Cominciamo a comprendere meglio, dunque, quanto il prodotto della facoltà dell’immagine sia alquanto lontano dall’essere soltanto empirico e sensibile. Lo è in quanto organizza dati sensibili, ma il suo statuto formativo non è senz’altro sensibile. In particolare il privilegiamento di certi tratti caratteristici non è per se stesso questione in tutti i sensi sensibile: sembra trattarsi piuttosto, secondo un’espressione già usata, di una sorta di pre-pensiero della facoltà dell’immagine. Infatti come si esprimerebbe in termini sensibili il privilegiamento di certi tratti caratteristici? Non è piuttosto il cogliere nella percezione, ma non sensibilmente, che proprio quei tratti sono ciò che permette un certo riconoscimento?
Allora, pensiamo che la questione kantiana, così come è esposta in un primo tempo (nella prima Critica), del dover mediare tra intuizione (o percezione) e concetti mediante un terzo elemento, lo ‘schema’, non debba porsi in questi termini, anche se la questione conteneva già elementi profondamente innovativi e produttivi. (Naturalmente trascuriamo qui la questione allora centrale dello schematismo trascendentale, che comporta problemi affatto diversi.) Il mediatore non è lo ‘schema’, in quanto distinto dall’‘immagine’, ritenuta incapace di esibire il significato di una parola e il concetto corrispondente, ma è proprio l’immagine, che contiene già uno schema incapsulato in sé. E il privilegiamento da parte della percezione di alcuni tratti a scapito di altri, e lo schema che ne risulta, è appunto una riflessione che le compete in quanto percezione (o facoltà dell’immagine) interpretante. (Crediamo che questa veduta vada incontro a tutti quegli studiosi che hanno ripreso recentemente il problema dello schematismo, citando o non il suo autore originario: essa, per di più, soddisfa l’esigenza per cui lo schema è stato supposto, con il vantaggio però di non essere una supposizione aggiuntiva rispetto a ciò che già ci offre la percezione.)
Si tratta di una conseguenza che può essere tratta appunto dallo stesso procedere del pensiero kantiano quale si manifesta nella terza Critica. La supposizione precedente nasceva da una comprensione inadeguata dell’immagine interna, come se l’immagine fosse una figura. Lo faceva pensare l’esempio dell’immagine del cane o del triangolo come incapaci di esibire adeguatamente il concetto di cane e il concetto di triangolo. Il che è verissimo, ma solo se pensiamo l’immagine del cane come figura singola, per esempio impressa in una fotografia, e parimenti l’immagine del triangolo come figura singola, per esempio disegnata con gesso o matita su una lavagna o su un foglio di carta.
La figura è, in quanto figura singola, del tutto inadeguata alla dimostrazione che si vuole fare di un teorema. Eppure essa viene percepita come immagine interna e quindi come un valido sostegno della dimostrazione, in quanto chi la usa elimina automaticamente tutti quei tratti caratteristici che nell’immagine non interessano e che appartengono solo alla singolarità della figura. Permette quindi che si possano fare effettivamente in riferimento a essa (per esempio, appunto, la figura di un triangolo) tutte quelle ulteriori operazioni logico-geometriche senza che la particolarità figurale della costruzione nuoccia alla validità universale della dimostrazione dei teoremi (validi per tutti i triangoli o per tutti i triangoli di un certo tipo). Né occorre affatto un’immane fatica intellettuale per mettere tra parentesi certi tratti caratteristici della figura e badare solo allo schema che sta alla base della dimostrazione. Se la fatica fosse immane, la figura non sarebbe affatto un valido sostegno e non svolgerebbe alcuna utile funzione. Confonderebbe, piuttosto. Se questo non accade, la ragione va ricercata nel fatto che la figura non solo viene colta essa stessa come immagine, ma anche come un’occasione particolarissima che rinvia all’immagine interna di cui è la riduzione e l’esteriorizzazione. Quindi, anche nel caso della figura, la percezione privilegia naturalmente nell’immagine interna, che quella richiama, certi tratti caratteristici a scapito di altri.
In realtà, all’espressione ‘schema empirico’, in quanto distinto dall’‘immagine’, si sostituisce successivamente nel pensiero kantiano proprio l’espressione ‘esempio’. Sebbene non si diano al proposito molte spiegazioni, appare chiarissimo che l’esempio non è un’immagine-figura, ma piuttosto un’immagine-schema, cioè un’immagine interna che contiene privilegiamenti di certi suoi tratti caratteristici. Così un esempio di cane, cioè un’immagine contenente uno schema, può esibire il concetto empirico di ‘cane’. E, in generale, quando si dice spesso che invece di dare di una classe una definizione esplicita del criterio di appartenenza dei suoi membri, si può dare più semplicemente un esempio, ci si riferisce non a una immagine-figura, mediante la quale, in quanto figura singola, si potrebbe incorrere in fraintendimenti grossolani, ma piuttosto, pur attraverso l’ausilio di una figura, all’immagine-schema cui quella rinvia.
Ma è presente in quella fase del pensiero kantiano, come si diceva, anche la distinzione tra significati oggettuali e significati meta-oggettuali. Se le parole e i concetti empirici che possono essere esibiti, cioè garantiti nella realtà del loro significato, in modo schematico attraverso esempi, sono per ciò esibibili in modo oggettuale; le altre parole, cui non corrisponde un esempio o un’immagine-schema, possono essere esibite solo simbolicamente, cioè mediante l’analogia di un significato oggettuale rispetto a un significato meta-oggettuale. C’è, per così dire, un distanziamento tra le une e le altre, ma sempre in forza di una correlazione immaginazione-linguaggio. Accade infatti, diciamo noi, che proprio in funzione del carattere dell’immagine interna e della sua componente di indeterminatezza il linguaggio non solo dica ciò che la percezione, correlata al linguaggio, permette di dire, ma dica molto di più, seguendo e insieme potenziando la plasticità e creatività della percezione, il proliferare degli schemi e dei significati, e inglobando la percezione in un mondo molto più complesso, detto mediante il linguaggio.
Osserviamo solo che le parole meta-oggettuali forse hanno significati non ricavabili esclusivamente da un’unica analogia, come sembra pensare Kant. È probabile che esse debbano poter essere spiegate mediante il ricorso a molteplici significati oggettuali analogicizzati, nel senso non accettato dall’empirismo lockiano, e alla loro combinazione in una costellazione che, pur ribadendo il nesso tra oggettuale e meta-oggettuale, più decisamente trasformi dall’interno l’oggettualità in meta-oggettualità.
Per esempio: se si parla di ‘governo’ di uno stato, non si può esibire la parola, cioè metterne in evidenza il significato, solo mediante un esempio che ci lascerebbe in dubbio, senza ulteriori informazioni, sul suo effettivo significato. Esemplificare ‘governo’ con questo governo (il ‘governo della Francia’ o ‘della Russia’) è utile solo per chi già sa come stanno le cose con quella parola. Bisognerà ricorrere invece a un insieme numeroso di esempi-schemi oggettuali sottoposti a una trasformazione analogica: l’immagine-schema del potere in quanto esercitato da certi uomini fisicamente forti, tralasciando però nel trasferimento analogico il carattere episodico dell’esempio e, in generale, anche i tratti della forza meramente fisica e individuale, e conservando in primo luogo il tratto della ‘capacità di imporsi’ (per esempio ciò che oggi viene detto ‘carisma’) che è a quelli connesso; il fatto che essi in persona si arroghino arbitrariamente quel potere al modo di galli imperiosi, trascurando di nuovo gli atti minacciosi e i colpi di becco che lo permettono ai galli, oppure lo ricevano attraverso un’operazione elettorale da parte dei cittadini, in modo analogicamente simile all’investitura dei capi di branchi di animali che riconoscano quasi-spontaneamente in certi membri le migliori qualità combattive e le capacità di iniziativa più adatte per guidarli, per procacciare il cibo e per difenderli; e così via. E osservazioni analoghe sono possibili per le parole ‘quanto’ o ‘elettrone’ in un testo fisico, ‘funzione’ o ‘continuità’ in un testo matematico, ‘trascendenza’ o ‘trascendentale’ in un testo filosofico, eccetera eccetera.
Di qui discende che il linguaggio non segue una via innovativa del tutto autonoma, come se i suoi significati meta-oggettuali non avessero più a che fare con dati sensibili e percettivi, o come se infine il linguaggio potesse svariare sull’intero parlabile esclusivamente in virtù della sua potenza creativa. Il che è impossibile, se il linguaggio deve poter dire qualcosa e non il nulla. A prima vista la potenza (addirittura l’onnipotenza, è stato detto, cioè la capacità di parlare di tutto il dicibile non ancora detto) propria del linguaggio facilita una opinione del genere, ulteriormente facilitata anche dalla difficoltà innegabile (ma non in tutti i sensi insormontabile) di riportare alla percezione la realtà dei significati delle parole che ne sono alquanto lontani. Ma il rapporto con gli oggetti della percezione non si può perdere mai, se ciò che diciamo ha un senso oggettivo, pur vissuto soggettivamente e praticato meta-oggettualmente, neanche con l’uso dei termini più astratti e complessi, che esigono teorie e presupposizioni sofisticate e altamente specialistiche.
Solo le parvenze di parole prive di significato e inventate per gioco dai bambini possono far pensare che forse esse abbiano abbandonato ogni rapporto con la percezione delle cose. Ma anche in questo caso non è improbabile che un attento osservatore possa risalire al loro correlato percettivo e quindi a un qualche significato.