7.

Che cosa nauseante, pensava Nicholas, un ebreo che fa il sentimentale con la voce di un negro: siete fortunati, voi che non avete niente, mentre noi languiamo sotto il peso del capitalismo internazionale e di tutti questi stramaledetti musical di Broadway. Quando un’idea annaspa, si disse Nicholas, preparandosi alle conversazioni che sarebbero seguite, i parolieri fanno appello ai corpi celesti. “Le cose per me preziose / Come le stelle nel cielo / Non costano nulla.” Be’, c’è poco da stupirsi: era improbabile ricavare un buon affitto da una bomba all’idrogeno distante milioni di anni luce. Era già abbastanza difficile persuadere un dirigente di banca a sputare fuori un affitto decente per una deliziosa villa del Settecento nello Shropshire, senza dovergli chiedere di fare un viaggetto sulla luna per il fine settimana. Troppo lontana da Londra, e una volta arrivato lí, niente da fare a parte saltellare qua e là mentre l’ossigeno finisce. Non è cosí che va il mondo. Il sessantacinque per cento dei passeggeri di prima classe sul Titanic era sopravvissuto; solo il venticinque per cento di quelli di seconda, e nessuno di quelli di terza. Ecco come andava il mondo. «Ti ringrazio, padrone» mormorò Nicholas, con un sorriso affettato, «per il profondo mare azzurro».

Oh, mio Dio, che cosa succedeva, adesso? Quell’orribile “Cassetta degli attrezzi per lo spirito” si stava avvicinando al leggio. La sola idea andava oltre la sua capacità di sopportazione. Che cosa ci faceva, lí? In realtà, era sentimentale quanto quel vecchio sciocco di Ira Gershwin. Era venuto per David Melrose. David era stato un disastro umano da tanti punti di vista, ma la sua presenza aveva sempre emanato una qualità rara e preziosa: il disprezzo per gli altri, allo stato puro. Sedeva a cavalcioni della morale borghese come un colosso. Mentre gli altri soffrivano davanti al rimprovero del primo bigotto, David aveva saputo incarnare il piú assoluto disinteresse verso le opinioni altrui. Non restava che fare del proprio meglio per tener viva quella tradizione.

Per Erasmus, i versi piú interessanti erano senza dubbio, “Mai ho dovuto lottare / Per esser buono o cattivo /Al diavolo! Mi basta esser vivo.” C’era Nietzsche in quelle parole, ovvio, e Rousseau (inevitabilmente), ma anche il Sutra del Diamante. Era improbabile che Porgy conoscesse anche una sola delle tre fonti. Ciò nonostante, era legittimo cogliere in quei versi l’influsso pervasivo di una certa famiglia di idee, fondata sul rifiuto di determinate aspirazioni e su uno stato di natura che precedeva qualunque morale fondata su regole, e in un certo senso la rendeva ridondante. Forse avrebbe potuto vedersi con Mary dopo il servizio funebre. Era sempre stata cosí ricettiva. E ogni tanto gli capitava ancora di ripensarci.

Grazie al cielo esisteva chi si accontentava di niente, pensò Julia, permettendo cosí a lei (e a chiunque altro avesse mai conosciuto) di possedere sempre di piú. Era pressoché impossibile pensare a una frase che potesse sfruttare in chiave positiva quel verbo orribile: “bastare”, per non parlare dell’idea di non avere “nulla”. D’altro canto, la canzone era praticamente perfetta per quella mezza matta della madre di Patrick, oltre a fungere da inno ideale per un’eredità sfumata. Tanto di cappello a Mary, come sempre, del resto. Julia si lasciò andare a un sospiro pieno di ammirazione. Non c’era il minimo dubbio: Patrick doveva essere stato troppo “furibondo” per occuparsi delle questioni pratiche, e cosí aveva chiesto a Mamma Mary di prendere il suo posto.

Era difficile, pensava Nancy, trovare un’idea piú ridicola di quella: rivolgersi ai fratelli Gershwin quando si aveva come nonno il divino Cole Porter. Come aveva osato la Mamma affidarne il talento nelle mani indifferenti di Eleanor quando Nancy, che ne apprezzava veramente lo stile e l’umorismo, avrebbe potuto tenerlo tutto per sé? Non che Porgy e Bess fosse privo di attrattive mondane. Era andata a una prima a New York con Hansie e Dinkie Guttenburg e si era divertita alla follia, per poi spostarsi nel backstage e congratularsi con tutti. Le star della serata non si erano mostrate impressionate di fronte a un principe tedesco di una bellezza crudele e con un problema di balbuzie, ma era del tutto evidente che molte delle coriste non sapevano se fare la riverenza, scatenare una rivoluzione o avvelenare la moglie del principe. Doveva assolutamente includere quella scena nel suo libro come epitome di tutto ciò che vi è di buffo e divertente: tutto il contrario di quello scialbo servizio funebre. Eleanor si stava dimostrando un’autentica delusione: per la famiglia, e anche per se stessa.

Mentre percorreva la navata verso il leggio, Annette era stupefatta dalla pertinenza, la sorprendente piacevolezza e la perfetta sincronia di quella canzone cosí bella e carica di spiritualità. Solo il giorno prima era seduta con Seamus nel loro punto preferito sulla terrazza di Saint-Nazaire (in effetti, avevano deciso che quel punto era il chakra dell’intera proprietà, il che, a pensarci meglio, era assolutamente sensato), celebrando gli straordinari pregi di Eleanor con un bicchiere di vino rosso, e Seamus aveva fatto cenno al profondo legame che intercorreva tra la loro benefattrice e il popolo afroamericano. Aveva avuto il privilegio di presenziare a molte delle regressioni di Eleanor in vite passate, ed era venuto fuori che, piú di un secolo prima, era stata una schiava fuggiasca durante la Guerra Civile americana, che tentava di raggiungere il Nord abolizionista con un bambino appena nato tra le braccia. A quanto pareva aveva sofferto le pene dell’inferno, spostandosi solo di notte, nascondendosi nei fossi e temendo costantemente per la propria vita. E adesso, il giorno dopo, al funerale di Eleanor, un uomo che era palesemente il discendente di uno schiavo aveva cantato quei versi meravigliosi. Forse… – e Annette si fermò quasi in mezzo alla navata, travolta da un’ulteriore, potenziale ridda di magiche coincidenze –, forse quell’uomo era lo stesso neonato che Eleanor aveva portato verso la libertà in quella lunga marcia notturna tra un fosso e l’altro, e che crescendo era diventato uno splendido esemplare, con una voce profonda e sonora. Era un’ipotesi di una bellezza quasi insostenibile, ma lei aveva un compito da svolgere, e con uno strattone carico di rimpianti si tirò fuori dalla dimensione esaltante in cui la sequenza dei suoi pensieri l’aveva proiettata, e si piazzò ben ferma davanti al leggio, dispiegando i fogli che aveva portato con sé nella tasca del vestito. Sfiorò con le dita la collana d’ambra che aveva comprato nel negozio di souvenir di Madre Meera quando era andata per il darshan con l’avatar di Talheim. Sentendosi misteriosamente avvolta dal potere che quella donna indiana silente le aveva trasmesso, passando ai raggi X la sua anima con uno sguardo di amore incondizionato e avviandola su quell’itinerario di guarigione che stava ancora percorrendo, Annette si rivolse agli astanti in lutto con una voce combattuta tra la necessità di esprimere una dolcezza adeguata e quella di farlo a volume sufficientemente alto.

«Comincerò leggendo una poesia che era molto vicina al sentire di Eleanor. In realtà sono stata io a fargliela conoscere, e so quanto significasse per lei. Sono certa che a molti di voi suonerà familiare. È Innisfree, l’isola sul lago, di William Butler Yeats».

Cominciò la lettura, in un sussurro ritmico e scandito.

Mi leverò e andrò ora, andrò a Innisfree,

E costruirò una capanna laggiú, fatta d’argilla e canne;

Nove filari a fave avrò laggiú, un’arnia per le api da miele,

E solo starò nella radura ronzante d’api.

Benché ordinare nove ostriche fosse piuttosto sofisticato, pensò Nicholas, c’era qualcosa di totalmente assurdo in quei nove filari di fave. Le ostriche si contano naturalmente in dozzine e mezze dozzine – per quanto ne sapeva, potevano anche crescere sul fondo del mare, in dozzine e mezze dozzine –, perciò c’era un qualcosa di comprensibilmente elegante nell’ordinarne nove. Le fave, d’altro canto, crescevano nei campi in ordine sparso o a gruppetti, il che rendeva del tutto ridicola e affettata la scelta del numero nove. Tutto ciò che riusciva a fare era evocare la dissonante visione di un agglomerato urbano nel quale era improbabile ci fosse spazio per una capanna di paglia e argilla e per una radura ronzante di api. Evidentemente la Cassetta degli attrezzi per lo spirito considerava Innisfree l’espressione piú alta del talento di Yeats, e non c’era dubbio che il Crepuscolo Celtico, con la sua innocenza artefatta e i suoi effetti dozzinali, si attagliasse perfettamente alla visione ultramondana di Eleanor, ma in realtà il Bardo irlandese era emerso da una irrilevante nebbia purpurea solo quando era divenuto il portavoce di un ideale aristocratico. “Tra i prati in fiore d’ un uomo ricco / e il fruscio dei suoi colli coltivati / Scorre di certo la vita senza ambiziosi dolori / E piove vita finché il bacino è colmo.” Erano quelli i soli versi di Yeats da mandare a memoria, e non a caso erano gli unici che Nicholas avesse imparato. Quei versi inauguravano una meditazione sugli uomini “crudeli e violenti” che compivano grandi imprese e edificavano imponenti palazzi, e su cosa accadeva alla loro grandezza quando, con il trascorrere del tempo, si trasformava in mero privilegio: “E i pronipoti di tanta casata / Tra bronzi e marmi, non saranno che topi.” Un’analogia rischiosa, non fosse stato per tutte le ville infestate dai topi in cui accadeva di imbattersi. Ecco perché, suggeriva Yeats, era cosí essenziale mantenere ben vive la crudeltà e la rabbia, in modo da combattere gli effetti debilitanti di una gloria ricevuta in eredità.

La voce di Annette raddoppiò in straziata dolcezza per la seconda stanza.

E avrò un po’ di pace laggiú, ché la pace discende goccia a goccia,

discende dai velami del mattino fin dove canta il grillo;

La mezzanotte laggiú è tutta un luccichio, il meriggio purpurea incandescenza,

La sera è piena di ali di fanello.

La pace discende goccia a goccia, pensava Henry: che bella immagine. I versi si allungavano, aumentando di volume insieme alla tranquillità, agli effetti crescenti del jet lag, mentre la testa gli cascava sul petto, a goccia a goccia. Aveva bisogno di un caffè espresso, o i velami del mattino avrebbero avvolto la sua mente senza dargli scampo. Era venuto per Eleanor, Eleanor sul lago a Fairley, sola in una barca a remi, che si rifiutava di tornare a riva mentre tutti le gridavano, «Torna indietro! Tua madre è qui! – È arrivata tua madre!». Era troppo timida per guardarti negli occhi, ma sapeva essere testarda come un mulo.

Il posto Dove il grillo canta, pensava Patrick, è quello in cui abiti con Seamus: la mia vecchia casa. Immaginò il suono stridulo che si levava dall’erba, le cicale che si aggiungevano una a una al canto in un crescendo sonoro, un susseguirsi di onde di calore uditive, che sorvolavano frementi la terra arida.

Mary era sollevata nel constatare che Plenty o’ nuthing aveva incontrato il favore di David, e sentiva che la semplicità artefatta di Innisfree era un modo piacevole per rievocare la forza spasmodica con cui Eleanor aveva sempre cercato di escludere gli aspetti piú complessi dell’esistenza. Se c’era una cosa che invece le rendeva impossibile rilassarsi era il discorso che aveva chiesto ad Annette. E d’altro canto, che cos’altro avrebbe potuto fare? Non aveva senso negare quell’aspetto della vita di Eleanor, e non c’era nessun altro in sala che avesse piú titolo a parlarne di Annette. Se non altro, avrebbe fornito a Patrick qualcosa di cui sparlare nei giorni successivi. Ascoltò con un senso crescente di terrore la voce cantilenante di Annette che affrontava l’ultima strofa di Innisfree.

Io voglio alzarmi ora, e voglio andare, perché la notte e il giorno

Odo l’acqua del lago sciabordare presso la riva di un suono lieve;

E mentre mi soffermo per la strada, sui marciapiedi grigi,

Nell’intimo del cuore ecco la sento.

Annette chiuse gli occhi e toccò di nuovo la sua collana d’ambra. «Om namo Matta Meera» mormorò, riprendendo le forze per il discorso che si apprestava a pronunciare.

«Tutti voi avrete conosciuto Eleanor in modi differenti, e diversi di voi da molto piú tempo di me» esordí, con un sorriso compassionevole. «Io posso parlare soltanto della Eleanor che ho conosciuto, e mentre tento di rendere giustizia alla donna fantastica che è stata, spero che ognuno dei presenti tenga la Eleanor che ha conosciuto in quello che Yeats chiama l’intimo del cuore. Ma al tempo stesso, se vi mostrerò un lato di lei che non conoscevate, vi chiederei solo di farle spazio, e lasciare che vada a unirsi alla Eleanor che ciascuno di voi conserva nel suo animo».

Oh, Gesú, pensò Patrick, fammi uscire di qui. Si immaginò nell’atto di sparire attraverso il pavimento, con l’aiuto di un badile e di un lenzuolo fatto a strisce e legato, mentre la colonna sonora della Grande fuga si diffondeva nella sala. Stava già strisciando sotto il forno crematorio, attraverso una teoria di tunnel che rischiavano di crollare da un momento all’altro, quando si sentí trascinare indietro dall’esasperante voce di Annette.

«Ho incontrato per la prima volta Eleanor quando, con un gruppo del Circolo Femminile del Sacro Tamburo di Dublino, sono stata invitata a Saint-Nazaire, la sua bellissima villa in Provenza con la quale sono certa che molti di voi hanno una certa familiarità. Mentre percorrevamo il viale d’accesso con il nostro minibus l’ho intravista, seduta sul muro del grande stagno, le mani sotto le cosce, nella posa di una bambina solitaria che dondola le gambe, lo sguardo fisso sulle sue scarpe. Quando siamo arrivate allo stagno ci ha letteralmente accolte a braccia aperte, ma quella prima immagine di lei mi è rimasta impressa. Sono dell’idea infatti che Eleanor non abbia mai perso i contatti con quell’aspetto infantile della sua personalità che le faceva credere con tanta passione che fosse possibile ottenere giustizia, che la coscienza potesse essere trasformata e che il bene, per quanto invisibile a una prima occhiata, si potesse trovare in ogni persona e in ogni situazione».

Certo che la coscienza può essere trasformata, pensava Erasmus, ma che significa? Se mi faccio scorrere la corrente elettrica in tutto il corpo, o affondo il naso tra i petali di una rosa, o mi calo nel personaggio di Greta Garbo, trasformo la mia coscienza; in realtà, sarebbe piú corretto dire che non è possibile fermare questo processo di trasformazione. Quello che invece trovo impossibile è descrivere la natura profonda della coscienza: è troppo vicina per poterla vedere, troppo onnipresente per poterla afferrare, e troppo trasparente per riuscire a indicarla.

«Eleanor è stata una delle persone piú generose che io abbia avuto il privilegio di conoscere. Bastava accennare di aver bisogno di qualcosa, e se solo aveva la possibilità di accontentarti si metteva all’opera con un entusiasmo tale da farti pensare che risolvere i tuoi problemi fosse un sollievo per lei piú ancora che per te».

Patrick immaginò un delizioso dialogo, a mo’ di esempio.

Seamus: Stavo pensando che sarebbe… ehm… un perfetto viatico per le nostre coscienze, possedere un villaggio privato, circondato da vigne e uliveti, in un posto pieno di sole.

Eleanor: Oh, guarda un po’ che coincidenza! Ne ho uno di mia proprietà. Ti piacerebbe?

Seamus: Oh, ma certo, grazie mille. Devi solo mettere un paio di firmette, qui e qui…

Eleanor: Ah, che sollievo. Adesso non possiedo piú niente.

«Non c’era niente» disse Annette «che le recasse disturbo. Lo scopo della sua vita era servire gli altri, ed era impressionante constatare fin dove fosse disposta ad arrivare pur di aiutare la gente a realizzare i suoi sogni. Alla Fondazione arrivavano fiumi di lettere e cartoline di ringraziamento da tutto il mondo. Uno dei tanti esempi che potrei fare è quello di un giovane scienziato croato che stava lavorando a una “cellula di carburante a consumo zero” – non chiedetemi che cosa sia, ma salverà il pianeta. Oppure quello di un archeologo peruviano, che aveva scoperto una serie di indizi sorprendenti in base ai quali gli Incas erano originari dell’Egitto e continuavano a comunicare con la loro civiltà madre attraverso quello che lui stesso definiva un “linguaggio solare”. O ancora quello di un’anziana signora che lavorava da quarant’anni a un dizionario universale dei simboli sacri e aveva bisogno solo di un aiutino extra per completare il suo preziosissimo libro. Tutti loro hanno ricevuto un qualche aiuto da Eleanor. Non dovete però credere che Eleanor si preoccupasse solo della scienza e della spiritualità ai livelli piú elevati: era anche una persona dotata di un meraviglioso senso pratico, che conosceva perfettamente il valore di una cucina piú grande per una famiglia in crescita, o di un’auto nuova per un’amica che viveva isolata in mezzo alla campagna».

E che dire allora di una sorella che era rimasta quasi senza un quattrino?, pensò Nancy stizzita. Prima le avevano tolto le carte di credito, poi il libretto degli assegni, e adesso doveva andare di persona alla Morgan Guaranty, sulla Quinta, per ritirare il suo appannaggio mensile. Sostenevano che fosse l’unico modo per impedirle di indebitarsi ancora, quando in realtà il modo migliore per impedirglielo sarebbe stato darle piú soldi.

«C’era un fantastico gesuita» proseguí Annette, «anzi, un ex gesuita in realtà, anche se continuavamo a chiamarlo Padre Tim. Aveva maturato la convinzione che i dogmi del cattolicesimo fossero troppo restrittivi e che dovessimo abbracciare tutte le tradizioni religiose del mondo. Ha finito per essere il primo inglese a venire accettato come ayahuascera – uno sciamano, in Brasile – da una delle tribú piú primitive dell’Amazzonia. Comunque, Padre Tim scrisse a Eleanor, che lo aveva incontrato ai tempi in cui frequentava la chiesa di Farm Street, dicendole che il suo villaggio aveva bisogno di una barca a motore per discendere il fiume fino all’emporio locale, e naturalmente lei rispose all’appello con la sua consueta, impulsiva generosità, spedendogli un assegno. Non dimenticherò mai l’espressione sul suo viso quando ricevette la risposta di Padre Tim. Nella busta c’erano tre penne di tucano dai colori brillanti e un biglietto altrettanto vivace nel quale Tim le spiegava che, per ringraziarla del suo dono al popolo degli Ayoreo, il suo villaggio aveva organizzato un rituale nel quale era stata ammessa nella tribú con il nome di “Guerriero dell’Arcobaleno”. Padre Tim aveva aggiunto di aver preferito non far sapere che il donatore era una donna, dato che gli Ayoreo hanno una “visione relativamente arretrata del gentil sesso, non molto diversa da quella assunta dalla vecchia Madre Chiesa”, e pertanto avrebbe rischiato “di condividere l’infelice sorte di San Sebastiano” se avesse “confessato il suo stratagemma”. Aggiunse che intendeva raccontare la verità sul letto di morte, in modo da contribuire a proiettare la sua tribú verso una nuova era di armonia tra il principio maschile e quello femminile, cosí necessaria per la salvezza del mondo. Comunque» sospirò Annette, accorgendosi di essersi discostata dal testo scritto, ma considerandolo un segno di ispirazione, «l’effetto su Eleanor fu letteralmente magico. Portò le penne di tucano al collo finché, sfortunatamente, si disintegrarono, e per diverse settimane non fece che ripetere a chiunque le capitasse a tiro di essere un Guerriero Arcobaleno della tribú degli Ayoreo. Sembrava la classica bambina che cambia scuola e un giorno torna a casa trasfigurata perché ha conosciuto la sua nuova amichetta del cuore».

Benché lo sviluppo bloccato facesse parte dei suoi ferri del mestiere, e avesse preso l’abitudine di tenere il suo orecchio psicoanalitico ben tappato quando non lavorava, Johnny non poteva fare a meno di essere impressionato dalla furibonda tenacia con cui Eleanor aveva rifiutato di crescere. Ammetteva la cattiva abitudine di citare troppo spesso la frase del buon vecchio Eliot, “Il genere umano non può sopportare troppa realtà”, ma sentiva che nel caso di Eleanor la tendenza all’evasione era stata pressoché ininterrotta. Ricordava di averla vista per la prima volta quando Patrick l’aveva invitato a Saint-Nazaire per le vacanze estive. Perfino allora aveva la tendenza a parlare come una bambina piccola, un’abitudine sconcertante per due adolescenti che facevano di tutto per prendere le distanze dalla loro infanzia. La tragedia era che cinque o forse dieci anni di analisi cinque giorni la settimana avrebbero potuto mitigare in modo significativo il problema.

«Era a queste ampiezze che Eleanor sapeva spingere la sua generosità verso gli altri» disse Annette, sentendo di doversi avviare a una conclusione. Mise da parte un paio di fogli che non aveva letto per avventurarsi nella sua digressione amazzonica, e guardò l’ultima pagina per ricordarsi che cosa vi avesse scritto. Le parve tutto un po’ troppo formale, ora che aveva abbracciato una vena piú discorsiva, ma incastonate nell’ultimo paragrafo c’erano un paio di cose che doveva assolutamente ricordarsi di dire.

Avanti, datti una mossa, pensò Patrick. Charles Bronson era stato colto da un attacco di panico in un tunnel che gli stava crollando addosso, i cani lupo abbaiavano da dietro il filo spinato, le luci delle torce scorrevano sul varco utilizzato per la fuga, ma ben presto si sarebbe ritrovato a correre nei boschi, travestito da impiegato di banca tedesco e diretto alla stazione ferroviaria con dei documenti falsi contraffatti da Donald Pleasance, a rischio di perderci la vista. Tra poco sarebbe finito tutto: doveva solo continuare a guardarsi le ginocchia per qualche minuto ancora.

«Vorrei leggervi un piccolo brano dal Rig Veda» disse Annette. «Mi è letteralmente saltato tra le mani quando ero in biblioteca, alla Fondazione, e cercavo un libro che potesse evocare in qualche misura la straordinaria profondità spirituale di Eleanor». Proseguí, con il consueto ritmo cantilenante.

Segue lo scopo di coloro che passano oltre, è la prima dell’eterna successione di albe che verranno. Usha si estende per portare alla luce tutto quel che vive, risvegliando chi era morto… Qual è il suo scopo, quando entra in armonia con le albe che splendettero in passato e con quelle che devono risplendere oggi? Ella desidera le antiche mattine e porta a compimento la loro luce; proiettando la propria illuminazione entra in comunione con tutto ciò che è da venire.

«Eleanor credeva fermamente nella reincarnazione, e non solo considerava la sofferenza alla stregua di un fuoco che purifica e brucia ogni ostacolo verso una piú alta evoluzione dello spirito, ma godeva anche di un privilegio davvero raro: la visione specifica di come e quando si sarebbe reincarnata. Alla Fondazione abbiamo una “Cassetta per gli Ah Ah”, vale a dire quelle piccole epifanie e intuizioni nei quali ci viene da pensare, “Ah-ah!”. Capita a tutti, non è vero? Ma il problema è che spesso quelle intuizioni svaniscono dalle nostre menti tra i mille impegni di una giornata e cosí Seamus, il Facilitatore Capo della Fondazione, ha inventato la Cassetta degli Ah-ah, in modo che ciascuno di noi trascriva i propri pensieri e li infili là dentro, per poi condividerli nel corso della serata».

Annette sentí il richiamo prepotente dell’aneddoto e della digressione, resisté per pochi secondi, poi cedette di colpo. «Avevamo con noi un apprendista sciamano con una personalità che definirei “impegnativa”, il quale aveva almeno una decina di “momenti ah-ah” al giorno. Molti di essi si rivelavano nient’altro che attacchi, spesso neanche troppo mascherati, ad altri membri della Fondazione. Comunque, una sera, dopo esserci sorbiti almeno una dozzina delle sue cosiddette epifanie, Seamus, con il suo incomparabile senso dell’umorismo, ha detto, “Sai, Dennis, un momento ah-ah di un uomo è spesso un momento oh-oh per qualcun altro”. E ricordo perfettamente che Eleanor si sbellicò letteralmente dal ridere. Mi sembra quasi di vederla ancora oggi. Si coprí la bocca perché pensava che sarebbe stato sgarbato ridere apertamente, ma non riuscí a trattenersi. Dubito che un qualunque ritratto di Eleanor sarebbe completo senza il suo risolino malizioso o senza quei sorrisi imprevedibili, pieni di fiducia nel prossimo.

«Comunque» disse Annette, recuperando un minimo di ordine mentale per il suo ultimo assalto, «come stavo dicendo: un giorno, dopo il primo ictus ma prima di trasferirsi nella casa di riposo in Francia, trovammo nella Cassetta degli Ah-ah un meraviglioso bigliettino di Eleanor. C’era scritto che aveva avuto una visione e sapeva che sarebbe tornata a Saint-Nazaire nella sua prossima vita. Sarebbe stata un giovane sciamano, e io e Seamus a quel punto saremmo stati già anziani e le avremmo riaffidato la Fondazione, senza soluzione di continuità, per citare le sue stesse parole. Vorrei concludere chiedendovi di fissare nella mente questa espressione, “senza soluzione di continuità”, mentre restiamo seduti ancora qualche istante e preghiamo perché Eleanor torni presto».

In piedi dietro il leggio, Annette abbassò la testa, espirò profondamente e chiuse gli occhi.