Mary sorrise a Henry dal lato opposto della stanza e fece per raggiungerlo, ma prima che potesse riuscire nell’intento, Fleur le si piazzò davanti.
«Spero di non aver offeso tuo marito» disse Fleur. «Mi ha mollato su due piedi, e ora sembra che sia uscito definitivamente dalla sala».
«È un giorno difficile per lui» disse Mary, affascinata dal rossetto di Fleur, che era stato riapplicato nello stesso punto sbieco rispetto alle labbra, ma anche sui denti davanti.
«Ha qualche problema di salute mentale?» chiese Fleur. «Lo chiedo solo perché – il Cielo mi è testimone! – ho avuto la mia parte di problemi e sono diventata piuttosto brava a riconoscere gli svitati».
«Ora mi sembra in ottima forma» disse Mary, mentendo rispettosamente.
«È buffo sentirtelo dire» commentò Fleur, «perché questa mattina ho pensato: “Non ha senso prendere le pillole quando ci si sente cosí bene”. E io mi sento molto, molto bene, ecco».
Mary indietreggiò istintivamente. «Oh, fantastico» disse.
«Sento che oggi mi succederà qualcosa di straordinario» proseguí Fleur. «Non credo di aver mai sfruttato a pieno il mio potenziale – sento che potrei fare qualunque cosa – perfino far resuscitare i morti!».
«È l’ultima cosa che ci si aspetterebbe di vedere a questo ricevimento» disse Mary con un’allegra risata. «Chieda prima a Patrick, se è a Eleanor che sta pensando».
«Oh, sarei felice di rivedere Eleanor» rispose Fleur, come se approvasse la scelta della candidata alla resurrezione e si preparasse a compiere le dovute operazioni.
«Vuole scusarmi un istante?» disse Mary. «Devo andare a parlare con il cugino di Patrick. È arrivato fin qui dall’America e non sapevamo neanche che sarebbe venuto».
«Vorrei tanto andare in America» replicò Fleur. «A pensarci bene, potrei partire questo pomeriggio».
«In aereo?» chiese Mary.
«Sí, certo… Oh!» si interruppe Fleur. «Ho capito che cosa intendi dire».
Tese le braccia, sporse il capo in avanti e oscillò da destra a sinistra, producendosi in una risata cosí fragorosa che Mary sentí tutti gli sguardi dei presenti puntati verso di lei.
Allungò una mano e toccò il braccio teso di Fleur, sorridendo per comunicarle fino a che punto apprezzasse quello scambio scherzoso, ma voltandosi con decisione per raggiungere Henry, che se ne stava tutto solo in un angolo della stanza.
«Quella donna ha una risata aggressiva» disse Henry.
«Tutto in lei è aggressivo: è questo che mi preoccupa» replicò Mary. «Sento che potrebbe fare qualcosa di estremamente folle prima che l’intera comitiva torni a casa».
«Chi è? Ha un che di esotico».
Mary notò il netto contrasto tra le ciglia di Henry e il chiarore traslucido dei suoi occhi.
«Nessuno di noi la conosce. Si è presentata qui in modo del tutto inaspettato».
«Come me» disse Henry con galante equanimità.
«Con la differenza che noi sappiamo chi sei e siamo ben contenti di vederti» commentò Mary, «visto che, tra l’altro, non è venuta molta gente. Eleanor aveva perso i contatti con il mondo; la sua vita sociale era ridotta all’osso. Le restava qualche amico, anche se si trattava sempre di rapporti che di profondo avevano ben poco. Negli ultimi due anni sono l’unica persona che è andata a trovarla».
«E Patrick?».
«No, lui non ci andava mai. Eleanor si intristiva molto quando lo vedeva. Moriva dalla voglia di dire qualcosa ma non ci riusciva. Non solo perché per due anni non è riuscita materialmente a parlare. Intendo che, se anche fosse stata la persona piú eloquente del mondo, non sarebbe mai riuscita a dirgli ciò che voleva, perché non sapeva che cosa fosse di preciso, ma quando si è ammalata la pressione di quel non detto si è fatta ancora piú forte».
«È semplicemente terribile» replicò Henry. «È ciò che temiamo tutti».
«Ecco perché dobbiamo lasciar cadere le nostre difese finché possiamo scegliere di farlo» disse Mary, «o verranno demolite, e noi saremo sommersi da un orrore indescrivibile».
«Povera Eleanor, mi dispiace molto per lei» disse Henry.
Per qualche istante sprofondarono entrambi nel silenzio.
«A questo punto gli inglesi direbbero: “Be’, è un argomento divertente!”, per mascherare l’imbarazzo di dover restare seri» commentò Mary.
«Proseguiamo sulla linea del dolore» replicò Henry con un sorriso benevolo.
«Sono davvero felice che tu sia venuto» disse Mary. «Il tuo amore per Eleanor era cosí essenziale, a differenza di quello di tutti gli altri».
«Cavolo» esclamò Nancy, afferrando Henry per un braccio con l’impazienza esasperata di un naufrago che scopre di non essere l’unico sopravvissuto della sua famiglia. «Sia ringraziato il cielo! Salvami da quella strega con il maglione verde! Non riesco a credere che mia sorella la conoscesse – socialmente parlando. Voglio dire, questo incontro è qualcosa di straordinario. Non mi sembra affatto una situazione in stile Jonson. Quando penso al funerale di Mamma o di zia Edith… A quello di Mamma si sono presentate ottocento persone, metà del gabinetto francese, gli Aga Khan e i Windsor; c’erano tutti, alla cerimonia».
«Eleanor ha scelto una strada diversa» disse Henry.
«La definirei piuttosto una strada accidentata» replicò Nancy roteando gli occhi.
«Personalmente, non mi importa un accidenti di chi viene al mio funerale» disse Henry.
«È solo perché sai che sarebbe pieno di senatori, VIP e donne singhiozzanti!» ribatté Nancy. «Il problema dei funerali è che arrivano quando meno te lo aspetti. Certo, esistono le commemorazioni, ma non sono la stessa cosa. C’è un che di drammatico nei funerali, anche se non sopporto quelle bare aperte. Ti ricordi zio Vlad? Nei miei incubi lo vedo ancora disteso lí dentro, uno scheletro con l’uniforme bianca e dorata. Oh, mio Dio, schieriamo i carri in cerchio» gridò Nancy. «Il folletto verde mi sta fissando di nuovo!».
Fleur provava un piacere e una sensazione di potere incontenibili nell’esaminare la stanza in cerca di qualcuno che non avesse ancora avuto il privilegio di parlare con lei. Riusciva a cogliere tutte le correnti che attraversavano la sala; le bastava guardare una persona per vedere le profondità della sua anima. Grazie a Patrick Melrose, che stava distraendo la cameriera per avere il suo numero di telefono, Fleur era riuscita a prepararsi un drink, un bicchiere pieno di gin con una spruzzata di acqua tonica, anziché il contrario. Che importanza aveva? L’alcol da solo non poteva certo svilire la sua luminosa consapevolezza. Dopo aver bevuto un sorso dal suo bicchiere macchiato di rossetto, raggiunse Nicholas Pratt, con la ferma intenzione di aiutarlo a capire se stesso.
«Ha avuto disturbi mentali?» chiese a Nicholas, fissandolo con sguardo sfrontato.
«Ci conosciamo?» replicò Nicholas, guardando con occhi di ghiaccio la sconosciuta che gli si era piazzata davanti.
«Lo chiedo solo perché ho una certa sensibilità per queste cose» proseguí Fleur.
Nicholas oscillò tra l’impulso di distruggere quella vecchia svitata con il maglione tarmato e la tentazione di sfoggiare la sua robusta salute mentale.
«Insomma, li ha avuti?» insisté Fleur.
Nicholas sollevò per qualche secondo il suo bastone da passeggio, come se volesse scansare Fleur, solo per piantarlo ancora piú saldamente nella moquette, e ci si appoggiò con tutto il peso. Inalò l’aria gelida e corroborante del disprezzo che entrava dalla finestra, mandata in pezzi dalla domanda impertinente di Fleur; disprezzo che tendeva a renderlo – era lui stesso ad ammetterlo – piú eloquente del solito.
«No, non ho avuto “disturbi mentali”» tuonò. «Perfino in quest’era corrotta e all’insegna di confessioni e lamentele non siamo riusciti a cambiare del tutto la realtà. Quando l’incomprensibile lessico freudiano si riversa in ogni genere di conversazione, come l’aceto su un cartoccio di giornale pieno di patatine bisunte, alcuni di noi scelgono di non fare man bassa». Nicholas allungò il capo in avanti mentre pronunciava quella frase senza pretese.
«Le persone raffinate coltivano le proprie “sindromi”» proseguí, «e perfino i piú ingenui si sentono in diritto di avere un “complesso”. Come se non fosse già abbastanza ridicolo, per un bambino, avere “un dono”, ora deve anche essere malato: un tocco di sindrome di Asperger, un pizzico di autismo; la dislessia dilaga nei parchi giochi; i poveri cristi dotati di qualche talento sono diventati vittime del bullismo a scuola; se non riescono a confessare di aver subíto violenza, devono confessare di essere violenti. Be’, mia cara signora» disse Nicholas ridendo minacciosamente, «– la chiamo “mia cara” in virtú di quello che è senza dubbio conosciuto come Disturbo da Mancanza di Sincerità, a meno che qualche ambizioso ciarlatano, approdato sulle spiagge cocenti e sarcastiche del grande continente dell’ironia, non abbia ribattezzato l’inversione del significato Sindrome di Potter o Ittero di Jones – no, mia cara signora, non ho mai sofferto del minimo disturbo mentale. La moderna passione per le patologie è una valanga che è stata costretta a fermarsi a una certa distanza dai miei piedi perfettamente sani. Devo solo camminare verso quel cumulo di spazzatura perché si sfaldi e faccia largo all’uomo impossibile, l’uomo che gode di perfetta salute; gli psicoterapeuti si disperdono in mia presenza, vergognandosi della loro impostura».
«Lei è pazzo da legare» disse Fleur con grande perspicacia. «Lo avevo intuito. Nel corso degli anni ho sviluppato quello che definisco “il mio piccolo radar”. Mi metta in una stanza piena di gente e le dirò subito chi ha avuto quel genere di problema».
Nicholas ebbe un istante di disperazione quando si rese conto che la sua sferzante eloquenza non aveva avuto alcun impatto, ma, come un esperto ballerino di tango voltatosi di scatto al bordo estremo della pista da ballo, cambiò approccio e gridò, «Fuori dalle palle!» con quanto fiato aveva in gola.
Fleur lo osservò con sguardo sempre piú consapevole.
«Un mese al Priory la rimetterebbe al mondo» concluse, «le restituirebbe il senno, come dice l’inno. Lo conosce?». Fleur chiuse gli occhi e iniziò a cantare con aria rapita, «“Oh, mio Signore e Padre dell’Umanità / Perdona la nostra sciocca condotta / Restituisci il senno…”. Davvero meraviglioso. Parlerò con il dottor Pagazzi; è il migliore. Può diventare molto severo, a volte, ma solo per il bene dei suoi pazienti. Guardi me: ero matta da legare e oggi tocco il cielo con un dito».
Si chinò in avanti per bisbigliare a Nicholas in tono confidenziale, «Mi sento molto, molto bene, mi creda».
C’erano motivazioni di natura professionale che avrebbero dovuto frenare Johnny dal confrontarsi con Nicholas Pratt, la cui figlia era stata una sua paziente, ma la vista di quell’uomo mostruoso che urlava a una vecchia signora dall’aspetto dimesso portò il suo autocontrollo oltre i limiti che si era imposto fino ad allora. Si avvicinò a Fleur e, dando le spalle a Nicholas, le chiese se andasse tutto bene.
«Tutto bene?» rispose Fleur ridendo. «Sto benissimo, meglio del solito». Si sforzò di esprimere la sua sensazione di pienezza. «Se esistesse la possibilità di stare troppo bene, sarebbe il mio caso. Stavo solo cercando di aiutare questo pover’uomo che ha avuto la sua buona dose di disturbi mentali».
Sollevato nel vederla illesa, Johnny sorrise a Fleur e fece per ritirarsi diplomaticamente, ma Nicholas era ormai troppo infuriato per lasciarsi sfuggire una simile occasione.
«Ah» disse, «eccolo qua! Come una prova in un film poliziesco, esibita al momento piú opportuno: un medico-stregone, uno spacciatore di paralisi della psiche, un cicerone alle catacombe, una guida alle fogne; promette di trasformare i vostri sogni in incubi e mantiene scrupolosamente la sua parola» ringhiò Nicholas, il viso in fiamme e gli angoli della bocca macchiati di saliva secca. «Il traghettatore del secondo fiume dell’Inferno non accetterà una banale moneta come il suo collega proletario sullo Stige. Le servirà un ricco assegno per attraversare il Lete fino a quell’Ade dimenticato da Dio e pieno di pericolosi borbottii privi di senso, dove infanti sdentati strappano i capezzoli dai seni senza latte delle loro madri».
Mentre snocciolava le sue ingiuriose sentenze, Nicholas sembrava avere difficoltà a respirare.
«Nessuna delle fantasie che si possono elaborare con la mente» proseguí con palese fatica, «è piú ripugnante della fantasia sulla quale si fonda la sua arte sinistra, che inquina l’immaginazione umana con neonati assassini e bambini incestuosi…».
Nicholas smise improvvisamente di parlare; la sua bocca era impegnata a inspirare quanta piú aria possibile. Oscillò appoggiandosi al suo bastone, prima di fare qualche passo incerto all’indietro e di sbattere contro il tavolo, crollando a terra. Mentre cadeva, afferrò la tovaglia e trascinò con sé una mezza dozzina di bicchieri. Una bottiglia di vino rosso si rovesciò, e il contenuto si riversò gorgogliando oltre il bordo del tavolo, finendo sul suo completo nero. La cameriera fece un balzo in avanti e afferrò il cestello con il ghiaccio mezzo sciolto che stava scivolando verso il corpo supino di Nicholas.
«Oh, povero caro» esclamò Fleur. «Si è agitato troppo. “Si è fregato con le proprie mani” come si suol dire. È quello che succede alle persone che non vogliono chiedere aiuto» aggiunse, come se stesse analizzando il caso con il dottor Pagazzi.
Mary si chinò verso la cameriera, con il cellulare già aperto.
«Chiamo un’ambulanza» disse.
«Grazie» replicò la cameriera. «Scendo ad avvertire la reception».
Tutti i presenti in sala si riunirono intorno alla figura a terra e la guardarono con un misto di curiosità e di apprensione.
Patrick si inginocchiò accanto a Nicholas e iniziò ad allentargli la cravatta. Con un gesto tutt’altro che tempestivo, continuò a sciogliere il nodo finché non ebbe rimosso completamente la cravatta. Solo allora aprí il primo bottone della camicia di Nicholas, il quale cercò di dire qualcosa ma trasalí per lo sforzo e si limitò a chiudere gli occhi, disgustato dalla propria vulnerabilità.
Johnny provò un senso di soddisfazione per non aver partecipato attivamente al collasso di Nicholas. Poi guardò il suo oppositore accasciato sulla moquette e, per qualche motivo, la vista di quel collo vecchio, non piú decorato da una costosa cravatta nera di seta ma raggrinzito, flaccido e scoperto all’altezza della gola, quasi in attesa della pugnalata finale, lo riempí di compassione e di rinnovato rispetto per la forza di conservazione di un ego che avrebbe ucciso l’individuo in cui albergava piuttosto che permettergli di cambiare.
«Johnny?» disse Robert.
«Sí?» rispose Johnny, vedendo che Robert e Thomas lo stavano osservando con grande interesse.
«Perché quell’uomo ce l’aveva tanto con lei?».
«È una storia lunga» rispose Johnny «e non sono esattamente autorizzato a parlarne».
«Ha avuto una paralisi della psiche?» chiese Thomas. «Perché “paralisi” significa che non ci si può muovere».
Johnny non riuscí a trattenere una risata, nonostante il solenne mormorio che aveva accolto il collasso di Nicholas.
«Be’, personalmente credo che sarebbe una diagnosi brillante; ma Nicholas Pratt ha inventato quell’espressione per prendersi gioco della psicanalisi, che si dà il caso sia il mio mestiere».
«Che cos’è?» chiese Thomas.
«È un modo per accedere alle verità nascoste che hanno a che vedere con i vostri sentimenti» rispose Johnny.
«Come il nascondino?» chiese Thomas.
«Esatto» rispose Johnny, «ma anziché nascondersi nelle credenze, dietro le tende o sotto il letto, questo tipo di verità si cela in sindromi, sogni e abitudini».
«Possiamo giocare?» domandò Thomas.
«Possiamo smettere di giocare?» replicò Johnny, rivolgendosi piú a se stesso che a Thomas e a Robert.
Comparve Julia, interrompendo la conversazione di Johnny con i bambini.
«È la fine?» chiese. «È comunque abbastanza per distogliere chiunque dal fare i capricci. Oh, mio Dio, quella bigotta si sta tenendo la testa tra le mani. Questo mi darà il colpo di grazia, non c’è scampo».
Annette era seduta sui talloni accanto a Nicholas, con le mani a coppa intorno alla testa, gli occhi chiusi e le labbra che si muovevano appena.
«Sta pregando?» chiese Julia, esterrefatta.
«È molto gentile, da parte sua» commentò Thomas.
«Dicono che non si dovrebbe mai parlare male dei morti» proseguí Julia, «perciò sarà meglio che passi ad altro. Non sono un’amica intima di Amanda, ma sembra che quell’uomo le abbia rovinato la vita. Di certo lei ne saprà piú di me».
Johnny non dovette sforzarsi per rimanere in silenzio.
«Perché non la smette di essere cosí orribile?» disse Robert con fervore. «È un uomo vecchio e molto malato e potrebbe sentire quello che dice, senza neanche poterle rispondere».
«Sí» intervenne Thomas. «Non è giusto, perché non può rispondere».
Di primo acchito, Julia parve piú stupita che seccata e, quando finalmente parlò, fu con un sospiro ferito.
«Be’, ecco, quando i bambini iniziano a sferrare un attacco congiunto alla tua moralità, è arrivato il momento di congedarsi».
«Potrebbe salutare Patrick da parte mia?» chiese Julia, baciando Johnny senza preavviso su entrambe le guance e ignorando i due bambini. «Non me la sento, dopo quello che è successo… a Nicholas, intendo».
«Spero di non averla fatta arrabbiare» disse Robert.
«Si è arrabbiata da sola, perché per lei è piú facile arrabbiarsi che essere dispiaciuta» replicò Johnny.
Pochi secondi dopo aver lasciato la stanza, Julia fu costretta a rientrarvi dall’improvviso arrivo della cameriera, di due soccorritori appena scesi dall’ambulanza e di una serie di attrezzature.
«Guardate!» esclamò Thomas. «Un serbatoio di ossigeno e una barella. Come mi piacerebbe farci un giro!».
«È laggiú» disse inutilmente la cameriera.
Nicholas si sentí sollevare il polso. Sapeva che gli stavano misurando il battito cardiaco. Sapeva che era troppo veloce, troppo lento, troppo debole, troppo forte: tutto sbagliato. Uno strappo nel suo cuore, uno spiedo che gli trafiggeva il petto. Doveva avvertirli che non era un donatore di organi, o glieli avrebbero rubati prima ancora che fosse morto. Doveva impedirglielo! Chiamate Withers! Ditegli di mettere subito fine a questa cosa. Non riusciva a parlare. La sua lingua no, non dovevano prendere la sua lingua. Senza la possibilità di tradursi in parole, i pensieri procedevano come un treno senza rotaie, deformando, distruggendo, riducendo tutto in brandelli. Un uomo gli chiede di aprire gli occhi. Lui li apre. Deve dimostrare di essere ancora compos mentis, compos mentis, parti riciclate. No! Non il suo cervello, non i suoi genitali, non il suo cuore, inadatto al trapianto, un’entità ancora fremente nel corpo di un estraneo. Gli stavano puntando una luce contro gli occhi; no, non i suoi occhi; per favore, non dovevano prendergli gli occhi. Quanta paura. Senza un reggimento di parole, i barbari, i tetti in fiamme, gli zoccoli dei cavalli che picchiavano sui fragili crani. Non era piú se stesso; era sotto gli zoccoli. Non poteva mostrarsi impotente; non poteva umiliarsi; era troppo tardi per diventare qualcuno che non conosceva – una spaventosa forma di invadenza.
«Non si preoccupi, Nick. Verrò con lei in ambulanza» gli sussurrò una voce all’orecchio.
Era la donna irlandese. Con lui in ambulanza! Gli avrebbe cavato gli occhi, avrebbe frugato con le sue dita agili in cerca dei reni, estraendo una sega dalla sua Cassetta per gli attrezzi spirituale. Voleva essere salvato. Voleva sua madre; non quella che aveva avuto realmente, ma la vera madre che non aveva mai conosciuto. Sentí due mani afferrargli i piedi, altre due scivolargli intorno alle spalle. Impiccato, affogato e squartato: giustiziato pubblicamente per tutti i suoi crimini. Se lo meritava. Si augurò che il Signore avesse pietà della sua anima. Che rimettesse i suoi peccati.
I due soccorritori si guardarono e, dopo essersi scambiati un cenno con il capo, sollevarono Nicholas afferrandolo per le estremità e lo distesero sulla barella che avevano posato accanto a lui.
«Lo accompagnerò in ambulanza» disse Annette.
«Grazie» replicò Patrick. «Puoi chiamarmi dall’ospedale se ci sono novità?».
«Certo» rispose Annette. «Oh, è uno shock terribile per te» aggiunse, abbracciando Patrick in modo del tutto inaspettato. «Sarà meglio che vada».
«Quella donna lo accompagnerà?» chiese Nancy.
«Sí. Non è gentile da parte sua?».
«Ma se neanche lo conosce. Io conosco Nicholas da sempre. Prima mia sorella, ora il mio piú vecchio amico. È atroce».
«Perché non la segui?» suggerí Patrick.
«C’è una cosa che potrei fare per lui» rispose Nancy con un pizzico di indignazione, quasi volesse sottolineare che sentirsi considerare l’unica persona sinceramente preoccupata le sembrava un po’ eccessivo. «Miguel, il suo povero autista, sta aspettando fuori, e non ha la piú pallida idea di quello che è successo. Andrò io a dargli la notizia e porterò l’auto all’ospedale in modo che sia a disposizione, se Nicholas dovesse averne bisogno».
A Nancy vennero in mente almeno tre soste possibili lungo il percorso. La visita sarebbe durata un’eternità, senza contare che forse Nicholas era già morto, e portarla in giro per la città, quel pomeriggio, avrebbe aiutato il povero Miguel a non concentrarsi su quella terribile situazione. Non aveva i contanti per il taxi, e i suoi piedi gonfi stavano già uscendo senza alcun ritegno dai bordi delle sue eleganti scarpe da duemila dollari. La gente la considerava stravagante al limite dell’incorreggibile, ma le scarpe sarebbero costate duemila dollari l’una, se, con grande parsimonia, non le avesse comprate in saldo. Non avrebbe avuto disponibilità di contanti per il resto del mese, essendo stata punita dai suoi disgustosi banchieri per il suo “passato di crediti”. Il suo passato di crediti, per quanto la riguardava, era dovuto al fatto che sua madre aveva lasciato un maledetto testamento che permetteva al suo patrigno di rubare tutti i soldi di Nancy. Quest’ultima aveva reagito eroicamente spendendo senza ritegno, come se volesse ristabilire l’ordine naturale del cosmo truffando negozianti, affittacamere, decoratori, fiorai, parrucchieri, macellai, gioiellieri e proprietari di garage, negando mance alle guardarobiere e inventando pretesti per litigare con il personale in modo da licenziare chiunque senza pagare.
Nella sua spedizione mensile alla Morgan Guaranty – dove Mammina aveva aperto un conto per lei in occasione del suo dodicesimo compleanno – riscuoteva quindicimila dollari in contanti. Quando era in ristrettezze, la passeggiata fino alla Sessantanovesima Strada era una Venere acchiappamosche piena di colori e brillante di rugiada appiccicosa. Nancy arrivava spesso a casa con metà dei soldi già spesi; a volte contava l’intera somma e, apparentemente disorientata dalla mancanza di due o tremila dollari, riusciva a portarsi via un obelisco di marmo rosa o un quadro di una scimmia con la giacca di velluto, promettendo di tornare nel pomeriggio e creando cosí un altro punto nero nel suo complesso labirinto di debiti, un’altra deviazione alle sue passeggiate per la città. Dava sempre il suo vero telefono, con un solo numero cambiato, il suo vero indirizzo, un isolato piú su o piú giú, e un nome inventato di sana pianta – ovviamente. A volte si chiamava Edith Jonson, o Mary de Valençay, per ricordare a se stessa che non aveva nulla di cui vergognarsi, che c’era stato un tempo in cui avrebbe potuto comprare un intero isolato, figurarsi un fronzolo in uno dei tanti negozi che lo popolavano.
Verso la metà del mese era invariabilmente al verde. A quel punto si affidava alla generosità degli amici. Alcuni la ospitavano, altri si facevano mettere sul conto i suoi pranzi e le sue cene al Jimmy’s o al Le Jardin; altri ancora si limitavano a firmare un bell’assegno, dicendosi che anche questa volta Nancy aveva scavalcato la fila, e che le vittime di inondazioni, tsunami e terremoti avrebbero dovuto semplicemente aspettare un altro anno. A volte Nancy subiva un crack che costringeva i suoi amministratori fiduciari a svincolare altro capitale per tenerla fuori di prigione, con il risultato di assottigliare inesorabilmente le sue entrate. Per il funerale di Eleanor aveva preso alloggio con i Tesco, suoi grandi amici, nel loro divino appartamento a Belgrave Square, il risultato dell’accorpamento di cinque edifici contigui disposti su due piani. Harry Tesco le aveva già pagato il biglietto aereo – prima classe – ma Nancy non avrebbe potuto fare a meno di scoppiare a piangere nel piccolo salotto di Cynthia prima di andare all’opera, quella sera, e di parlarle delle terribili pressioni cui era sottoposta. I Tesco erano ricchi come principi, e l’idea di doversi umiliare tanto per estorcere loro un po’ piú di soldi mandava Nancy su tutte le furie.
«Potreste darmi un passaggio fino a casa, visto che è sul vostro percorso?» chiese Kettle a Nancy.
«È l’auto privata di Nicholas, cara, non una limousine a noleggio» rispose Nancy, inorridita dall’indecenza di quella richiesta. «È sconvolgente sentirtelo chiedere, sapendo quanto Nicholas sia malato».
Nancy salutò Patrick e Mary con un bacio e corse via.
«A proposito, lo porteranno al St Thomas’ Hospital» le urlò dietro Patrick. «Il soccorritore mi ha detto che sono i migliori nel fare la trombolisi».
«Ha avuto un colpo apoplettico?» chiese Nancy.
«Un attacco cardiaco; lo hanno dedotto dal naso… le estremità si raffreddano».
«Oh, basta cosí» disse Nancy. «Non voglio neanche immaginarlo».
La donna prese la via delle scale senza frapporre indugio: Cynthia le aveva fissato un appuntamento dalla parrucchiera usando le parole magiche, “metti sul mio conto”.
Ora che Nancy se n’era andata, Henry offrí un passaggio all’avvilita Kettle. Dopo solo qualche minuto di lamentele sulla maleducazione della zia di Patrick, Kettle accettò e salutò Mary e i bambini. Henry promise a Patrick che lo avrebbe chiamato il giorno successivo e accompagnò Kettle al piano inferiore. Con loro grande sorpresa trovarono Nancy, ferma sul marciapiedi fuori dal club.
«Oh, cavolo» esclamò Nancy agitando la mano con infantile frustrazione. «L’auto di Nicholas non c’è piú».
«Puoi venire con noi» propose Henry con nonchalance.
Kettle e Nancy si accomodarono sul sedile posteriore, in ostile silenzio. Sedutosi davanti, Henry disse all’autista di andare prima a Prince’s Gate, poi al St Thomas’ Hospital, e infine di tornare all’albergo. Di colpo Nancy si rese conto dell’errore che aveva commesso accettando il passaggio. Si era completamente dimenticata di Nicholas. Ora si sarebbe dovuta far prestare i soldi da Henry per raggiungere in taxi la parrucchiera da qualche ospedale abbandonato da Dio nel bel mezzo del nulla. Era abbastanza per farla gridare.
Il collasso di Nicholas, il trambusto che era seguito, l’arrivo dei soccorritori in ambulanza e il disperdersi di alcuni ospiti erano sfuggiti in blocco all’attenzione di Erasmus. Quando Fleur si era messa a cantare nel bel mezzo della sua conversazione con Nicholas, le parole “restituiscici il senno” lo avevano un po’ scioccato, come il fischio penetrante di un cane, inudibile agli altri ma perfettamente in sincrono con le sue preoccupazioni; gli avevano ricordato il suo vero maestro, che insisteva perché abbandonasse il terreno fangoso dell’inter-soggettività e gli interessanti percorsi della mente altrui, a vantaggio del fresco balcone, dove avrebbe potuto, per brevi momenti, pensare al pensiero. La vita di società tendeva a metterlo di fronte al suo istintivo rifiuto della teoria secondo la quale l’identità di un individuo è definita dalla trasformazione dell’esperienza in una storia piú strutturata e coerente. Era nella riflessione e non nella narrazione che Erasmus trovava l’autenticità. L’urgenza di dover elaborare il suo passato in forma di aneddoto, o perfino di immaginare il futuro in termini di ambizioni profonde, lo rendeva goffo e falso. Sapeva che la sua incapacità di emozionarsi al ricordo del suo primo giorno di scuola o di progettare la costruzione di un io composito e via via piú solido che voleva imparare a suonare l’arpicordo, bramava di vivere sulle Chilterns o sperava di vedere il sangue di Cristo scorrere attraverso il firmamento, faceva apparire la sua personalità irreale agli altri, ma nulla gli era chiaro quanto la natura irreale della personalità. Il suo io autentico era il vigile testimone di una serie di impressioni incostanti che non potevano, da sole, esaltare o sminuire il suo senso di identità.
Non aveva soltanto un problema di ordine ontologico con le teorie narrative generalmente accettate sulla comune vita sociale, ma, a quel ricevimento in particolare, si ritrovava a dover mettere in discussione il presupposto, eticamente condiviso da tutti fuorché da Annette (che non lo condivideva per ragioni di per sé problematiche), che Eleanor Melrose avesse sbagliato a diseredare suo figlio. Messa da parte la difficoltà nel giudicare l’utilità della Fondazione che Eleanor aveva finanziato, l’ampia distribuzione delle sue risorse aveva una potenziale e indiscutibile qualità utilitaristica. Mrs Melrose aveva potuto contare se non altro su John Stuart Mill, Jeremy Bentham, Peter Singer e R. M. Hare perché si occupassero benevolmente del suo caso. Se nel corso degli anni mille persone fossero uscite dalla Fondazione avendo maturato, grazie a qualche forma di esoterismo, un senso civico che faceva di loro dei cittadini piú altruisti e coscienziosi, il beneficio reso alla società non avrebbe forse bilanciato lo shock vissuto da una famiglia di quattro membri (uno dei quali si rendeva appena conto della perdita), nello scoprire che la casa che credevano propria non lo era affatto? Nel turbinio di prospettive c’era spazio per un sano giudizio morale espresso da un altro punto di vista che non fosse dettato da una rigorosa imparzialità? Se un tale punto di vista potesse essere mai praticabile era un’altra questione, e la risposta era quasi sicuramente negativa. Tuttavia, anche se l’aritmetica utilitaristica, basata sull’assunto che l’imparzialità fosse impossibile da raggiungere, fosse stata messa da parte in quanto fondata sul desiderio, come sosteneva Hume – l’autonomia delle preferenze di un individuo per un bene piuttosto che per un altro poneva la scelta filantropica di Eleanor di fronte a un annoso problema di ordine etico.
Ci fu una diffusa sensazione di sollievo quando Fleur accompagnò Nicholas in barella al piano inferiore e sembrò aver lasciato il club, ma dieci minuti dopo riapparve sulla soglia con fare risoluto. Vedendo Erasmus che, appoggiato alla balaustra, guardava con aria pensierosa il vialetto coperto di ghiaia, Fleur comunicò subito la sua preoccupazione a Patrick.
«Che cosa ci fa quell’uomo sul balcone?» chiese seccamente, come una tata disperata all’idea di non poter lasciare la stanza dei bambini anche per soli dieci minuti. «Vuole lanciarsi?».
«Non credo che abbia intenzione di farlo» rispose Patrick, «ma sono sicuro che lei potrebbe convincerlo».
«L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un altro morto per le mani» disse Fleur.
«Andrò a controllare» intervenne Robert.
«Vengo anch’io» disse Thomas, attraversando di corsa la portafinestra.
«Non puoi lanciarti» spiegò Thomas, «perché l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un altro morto per le mani».
«Non ci penso neppure» rispose Erasmus.
«E a che cosa pensa?» chiese Robert.
«Se fare del bene a molta gente sia meglio che farne a poche persone» rispose Erasmus.
«I bisogni di molti superano i bisogni di pochi, o del singolo individuo» disse Robert in tono solenne, facendo uno strano gesto con la mano destra.
Cogliendo il richiamo alla logica vulcaniana di Star Trek II, Thomas imitò il gesto.
«Lunga vita e prosperità» disse, senza riuscire a mascherare un sorriso all’idea di farsi crescere le orecchie a punta.
Fleur uscí a grandi passi sul balcone e si rivolse a Erasmus senza inutili convenevoli.
«Ha provato l’amitriptilina?» chiese.
«Non ne ho mai sentito parlare» rispose Erasmus. «Che cosa ha scritto?».
Fleur si rese conto che quell’uomo era piú confuso di quanto avesse immaginato in un primo momento.
«Sarà meglio che venga dentro» suggerí in tono persuasivo.
Lanciando un’occhiata alla stanza, Erasmus notò che la maggior parte degli ospiti se n’era andata e immaginò che Fleur lo stesse diplomaticamente invitando a fare altrettanto.
«Sí, forse ha ragione» le rispose.
Fleur si disse che aveva un talento nel trattare con persone affette da gravi disturbi mentali e che forse avrebbero dovuto nominarla responsabile del reparto riservato ai depressi di un ospedale psichiatrico o di un comitato di salute pubblica.
Mentre rientrava, Erasmus decise di non lasciarsi intrappolare ulteriormente nell’illogicità della dimensione sociale e di salutare Mary per poi andarsene in tutta fretta. Mentre si chinava per baciarla si chiese se una persona di indole prevalentemente narrativa potesse desiderare Mary perché l’aveva desiderata in passato, e se sarebbe riuscito a immaginare quel frammento del passato, per cosí dire, trasportato con una macchina del tempo nel presente. Quella fantasia gli ricordò la determinante osservazione di Wittgenstein secondo la quale “nulla è piú importante della formazione di concetti fittizi, per la comprensione di quelli che abbiamo in noi stessi”. Nel caso di Erasmus, il suo desiderio, per quel che valeva, aveva la natura di un’irrilevante contingenza presente, come il profumo di un fiore.
«Grazie di essere venuto» disse Mary.
«Non c’è di che» borbottò Erasmus, e, dopo aver stretto delicatamente la spalla di Mary, se ne andò senza salutare nessuno.
«Non preoccuparti» disse Fleur a Patrick. «Lo seguirò a debita distanza».
«Lei è il suo angelo custode» replicò Patrick, sforzandosi di nascondere il proprio sollievo all’idea di essersi liberato tanto facilmente di Fleur.
Mary seguí educatamente Fleur fino al pianerottolo.
«Non ho tempo per chiacchierare» disse Fleur. «La vita di quel pover’uomo è in pericolo».
Mary fu abbastanza saggia dal non contraddire le forti convinzioni della sua interlocutrice. «Be’, è stato un piacere conoscere un’amica di Eleanor di cosí vecchia data».
«Sono sicura che mi sta guidando» disse Fleur. «Sento che c’è un contatto. Era una santa; mi dirà come aiutarlo».
«Oh, bene» commentò Mary.
«Che Dio ti benedica» gridò Fleur mentre prendeva la via delle scale a passo spedito, decisa a non perdere le tracce del percorso suicida di Erasmus attraverso le strade di Londra.
«Che donna!» esclamò Johnny guardando oltre la porta mentre Fleur se ne andava. «Non posso fare a meno di pensare che qualcuno dovrebbe seguire lei, piuttosto che il contrario».
«Non guardare me» disse Patrick. «Ne ho fin sopra i capelli di Fleur. È incredibile che l’abbiano fatta uscire dal Priory».
«A me dà l’impressione di essere sull’orlo di una crisi maniaco-depressiva» replicò Johnny. «Suppongo che si stesse divertendo troppo e che abbia deciso di non prendere piú le pillole».
«Be’, speriamo che cambi idea prima di “salvare” Erasmus» disse Patrick. «Quell’uomo potrebbe non sopravvivere, se Fleur dovesse placcarlo come un giocatore di rugby sul ponte o saltargli addosso mentre sta cercando di attraversare la strada».
«Santo Cielo!» esclamò Mary, ridendo con un misto di sollievo e stupore. «Temevo che non se ne sarebbe mai andata. Spero che Erasmus abbia svoltato l’angolo prima che Fleur uscisse dall’edificio».
«Devo andarmene anche io» disse Johnny. «Ho un paziente alle quattro».
Salutò tutti, baciando Mary, abbracciando i ragazzi e promettendo a Patrick di chiamarlo piú tardi.
Improvvisamente, la famiglia rimase sola, a parte la cameriera, che stava togliendo i bicchieri e riponendo le bottiglie dentro uno scatolone in un angolo della stanza.
Patrick provò una familiare combinazione di intimità e desolazione nel ricordare che ora erano insieme ma presto si sarebbero separati.
«Torni con noi?» chiese Thomas.
«No» rispose Patrick. «Devo andare a lavorare».
«Ti prego» insisté Thomas. «Voglio che mi racconti una storia come ai vecchi tempi».
«Ci vedremo nel weekend» disse Patrick.
Robert si alzò in piedi, piú consapevole del fratello, ma non abbastanza per capire.
«Puoi venire a cena con noi, se ti fa piacere» disse Mary.
Patrick avrebbe voluto accettare e rifiutare al tempo stesso; voleva stare da solo e voleva stare in compagnia, voleva rimanere vicino a Mary e voleva allontanarsene, voleva che la cameriera pensasse che aveva una vita indipendente e voleva che i suoi figli sentissero di far parte di una famiglia in armonia.
«Credo che mi limiterò… a crollare» disse Patrick, sepolto sotto un cumulo di contraddizioni e condannato a pentirsi delle scelte che aveva compiuto. «È stata una lunga giornata».
«Non farti problemi, se dovessi cambiare idea» disse Mary.
«Anzi» intervenne Thomas, «dovresti proprio farlo. Le idee sono fatte per questo».