10.

Kettle aveva spiegato a Mary le ragioni di principio per cui non voleva presenziare al funerale di Eleanor.

«Sarebbe ipocrisia allo stato puro» aveva detto a sua figlia. «Trovo intollerabile che vi abbia diseredati, e credo sia sbagliato andare a un funerale con tanta rabbia addosso. Il rinfresco è un’altra faccenda: si tratta di dare una mano a te e a Patrick. E il fatto che sia dietro l’angolo è in motivo in piú di non poco conto, non intendo negarlo».

«In tal caso potresti occuparti dei ragazzi» aveva detto Mary. «Non vogliamo che vengano, proprio come tu non desideri essere presente. Robert ha perso ogni contatto con Eleanor parecchi anni fa, e Thomas praticamente non l’ha mai conosciuta, ma vogliamo comunque che vengano al ricevimento, in modo che si ricordino di quest’occasione senza eccessive tristezze».

«Oh, ma certo, sarò ben lieta di dare una mano» aveva risposto Kettle, meditando già vendetta per essere stata investita di una responsabilità ancor piú pesante di quella che stava cercando di scansare.

Non appena Mary aveva lasciato i ragazzi sulla porta del suo appartamento, Kettle si era messa all’opera con Robert.

«Personalmente» gli aveva detto, «non potrò mai perdonare l’altra tua nonna per aver dato via la vostra bellissima villa in Francia. Immagino vi mancherà tantissimo, ora che non potete piú passarci le vacanze. Dev’esservi sembrata casa vostra molto piú di Londra, con tutta quella campagna intorno».

Robert si era mostrato turbato al di là del previsto.

«Come puoi dire una cosa del genere? È davvero orribile» le aveva risposto.

«Stavo solo cercando di mettermi nei tuoi panni» aveva spiegato Kettle.

Robert era uscito dalla cucina ed era andato a sedersi in salotto, da solo. Odiava Kettle per avergli messo in testa l’idea che Saint-Nazaire gli sarebbe dovuta spettare di diritto. Non piangeva piú, quando ne sentiva la mancanza, ma ricordava comunque ogni dettaglio. Avevano potuto portargli via la villa, ma non le immagini che si erano depositate nella sua mente. Robert chiuse gli occhi e pensò a quando era tornato verso casa con suo padre attraverso il Bosco delle Farfalle, con il vento che soffiava impetuoso. Lo scricchiolio dei rami e il richiamo degli uccelli svanivano, soffocati dal sibilo in mezzo ai pini. Quando erano riemersi dal bosco era quasi notte, ma Robert riusciva ancora a scorgere i germogli di vite che rilucevano nella terra appena dissodata, e aveva visto la sua prima stella cadente che, percorsa la volta celeste, andava lentamente a spegnersi.

Kettle aveva ragione: Saint-Nazaire era una vera casa, molto piú di Londra. Era stata la sua prima casa, e in quanto tale restava insostituibile, ma l’aveva catturata con la sua immaginazione, ed era piú bella che mai. Non voleva tornarci e non voleva riaverla indietro, perché sarebbe stata solo una gran delusione.

Robert aveva cominciato a piangere quando Kettle entrò in salotto a passo deciso, seguita da Thomas.

«Ho chiesto ad Amparo di prendere un film per voi. Se hai finito di fare i capricci, puoi vederlo insieme a Thomas: Amparo dice che le sue nipotine lo hanno letteralmente adorato».

«Guarda, Bobby» disse Thomas, correndo per mostrargli la custodia del DVD, «c’è un tappeto volante».

Robert era furibondo per l’ingiustizia della parola “capriccio”, ma aveva anche voglia di vedere il film.

«Non abbiamo il permesso di guardare i film la mattina» disse.

«Be’» rispose Kettle, «allora dovrete dire a vostro padre che avete giocato a Scarabeo, o a qualche altro gioco tremendamente intellettuale che possa avere la sua approvazione».

«Ma non è vero» disse Thomas, «perché in realtà vedremo il film».

«Sapete? Non ho un rimedio per tutto» disse Kettle. «Sarete lieti di sentire che quella scioccherella di vostra nonna sta per uscire a fare una passeggiata. Se decidete di partecipare al mio piccolo imbroglio, ditelo ad Amparo, cosí vi mette il film. Altrimenti, in cucina c’è una copia del Telegraph, e sono sicura che riuscirete a finire il cruciverba prima del mio ritorno».

E con quella trionfale esibizione di sarcasmo, Kettle uscí dal suo appartamento, sottraendosi al martirio di quei due nipoti viziati e ipersensibili. Era diretta alla Pâtisserie Valerie, dove avrebbe preso un caffè con la vedova dell’ex ambasciatore inglese a Roma. A dir la verità, Natasha era di una noia mortale: qualunque fatto si trovasse a commentare, non faceva che ripetere che cosa avrebbe detto o pensato James, come se contasse ancora qualcosa. In ogni caso, era importante mantenere i contatti con i vecchi amici.

La Ford limousine faceva parte del pacchetto “Bronzo” della Bunyon, che Mary aveva scelto per il funerale. Né le quattro Rolls-Royce d’epoca del pacchetto “Platino”, né i quattro cavalli neri piumati e la carrozza con i finestrini in vetro del pacchetto “Vittoriano” reggevano il paragone. Nella limousine c’era posto per altre tre persone. Doverosamente, Nancy era stata la prima scelta, ma Nicholas Pratt aveva una macchina e un autista personali e le aveva già offerto un passaggio. Alla fine, Mary divise la limousine con Julia, l’ex amante di Patrick, Erasmus, il suo ex amante, e Annette, l’ex amante di Seamus. Nessuno aprí bocca finché l’auto non svoltò lentamente sulla strada principale.

«Odio i lutti» disse Julia, guardandosi nello specchietto della sua trousse. «Finisci sempre per rovinarti l’eyeliner».

«Eri affezionata a lei?» chiese Mary, sapendo perfettamente che a Julia non era mai importato nulla di Eleanor.

«Oh, non ha niente a che fare con lei» rispose Julia, come se la cosa fosse del tutto ovvia. «È come quando scoppi a piangere davanti a un film cretino, a un funerale o a un qualunque articolo di giornale: a provocare le lacrime non è mai il presunto fattore scatenante, ma il dolore che ti si è accumulato dentro, credo, e il fatto che, in generale, la vita sia cosí maledettamente ingiusta».

«Certo, capisco» disse Mary, «ma a volte il dolore e il fattore scatenante sono collegati».

Si voltò, nel tentativo di prendere le distanze dalla frivolezza routinaria con cui Julia parlava del lutto. Intravide i fiori rosa di una magnolia che si stagliavano in segno di protesta contro la facciata bianca e nera, rivestita di legno, di un palazzo finto Tudor su una via laterale. Perché l’autista aveva deciso di passare da Kew Bridge? Era forse considerato piú dignitoso allungare il percorso?

«Stamane non mi sono messo l’eyeliner» disse Erasmus, con il tono faceto e studiato dell’accademico.

«Posso prestarti il mio, se vuoi» disse Annette, unendosi alla conversazione.

«Grazie per quello che hai detto su Eleanor» disse Mary, rivolgendosi ad Annette con un sorriso.

«Spero solo di essere riuscita a rendere giustizia a una donna davvero speciale» disse Annette.

«Oh, assolutamente sí» rispose Julia, impegnata ad applicarsi di nuovo l’eyeliner. «Vorrei tanto che questa macchina la smettesse di muoversi».

«Una cosa è certa: ha sempre cercato di essere buona» disse Mary. «Una qualità rara, di questi tempi».

«Ah, l’intenzionalità» disse Erasmus, con il tono di chi stia indicando una celebre cascata che è appena diventata visibile attraverso il finestrino.

«Ne sono lastricate le strade per l’inferno» commentò Julia, spostando il pennellino nero verso l’altro occhio.

«Tommaso d’Aquino sostiene che l’amore consiste nel “desiderare il bene di qualcuno”» esordí Erasmus.

«A me basta e avanza desiderare quel qualcuno» lo interruppe Julia. «Ovviamente, nessuno desidera vedere un altro essere umano investito da un’auto o ucciso a colpi di pistola in mezzo alla strada: o comunque, capita di rado. A me sembra che San Tommaso abbia detto una cosa del tutto ovvia. Tutto si fonda sul desiderio».

«Tutto, a parte il conformismo, le convenzioni, le compulsioni, le motivazioni inconfessate, la necessità, la confusione, la perversione, i principi». Di fronte a quell’abbondanza di alternative, Erasmus sfoggiò un sorriso triste.

«Ma non fanno che creare desideri di altro genere».

«Se si attribuisce a una singola parola ogni possibile significato, si finisce per svuotarla di senso» disse Erasmus.

«Be’, anche ammettendo che la teoria di San Tommaso sia geniale» disse Julia, «non capisco come “desiderare il bene di qualcuno” possa corrispondere al desiderare che gli altri ti considerino un pezzo di pane».

«Eleanor non desiderava soltanto essere buona: lo era» disse Annette. «Non era solo una sognatrice, come tanti altri visionari. Era costruttiva, sapeva scuotere le coscienze e ha trasformato la vita di tantissime persone».

«A cominciare da quella di Patrick: su questo non ci piove» disse Julia, richiudendo l’astuccio dei trucchi.

La presunzione di Julia, la sua convinzione di essere leale piú di chiunque altro a Patrick e ai suoi interessi, facevano infuriare Mary. Mantenendosi fedele all’infedeltà di cui Patrick si era macchiato, Julia compiva un atto di aggressione nei suoi confronti che non avrebbe mai osato permettersi se Patrick non fosse stato assente, e se non fosse stato presente al suo posto Erasmus. Mary optò per un gelido silenzio. Erano già a Hammersmith, e la rabbia che aveva accumulato le sarebbe bastata e avanzata fino a Chelsea.

Quando Nancy lo invitò a salire con lei sull’auto di Nicholas, Henry le rispose che aveva anche lui un’auto.

«E allora, di’ al tuo autista di seguirci» suggerí Nicholas.

E cosí, l’auto di Henry, vuota, si accodò a quella di Nicholas, piena, dal forno crematorio fino al club.

«Ormai conosciamo tutti molte piú persone morte che vive» disse Nicholas, rilassandosi in un tripudio di pelle nera imbottita e reclinando il sedile del passeggero verso le ginocchia di Nancy, in modo da poter tenere la sua conferenza da un’angolazione piú adeguata, «anche se, in termini meramente numerici, tutte le persone che sono esistite non arrivano a eguagliare le verminose moltitudini che raspano sulla superficie del nostro non piú meraviglioso pianeta».

«È uno dei problemi della reincarnazione: com’è possibile, se al mondo ci sono piú esseri umani oggi di quanti ne siano mai esistiti?» disse Henry. «Non ha alcun senso».

«Ha senso soltanto se masse di umanità allo stato brado ci piovono addosso per prendersi un primo assaggio di civiltà. E temo che questo sia fin troppo plausibile» disse Nicholas, guardando l’autista, inarcando un sopracciglio e lanciando un’occhiata carica di significati a Henry. «È la tua prima volta qui in Inghilterra, vero, Miguel?».

«Sí, Sir Nicholas» disse Miguel, con la risata allegra di un uomo che è abituato a subire gli insulti del proprio datore di lavoro piú volte al giorno.

«È inutile dirti che in una vita precedente tu sei stato la regina Cleopatra, o sbaglio?».

«No, Sir Nicholas» disse Miguel, che non riusciva a tenere a freno l’ilarità.

«Quello che non capisco della reincarnazione è perché si debba sempre dimenticare tutto» protestò Nancy. «Non sarebbe stato molto piú divertente, la prima volta che ci siamo incontrati in questa vita, poter dire, “Come stai? Non ti vedo da quell’orribile festa organizzata al Petit Trianon da Maria Antonietta!”. Una cosa del genere: buffa, insomma. E invece, sempre ammesso che esista, la reincarnazione è come un Alzheimer su piú larga scala, e ogni vita per la quale passiamo è un momento in cui l’ansia si fa piú chiara e visibile. So che mia sorella credeva nella reincarnazione, ma quando ho pensato di chiederle perché dimentichiamo le nostre vite precedenti, l’Alzheimer le era venuto per davvero, e a quel punto insistere sarebbe stata una mancanza di tatto, da parte mia».

«L’idea della rinascita è solo un pettegolezzo importato dal regno vegetale» disse Nicholas, col tono di chi dispensa perle di saggezza. «Siamo tutti impressionati dalla resurrezione della primavera, ma gli alberi in realtà non sono mai morti».

«È possibile rinascere anche durante l’arco di una vita» mormorò Henry. «Qualcosa muore, e si entra in una nuova fase».

«La primavera non mi interessa» disse Nicholas. «Fin da quando ero bambino, mi sono sempre crogiolato nell’estate del mio io, e intendo continuare a dar la caccia alle farfalle nell’erba alta fino a quando la morte non arriverà, improvvisa quanto indolore. D’altro canto, mi sembra evidente che alcune persone, Miguel, per esempio, vorrebbero cambiare la propria esistenza dalle radici».

Miguel ridacchiò e scosse il capo, incredulo.

«Oh, Miguel, non è orribile, quest’uomo?» disse Nancy.

«Sí, signora».

«Non è previsto che tu sia d’accordo con lei, idiota che non sei altro» disse Nicholas.

«Credevo che Eleanor fosse cristiana» intervenne Henry, al quale non piaceva quel modo di maltrattare la servitú. «Da dove vengono tutte queste fissazioni per l’Oriente?».

«Oh, era molto religiosa, ma in senso generale» disse Nancy.

«La maggior parte dei cristiani hanno se non altro il merito di non essere induisti o sufisti» disse Nicholas, «proprio come i sufisti hanno il merito di non essere cristiani, ma dal punto di vista religioso Eleanor era come uno di quegli incredibili cocktail che ti inducono a chiederti quale collisione originaria abbia potuto far convergere in un unico bicchiere gin, brandy, succo di pomodoro, crème de menthe e Cointreau».

«Be’, è sempre stata una brava ragazzina» disse Henry con fare risoluto, «e si è sempre presa cura degli altri».

«E questa potrebbe essere un’ottima cosa, in effetti» ammise Nicholas. «Naturalmente, molto dipende da chi sono, questi altri».

Nancy guardò il cugino, alzando gli occhi al cielo. Era convinta che i membri di una stessa famiglia potessero dirsi le cose piú orribili, ma che gli estranei dovessero fare molta piú attenzione a come parlavano. Henry si voltò a guardare con rimpianto la sua auto vuota. Perfino Nicholas aveva bisogno di prendersi un po’ di riposo da se stesso. Quando la macchina oltrepassò a gran velocità il Cromwell Hospital, tutti interruppero la conversazione di comune accordo e Nicholas chiuse gli occhi, raccogliendo le forze per l’ordalia sociale che lo attendeva di lí a non molto.

Dopo il film, Thomas si sedette su un cuscino, fingendo di essere sul suo tappeto volante. Per prima cosa fece visita a suo padre e sua madre, che erano al funerale della nonna. Aveva visto alcune foto della nonna che gli avevano fatto credere di ricordarsi di lei, ma poi sua madre gli aveva detto che l’aveva vista per l’ultima volta all’età di due anni e che la nonna viveva in Francia, perciò ne aveva dedotto di aver creato i suoi ricordi partendo dalle foto. A meno che in realtà gli fosse rimasta una vaga reminiscenza di quell’incontro e le foto avessero riacceso quella minuscola brace, come un puntino arancio in un mucchietto di soffice cenere grigia, e per un istante fosse davvero riuscito a ricordarsi di quando sedeva in braccio alla nonna, le sorrideva e le toccava il viso vecchio e grinzoso… Sua madre gli aveva detto che le sorrideva in continuazione e che la nonna era tutta contenta.

Il tappeto volante puntò dritto su Baghdad, dove Thomas saltò a terra e scaraventò il perfido mago Jafar oltre il parapetto e nel fossato. La principessa, colma di gratitudine, gli regalò un cucciolo di leopardo, un turbante con un rubino al centro e una lampada dentro la quale viveva un genio buffo e pieno di poteri. Il genio si stava espandendo nell’aria sopra la sua testa quando Thomas sentí la porta d’ingresso che si apriva e la voce di Kettle che salutava Amparo.

«I ragazzi si sono comportati bene?».

«Oh, sí, il film gli è piaciuto tanto, proprio come alle mie nipotine».

«Be’, questa almeno l’ho azzeccata» sospirò Kettle. «Dobbiamo sbrigarci: ho un taxi che ci aspetta qui fuori. Ero cosí esausta per le lamentele della mia amica che ho dovuto prenderne uno appena uscita dalla pasticceria».

«Oh, mi dispiace tanto» disse Amparo.

«Non c’erano alternative» rispose Kettle, stoica.

Kettle trovò Thomas seduto a gambe incrociate su un cuscino accanto al grande tavolino basso al centro del salotto, e Robert disteso sul divano, gli occhi al soffitto.

«Sono su un tappeto volante» disse Thomas.

«In tal caso, non avrai bisogno del vecchio, stupido taxi che mi sono procurata per andare al rinfresco».

«No, infatti» rispose Thomas, sereno. «Troverò la strada da solo».

Si sporse in avanti e afferrò i lembi del cuscino, piegandosi in una virata a sinistra.

«Diamoci una mossa» disse Kettle, battendo le mani spazientita. «Il taxi è fuori che aspetta, e mi sta costando una fortuna. Che cosa fai lí, a guardare il soffitto?» chiese a Robert, in tono secco.

«Sto pensando».

«Non essere ridicolo».

I due bambini seguirono Kettle nella vecchia e fragile gabbia di un ascensore che li portò a piano terra. Una volta detto all’autista di lasciarli allo Onslow Club Kettle sembrò calmarsi, ma a quel punto Robert e Thomas erano troppo offesi per parlare. Consapevole della loro riluttanza, Kettle cominciò a interrogarli sulla scuola. Quando le prime, banali domande cozzarono contro il muro del loro altezzoso silenzio, cedette alla tentazione di tornare con la mente ai suoi giorni di scuola: l’irresistibile fascino che Sorella Bridget esercitava sui genitori, soprattutto quelli di nobili natali, e la sua austerità nei confronti delle ragazze; l’esilarante relazione in cui Sorella Anna dichiarava che avrebbe richiesto un “intervento divino” per trasformare Kettle in un genio della matematica.

Kettle continuò a deprecare se stessa, con crescente compiacimento, mentre il taxi imboccava rombando Fulham Road. I due fratelli si ritrassero nei loro pensieri, per riemergere solo quando il taxi si fermò davanti al club.

«Oh, guardate, c’è Papà» disse Robert, scendendo dall’auto prima di sua nonna.

«Non aspettatemi, mi raccomando» disse Kettle, in tono malizioso.

«Va bene» rispose Thomas, seguendo il fratello in strada e correndo verso suo padre.

«Ciao Papi» disse, gettandosi tra le braccia di Patrick. «Indovina che cosa ho fatto? Ho guardato Aladdin! Non Bin Laden, ma A-laddin». Ridacchiò con un’aria da monello, dando un colpetto su tutte e due le guance di Patrick, all’unisono.

Patrick scoppiò a ridere e lo baciò sulla fronte.