Patrick non aveva quasi idea di cosa aspettarsi dalla cerimonia. Quando sua madre era morta si trovava in America per lavoro e si era rammaricato di non poter preparare un discorso o un brano da leggere, lasciando a Mary tutti i dettagli organizzativi. Era tornato da New York solo il giorno prima, appena in tempo per recarsi all’agenzia di pompe funebri Bunyon, e ora, seduto su una panca accanto a Mary, prendendo per la prima volta in mano il programma, si accorse di quanto fosse impreparato per quell’esplorazione della vita confusa di sua madre. Sulla copertina del libretto c’era una foto di Eleanor risalente agli anni Sessanta, che la ritraeva con le braccia spalancate, quasi a voler abbracciare il mondo intero, gli occhiali scuri ben inforcati e nessun etilometro a disposizione. Prima di aprire il libretto, esitò a lungo; dentro avrebbe trovato un colossale pasticcio, un cumulo di fatti e sensazioni che aveva cercato di tener lontano fin da quando, due anni prima, Eleanor aveva rinunciato a flirtare con l’idea di un suicidio assistito. Era morta in quanto persona ben prima che il suo corpo facesse altrettanto, e Patrick aveva tentato di fingere che la vita di sua madre si fosse conclusa già da un pezzo, ma nessun tentativo di precorrere i tempi poteva ingannare la cruda realtà della morte vera e propria, e ora, in un misto di imbarazzo, paura ed elusività, si piegò in avanti e ripose il programma sull’appoggio di fronte a sé. Di lí a non molto, sarebbe stato comunque costretto ad aprirlo.
Era andato in America dopo aver ricevuto una lettera da Brown and Stone, gli avvocati della John J. Jonson Corporation, meglio nota con il nomignolo affettuoso di Tripla J. Erano stati informati dalla “famiglia” – Patrick sospettava adesso che fosse stato Henry ad avvertirli – che Eleanor Melrose era incapace di amministrare i propri affari, e poiché era beneficiaria di un fondo fiduciario creato dal nonno, e del quale Patrick era il beneficiario finale, era necessario prendere le misure necessarie a fornirgli una procura secondo la legislazione americana, che gli consentisse di amministrare il patrimonio al posto di sua madre. Tutto ciò era un’autentica novità per Patrick, che si stupí ancora una volta di quanto fosse brava Eleanor a mantenere un segreto. Nel suo sbalordimento, si scordò di chiedere a quanto ammontasse il fondo fiduciario, e salí sull’aereo per New York senza sapere se gli sarebbero stati affidati ventimila dollari o piuttosto duecentomila.
Joe Rich e Peter Zirkovsky lo ricevettero in una piccola sala riunioni con tavolo ovale e pareti in vetro, negli uffici della Brown and Stone su Lexington Avenue. Invece dei blocchi di carta giallo zolfo che si aspettava, trovò della carta a righe color crema con il logo dello studio legale elegantemente stampato sull’intestazione. Un’assistente fotocopiò il passaporto di Patrick, mentre Joe esaminava la lettera del medico che attestava l’incapacità di intendere e di volere di Eleanor.
«Non sapevo niente di questo fondo» disse Patrick.
«Tua madre deve avertelo tenuto nascosto per farti una sorpresa» disse Peter, con un sorriso sornione.
«Può darsi» rispose Patrick, tollerante. «A chi è destinata la rendita?».
«Al momento, spediamo un bonifico…». Peter scorse rapidamente un foglio. «… su un conto della Banque Populaire de la Côte d’Azur a Lacoste, in Francia, intestato alla Association Transpersonnel».
«In tal caso, potete interrompere i bonifici fin da subito» disse Patrick.
«Quanta fretta» disse Joe. «Dobbiamo prima farti avere la procura legale».
«È per questo che non me ne ha mai parlato» disse Patrick. «Perché continua a finanziare la sua adorata associazione in Francia mentre io le pago la casa di riposo a Londra».
«Può darsi che abbia perso la capacità di intendere prima di poter modificare le sue istruzioni» disse Peter, che sembrava deciso a proteggere l’immagine della madre agli occhi di Patrick.
«La lettera del medico va bene» disse Joe. «Dobbiamo farti firmare dei documenti e poi farli autenticare da un notaio».
«Di quanti soldi stiamo parlando?» chiese Patrick.
«Tra i fondi fiduciari della famiglia Jonson non è certo uno dei maggiori, e ha sofferto per le recenti fluttuazioni di borsa» disse Joe.
«Speriamo che non soffra piú, da adesso in poi» ribatté Patrick.
«L’ultima valutazione di cui disponiamo» disse Peter, consultando i suoi appunti, «assomma a due virgola tre milioni di dollari, con una rendita annua stimata in ottantamila».
«Ah, be’, è comunque una somma che può tornare utile» rispose Patrick, tentando di sembrare vagamente deluso.
«Sufficiente a comprare un cottage in campagna!» disse Peter, nell’assurda imitazione di un accento inglese. «Scommetto che i prezzi delle case hanno avuto un’impennata, da quelle parti».
«Piú che altro, una seconda stanza» disse Patrick, strappando una risatina di cortesia a Peter, anche se in realtà non c’era nulla che desiderasse di piú del poter separare la sua camera da letto dal soggiorno.
Mentre percorreva la Lexington verso il suo albergo a Gramercy Park, Patrick aveva cominciato ad adattarsi a quell’insolito colpo di fortuna. La lunga mano del bisnonno, morto piú di mezzo secolo prima che lui nascesse, lo avrebbe strappato al suo minuscolo appartamento offrendogli una casa dove ci fosse posto per i figli e per gli amici che avessero voluto fargli visita. E nel frattempo, avrebbe coperto le spese della casa di riposo di Eleanor. Era strano pensare che un perfetto estraneo avrebbe esercitato un influsso cosí forte sulla sua vita. Perfino quel benefattore aveva ereditato tutte le sue ricchezze. Era stato il padre a fondare la Jonson Candle Company a Cleveland, nel 1832. Nel 1845 era già diventata una delle piú grandi aziende del paese nel settore delle candele. Patrick ricordava ancora il modo tutt’altro che romantico con cui il fondatore aveva spiegato il suo successo. «Disponevamo di un nuovo processo di distillazione dei grassi animali. I nostri concorrenti usavano il sego e il lardo, entrambi molto costosi. Le candele erano molto care, e per diversi anni abbiamo realizzato profitti enormi». In seguito, la fabbrica di candele aveva diversificato le sue attività, specializzandosi in paraffina, trattamento dell’olio e solidificazione dei grassi, e brevettando un composto che divenne un ingrediente indispensabile per il lavaggio a secco in ogni parte del mondo. I Jonson comprarono anche palazzi e terreni da costruzione a San Francisco, Denver, Kansas City, Toledo, Indianapolis, Chicago, New York, Trinidad e Portorico, ma le fortune di famiglia continuarono a dipendere dalla testardaggine del capostipite, che era “morto sul lavoro”, cadendo dentro una botola in una delle sue fabbriche, e da quei “grassi animali” che oliavano ancora l’esistenza di uno dei suoi discendenti centosettant’anni dopo la loro scoperta.
John J. Jonson, il nonno di Eleanor, aveva già sessant’anni quando si era deciso a sposarsi. Aveva girato il mondo per curare gli affari sempre piú fiorenti della sua famiglia, ed era stato richiamato dalla Cina solo per la morte del nipote, Sheldon, in un incidente con la slitta alla St Paul’s School. Il nipote maggiore, Albert, era già morto di polmonite a Harvard l’anno precedente. Il patrimonio dei Jonson era rimasto senza eredi, e il padre di Sheldon, Thomas, in pieno lutto, aveva detto al fratello che sposarsi era un suo preciso dovere. John aveva accettato il proprio destino e, dopo un breve corteggiamento, impalmò la figlia di un generale e si trasferí a New York. Mise al mondo tre figlie in rapida successione prima di morire all’improvviso, ma non senza aver creato una moltitudine di fondi fiduciari, uno dei quali, seppur per vie indirette, stava per finire nelle mani di Patrick, come era venuto a sapere proprio quel pomeriggio.
Che cosa significava quella prova di bontà a lungo raggio, e che cosa rivelava del contratto sociale che consente a un uomo ricco di liberare tutti i suoi discendenti nell’arco di due secoli dall’obbligo di lavorare? C’era un che di poco raccomandabile nel fatto di essere salvati da antenati sempre piú remoti nel tempo. Proprio quando aveva esaurito il denaro ricevuto da una nonna che non aveva quasi conosciuto, ecco che gliene arrivava dell’altro da un bisnonno che non avrebbe mai potuto conoscere. Poteva provare solo una gratitudine astratta verso un uomo di cui non sarebbe riuscito a individuare l’immagine in un mucchio di dagherrotipi color seppia. I paradossi dell’impulso dinastico erano pari in grandezza a quelli di tipo filantropico generati da Eleanor o dalla sua prozia Virginia. La nonna e il bisnonno avevano sicuramente sperato di conferire potere a un senatore, di arricchire una grande collezione d’arte o di incoraggiare un matrimonio sfarzoso, ma in fin dei conti avevano finanziato solo pigrizia, alcolismo, tradimenti e divorzi. Né si poteva dire di meglio dei paradossi legati alla tassazione: raccogliere del denaro per scuole, ospedali, strade e ponti, e spenderlo per far saltare in aria scuole, ospedali, strade e ponti in una guerra inutile. Non era facile scegliere tra tutti quei metodi assurdi per trasferire ricchezze, ma almeno per una volta Patrick intendeva cedere al piacere di trarre beneficio da quella forma particolare di capitalismo americano. Solo in un paese libero dall’imbuto della primogenitura e dal potere livellante della égalité poteva accadere che la quinta generazione di una famiglia fosse ancora in condizione di ricevere lacerti di ricchezza da un patrimonio che era stato creato essenzialmente negli anni Trenta dell’Ottocento. In Patrick, il piacere e la disapprovazione coesistevano pacificamente mentre entrava nella penombra speziata del suo albergo, che ricordava il set cinematografico di un costoso bordello spagnolo, con i numeri delle stanze cuciti a mano sulla moquette, dando quasi per scontato che gli ospiti fossero ridotti in ginocchio dall’effetto di una specie di overdose e strisciassero per i corridoi senza riuscire piú a trovare la loro camera.
Quando entrò nella bomboniera di velluto che era la sua stanza, immersa nella luce giallo urina dei paralumi e del probabile doposbornia, il telefono squillava. Si fece spazio a fatica verso il comodino accanto al letto, sbattendo uno stinco contro le gambe arcuate di una poltrona disegnata per richiamare alla mente la virile effeminatezza del giacchetto di un torero, con due immense spalline che si ergevano con ostentazione al di sopra dello schienale.
«Fanculo» disse, mentre rispondeva al telefono.
«Tutto bene?» chiese Mary.
«Oh, ciao, scusa. Mi sono appena impalato contro questa cazzo di poltrona da torero. Non riesco a vedere un bel niente, dentro quest’albergo. Dovrebbero consegnarti un elmetto da minatore, alla reception».
«Senti, ho una brutta notizia da darti» disse Mary, per poi restare in silenzio.
Patrick si lasciò andare contro i cuscini, avendo intuito con la massima chiarezza che cosa gli sarebbe stato detto.
«Eleanor è morta ieri notte. Mi dispiace».
«Un autentico sollievo» ribatté Patrick, in tono di sfida. «E non certo l’unico…».
«Già, non è l’unico» disse Mary, dando l’impressione di accettare da subito qualunque evenienza.
Decisero di riparlarne la mattina dopo. Patrick provava un fervido desiderio di essere lasciato in pace, pari solo al desiderio di continuare a chiacchierare. Aprí il minibar e si sedette sul pavimento a gambe incrociate, guardando la sfilza di bottigliette in miniatura che splendevano alla luce fredda del piccolo frigo bianco. Sui ripiani, accanto ai bicchieri da cocktail e da vino, c’erano barrette di cioccolata, gelatine, arachidi tostate, delizie destinate a distrarre adulti affaticati o bambini scontenti. Chiuse il frigo, l’anta dell’armadio, e si accoccolò con cura sul divano di velluto rosso, evitando per quanto poteva la poltrona da torero. Doveva cercare di non dimenticare che solo un anno prima le allucinazioni si schiantavano sul suo cervello impotente come missili su una città assediata. Si stese sul divano, stringendosi un cuscino dai ricami vistosi contro lo stomaco già dolorante, e scivolò senza alcuno sforzo nella mentalità delirante della sua stanzetta al Priory. Gli tornò in mente la facilità con cui coglieva il graffio di un pennino di metallo o il battito d’ali di una falena sulla portafinestra, o il fruscio di un coltello da scalco che veniva affilato, o il rumore di ciottoli della risacca, come se tutto accadesse accanto a lui in quella stanza, o piuttosto come se fosse lui a spostarsi di volta in volta vicino alla fonte dei rumori. C’era una roccia spaccata e striata da folli esplosioni di quarzo che spesso si posava ai piedi del suo letto. Aragoste azzurre esploravano i bordi del battiscopa con le loro sensibili antenne. A volte a impossessarsi dei suoi spazi erano intere scene. Per esempio, immaginava le luci dei freni che scorrevano su una strada bagnata, l’interno fumoso di un’auto, il pulsare di una musica familiare, una grossa goccia di pioggia che scendeva sul parabrezza, consumando le altre gocce lungo il suo percorso, e sentiva che quell’atmosfera aveva una profondità che non aveva mai sperimentato prima. L’assenza di una linea narrativa in quei sogni coatti a occhi aperti portava con sé un legame piú segreto con le immagini che si susseguivano. Invece di arrancare lungo gli spazi deserti di una successione ordinaria di eventi, veniva gettato in una notte oceanica illuminata da lampi isolati di bioluminescenza. Riemergeva da quegli stati senza la minima idea di come avrebbe potuto descriverne la potenza allucinatoria alla riunione del Gruppo anti-depressione, e agognando l’Oxazepam della colazione.
Avrebbe potuto recuperare tutto con qualche mese di bevute: non solo le paludi mercuriali della prima astinenza, con i loro riflessi velenosi, imprevedibili, devastanti, e il delirio piú discreto delle due settimane successive, ma anche l’intera terapia di gruppo. Ricordava ancora il suo terzo giorno all’Anonima Alcolisti e il desiderio di tuffarsi fuori dalla finestra quando un habitué del gruppo si era fatto avanti per condividere la sua esperienza con quel branco tremolante di neofiti. Ex bevitore e consumatore di metanfetamine dall’aspetto curato, i capelli bianchi e le dita color arancio da fumatore incallito, aveva citato le sagge parole di un membro di ancor piú lunga data, che era stato presente alla sua prima riunione: «La paura ha bussato alla porta!» (Pausa). «Il coraggio ha risposto!» (Pausa). «E dentro non c’era nessuno!» (Lunga pausa). Avrebbe potuto godersi ancora un po’ anche il moderatore scozzese del Gruppo anti-depressione, e le sue brillanti frasi fatte sul potere della proiezione: «Sei quel che proietti e proietti quel che sei». E poi ci sarebbe stato il modo di riconsiderare i momenti in cui gli altri pazienti avevano toccato il fondo: l’uomo che si era svegliato accanto alla sua ragazza senza ricordare di averla pugnalata la notte prima con un coltello da cucina; l’ospite di un weekend circondato dalla carta da parati dipinta a mano che non ricordava di aver impiastricciato con i suoi escrementi; la donna che aveva avuto un braccio amputato quando si era scoperto che la siringa raccattata sul pavimento in casa di un amico era infettata da una cimice che si cibava di carne; la madre che aveva abbandonato i suoi bambini terrorizzati in un cottage di una remota località turistica per tornare dal suo spacciatore a Londra, e innumerevoli altre storie forse meno clamorose ma altrettanto disperate: momenti di vergogna che, nel lungo pellegrinaggio verso la guarigione, si trasformavano in momenti di illuminazione.
In ogni caso, il minibar era fuori questione. Il mese trascorso al Priory aveva funzionato. Sapeva con assoluta certezza che i sedativi erano solo un preludio all’ansia, gli stimolanti un preludio alla stanchezza e le consolazioni un preludio alla delusione, perciò si stese sul divano rosso di velluto e non fece nulla per distogliere la mente dalla notizia della morte di sua madre. Rimase sveglio tutta la notte, avvolto in uno stordimento tutt’altro che convincente. Alle cinque del mattino, quando, secondo i suoi calcoli, Mary doveva essere tornata a casa dopo aver accompagnato i bambini a scuola, a Londra, la chiamò e si misero d’accordo perché fosse lei a occuparsi del funerale.
L’organo tacque, interrompendo le fantasticherie di Patrick. Riprese il libretto dal piano d’appoggio davanti a sé, ma prima di poterlo aprire la musica irruppe dagli altoparlanti agli angoli della sala. Riconobbe la canzone prima che la voce nera, profonda e carica di gioia risuonasse nel forno crematorio.
Ho tutto di niente,
E del niente mi accontento.
Niente macchina o mulo o miseria.
La gente che ha tutto di tutto
Chiude a chiave la porta,
Per paura che la derubino
Quando è fuori a guadagnare.
Ma chi glielo fa fare?
Patrick si guardò intorno e sorrise a Mary con aria maliziosa. Mary gli sorrise a sua volta. Tutto d’un tratto, Patrick si sentí irrazionalmente colpevole per non averle ancora detto la verità sul fondo fiduciario, come se non avesse piú il diritto di godersi quella canzone, ora che non poteva affermare di aver tutto di niente. La rima finale tra “guadagnare” e “fare” meritava di essere approfondita molto piú spesso.
Ho tutto di niente,
E del niente mi accontento.
Ho il sole, la luna e il profondo mare azzurro.
La gente che ha tutto di tutto,
Tutti i giorni va a pregare.
Se hai tutto passi il tempo a domandarti,
Come tenere il diavolo lontano.
Patrick era divertito dall’insistenza di Porgy sulla natura peccaminosa di ogni ricchezza. Sentiva che Eleanor e la zia Virginia sarebbero state d’accordo. Dopo tutto, prima di diventare padroni dell’universo, gli usurai venivano relegati nel settimo girone dell’inferno. Sotto una pioggia di fuoco, si torcevano le mani senza sosta, degna punizione per chi, con quelle stesse mani, non aveva mai fatto niente di utile o buono per tutta la sua vita, limitandosi a sfruttare le fatiche altrui. Pur trovandosi nella posizione tutt’altro che leggera di chi “ha tutto di tutto”, costretti a fingere di credere che chi invece “ha tutto di niente” non debba preoccuparsi di tenere il diavolo lontano, Eleanor avrebbe comunque appoggiato il punto di vista di Porgy. Patrick tornò a concentrarsi per i versi finali della canzone.
Mai ho dovuto lottare
Per esser buono o cattivo
Al diavolo! Mi basta esser vivo.
Ho tutto di niente,
E del niente mi accontento.
Ho la mia donna, le mie canzoni,
Ogni giorno è il paradiso.
(Di che lamentarsi?)
Ho la mia donna, il mio dio, le mie canzoni!
«Una scelta magnifica» sussurrò Patrick a Mary, con un cenno del capo pieno di gratitudine. Poi riprese in mano il programma del servizio funebre, pronto finalmente a leggere.