e la nonna di Eleanor, che si era invece concentrata sui matrimoni, unendosi in seconde nozze con il figlio di un conte e lanciando le tre figlie femmine nelle loro prodigiose carriere in società, alla caccia del miglior partito. Patrick era al corrente che Nancy pensava da vent’anni di scrivere un libro sulla famiglia Jonson. Senza alcuna, noiosa esibizione di falsa modestia, gli aveva detto, «Sai, sono certa che sarebbe molto meglio dei romanzi di Henry James o Edith Wharton, perché nel mio caso mi basterebbe raccontare che cosa è accaduto veramente».

Gli uomini che avevano sposato le donne Jonson non avevano avuto sorte migliore dei figli del capostipite. Il padre di Eleanor e suo zio Vladimir erano entrambi alcolizzati, e avevano perso ogni virilità dopo aver conquistato l’ereditiera che erano convinti di volere per moglie. Alla fine si erano ritrovati seduti uno accanto all’altro da White’s, curando le proprie ferite con un drink di primissima scelta: divorziati, scaricati, allontanati dai loro figli. Eleanor era cresciuta domandandosi come un’ereditiera potesse evitare di distruggere l’uomo con cui si sposava, a meno che il soggetto in questione non fosse già troppo corrotto per finire distrutto, o abbastanza ricco da garantirsi l’immunità. Sposando David aveva scelto un rappresentante della prima categoria, eppure il suo orgoglio e la sua cattiveria, già di per sé soverchianti, si erano ulteriormente accentuati per l’umiliazione di dipendere dalle ricchezze di sua moglie.

Patrick non era uno dei castrati della famiglia Jonson, ma sapeva che cosa volesse dire nascere in un mondo matriarcale, ricevere soldi da una nonna che conosceva appena, e venire tagliato fuori da una madre che però continuava ad aspettarsi di ricevere le sue attenzioni. L’impatto psicologico di quelle donne forti, generose quando la distanza garantiva il massimo dell’impersonalità e pronte a tradire quando ti trovavi troppo vicino a loro, gli aveva fornito un modello di come una donna appare e di come si rivela essere in realtà. L’oggetto del desiderio generato da questa combinazione era la Stronza Also – un acronimo per “alta società” inventato da un suo amico giapponese. La Stronza Also doveva essere la reincarnazione di una delle sorelle Jonson: affascinante, un vero animale sociale, costantemente immersa nella ricerca del piacere, in perfetta comunione con le proprie ricchezze. E come se questo non bastasse (o non fosse già troppo) doveva anche essere sessualmente vorace e moralmente disorientata. La sua prima ragazza era stata una versione in embrione di questa tipologia. A volte gli capitava ancora di pensare a quando le si era inginocchiato davanti: la pozza di luce della lampada da tavolo, le pieghe lucenti del pigiama di seta nera raccolte tra le gambe aperte di lei, la goccia di sangue sul suo braccio proteso, il sospiro di piacere, il sussurro “Troppo bello, troppo”, la pellicola di sudore su quel viso spigoloso, Patrick con la siringa in mano, a somministrarle la sua prima dose di cocaina. Aveva fatto del suo meglio per trasformarla in una tossica, ma lei era un vampiro di tutt’altra razza, pronta a nutrirsi della disperata ossessione degli uomini che aveva intorno, prosciugando sfilze di ammiratori sempre meglio inseriti in società nella speranza di acquisire il loro senso di appartenenza proprio mentre lo banalizzava ai loro stessi occhi, facendo di sé l’unica cosa che valesse la pena possedere, per poi abbandonarli.

Poco dopo i trent’anni, la sua brama compulsiva di essere deluso gli aveva portato Inez, la Cappella Sistina delle stronze Also. Aveva una carrettata di amanti e insisteva perché ciascuno di essi le concedesse l’esclusiva, una condizione che non era riuscita a ottenere dal marito ma che aveva estorto facilmente a Patrick, il quale aveva lasciato la donna relativamente sana e generosa con cui viveva per tuffarsi nel vortice famelico dell’amore di Inez. L’assoluta indifferenza per i sentimenti dei propri amanti trasformava la sua ricettività in ambito sessuale in una sorta di caduta libera. Alla fine, la rupe da cui era precipitato era piatta come quella da cui Gloucester si era gettato per ordine del figlio devoto: una rupe fatta di cecità, senso di colpa e immaginazione, e senza rocce sporgenti alla base. Ma Inez non lo sapeva, e nemmeno Patrick.

Con i capelli biondi e ricci, il corpo snello e i suoi magnifici vestiti, Inez era attraente in modo quasi scontato, eppure era relativamente facile rendersi conto che i suoi occhi azzurri lievemente sporgenti erano vuoti schermi di vanità, sui quali era concesso di far capolino solo a poche emozioni, tutte simulate. Tentava, spesso in modo confuso, di impersonare un essere capace di relazionarsi con gli altri. Basati sui pettegolezzi dei suoi cortigiani, su una manciata di film di Hollywood e sulla proiezione dei propri stessi calcoli, questi tentativi potevano essere di volta in volta sentimentali o crudeli, ma risultavano in ogni caso volgari e melodrammatici. Poiché non le interessava affatto sentire la risposta, aveva la tendenza a chiedere, “Come stai?” con grande serietà e almeno una dozzina di volte nella stessa conversazione. Spesso si sentiva esausta all’idea di quanto fosse generosa, quando in realtà il suo senso di stanchezza derivava dallo sforzo di non donare neanche una briciola di se stessa. «Voglio comprare sei stalloni arabi purosangue per il compleanno della regina di Spagna» aveva annunciato un giorno. «Non credi sia una buona idea?».

«Credi che sei bastino?» aveva chiesto Patrick.

«Tu no? Hai idea di quanto costano?».

Patrick era rimasto stupito quando Inez li aveva effettivamente acquistati, molto meno stupito quando aveva deciso di tenerli per sé, e francamente annoiato quando li aveva rivenduti allo stesso uomo da cui li aveva comprati. Se come amica sapeva essere esasperante, era nelle schermaglie amorose che il suo talento risaltava al massimo.

«Non mi sono mai sentita cosí prima d’ora» diceva, con voce profonda e turbata. «Credo che nessuno mi abbia mai capita davvero, fino a oggi. Lo sai? Sai quanto sei importante per me?». Gli occhi le si riempivano di lacrime mentre, in un sussurro affannoso, aggiungeva, «Non credo di essermi mai sentita cosí a casa», annidandosi tra le sue braccia forti e virili.

Subito dopo, Patrick si ritrovava ad aspettarla per giorni e giorni in un albergo di una città straniera, senza che Inez si degnasse di raggiungerlo. La segretaria chiamava due volte al giorno per avvisarlo che Inez era stata trattenuta, ma che stava per partire. Inez sapeva che quel supplizio di Tantalo era il modo piú efficace per assicurarsi che il suo amante non pensasse ad altro che a lei, lasciandola al contempo libera di fare altrettanto, ma a distanza di sicurezza. La mente di Patrick poteva vagare praticamente dovunque se Inez era distesa tra le sue braccia a dire sciocchezze, mentre se si trovava inchiodato al telefono, perdendo soldi in un’emorragia continua e abbandonando ogni altra sua responsabilità, era comunque costretto a pensare costantemente a lei. E quando alla fine si ritrovavano, Inez si affrettava a sottolineare quanto fosse stata insopportabile per lei l’attesa, monopolizzando nel modo piú spietato la sofferenza generata dai suoi programmi che slittavano all’infinito.

Che senso aveva per chiunque lasciarsi annichilire da tanta vacuità, se non si aveva dentro di sé l’immagine sepolta di una donna incurante, che premeva per riprendere forma? Ritardi, abbandoni, una brama per ciò che non è dato ottenere: erano questi i meccanismi che trasformavano un fortissimo stimolante matriarcale in un altrettanto forte depressivo materno. Quei ritardi stupefacenti, in particolare, lo riportavano direttamente alle angosce dell’infanzia, quando attendeva invano sulle scale che sua madre tornasse, terrorizzato all’idea che fosse morta.

Tutto d’un tratto, Patrick sentí che quelle emozioni ormai antiche si trasformavano in un senso di oppressione fisica. Fece scorrere le dita dentro il colletto della camicia, per assicurarsi che non nascondesse un cappio che si stringeva sempre piú. Non riusciva a sopportare le lusinghe della delusione, o quanto a questo quelle della consolazione, che ne era il gemello siamese. Doveva trovare un modo per lasciarsele entrambe alle spalle, ma prima era necessario piangere sua madre. In un certo senso, aveva sentito la sua mancanza per tutta la vita. Era per il desiderio di averla vicina, e non per la vicinanza vera e propria, che doveva portare il lutto. Quanto doveva essere stato futile quel desiderio, che lo aveva portato a disperdersi nelle terre di Saint-Nazaire. Se cercava di immaginare qualcosa di piú profondo della sua vecchia casa, riusciva soltanto a vedere se stesso in piedi, tutto teso nel tentativo di cogliere una presenza che gli sfuggiva, impegnato a schermarsi gli occhi per guardare una libellula che si posava sull’acqua infuocata di mezzogiorno, o gli storni in volo contro il sole al tramonto.

Ora finalmente capiva che la perdita di Saint-Nazaire non gli impediva di piangere sua madre; anzi, era l’unico modo per poterlo fare. L’atto di abbandonare il mondo immaginario che aveva creato al posto di Eleanor lo liberava da quel futile desiderio e lo guidava dentro un dolore piú profondo. Privo di ostacoli, poteva immaginare il terrore che sua madre doveva aver provato quando, nonostante tutte le sue buone intenzioni, aveva abbandonato il proprio desiderio di amarlo, del quale Patrick non aveva mai dubitato, e si era vista costretta a trasmettergli invece tutta quella paura, e quel panico. Finalmente, poteva cominciare a piangerla per se stessa, e per il personaggio tragico che era stata.