13.
Figura e immagine:
arbitrarietà/motivazione

Prima di affrontare il tema dell’immagine ridotta a figura per fini artistici, è opportuno tentare di comprendere meglio lo statuto della figura in generale, artistica e non. Ma qui dobbiamo distinguere tra figura visiva e figura non-visiva, non solo perché il visivo è preponderante nella percezione, ma anche e soprattutto perché, se è possibile considerare l’immagine come il risultato del concorso di tutti i sensi, non si può fare altrettanto con la figura. Questa è infatti una riduzione dell’immagine sia perché la seleziona ulteriormente, sia perché deve scegliere un campo sensibile dove operare, visivo o diverso dal visivo.

È del tutto ovvio che di fatto il ridurre e l’esteriorizzare un’immagine consiste nell’uso di dati materiali (per esempio visivi o auditivi) e di operazioni su di essi tali da produrre con o senza strumenti ‘segni’, nel senso più lato, cioè nel senso di effetti percepibili (tratti grafici, tracce di pennello, modellazioni plastiche, emissione di suoni strumentali, e altri) volti a elaborare secondo determinate intenzioni, più o meno esplicite, l’esperienza sensibile in relazione alla nostra formazione culturale e comportamentale (emotiva, intellettuale, e anche solo incline al virtuosismo e al gioco) e in certi casi secondo scopi comunicativi (rituali, mitici, religiosi, politici, ecc.) o tecnici (cartografie, curve di livello, piante, sezioni, alzati, assonometrie, ecc.).

Si tratta dunque di tecniche espressive arbitrarie. Infatti le composizioni che ne risultano non sono ‘naturali’: i tratti grafici, le pennellate di colore, le forme tratte dalla creta, i suoni ricavati da strumenti e tutte le altre tecniche di riduzione ed esteriorizzazione, compresa la fotografia, non esistono in natura, cioè nell’esperienza che ne abbiamo, ma sono un’aggiunta alla natura per opera dell’uomo, come il linguaggio, il costume sociale e ogni manufatto. Insomma: dipendono innanzi tutto da una convenzione. Ma, a meno di un’arbitrarietà di fondo, possono essere nel risultato finale soltanto (più o meno) quasi-arbitrarie, ed evocare per somiglianza aspetti dell’immagine interna, essendo dunque figure solo inizialmente arbitrarie che risultano poi anche motivate.

Due sono le caratteristiche principali che distinguono la figura dall’immagine: la sua non-naturalità e la sua somiglianza-dissomiglianza con l’immagine, per esempio nel caso della figura visiva la sua fissità, che si oppone alla mobilità dell’immagine. Si tratta ora di comprendere, per quanto riguarda il primo punto, fino a quale grado si spinge la convenzione nei vari tipi di figura e, rispetto al secondo punto, perché e in quale misura la figura può rappresentare in qualche modo, pur differenziandosene, l’immagine. Questo argomento lo tratteremo nel capitolo seguente. Occupiamoci qui della convenzionalità o arbitrarietà iniziale e della possibile motivazione finale nei riguardi della figura visiva, che più richiede un chiarimento della questione. Occorre distinguere sotto questo profilo diversi casi.

Innanzi tutto può darsi il caso di figure volte simbolicamente alla comunicazione di significati di qualche tipo, magico, misterico, religioso, metafisico, intellettuale, politico, araldico, eccetera. Ma anche in questo caso bisognerà tener conto di vari sottocasi, non sempre nettamente distinti e in generale, anzi, differenziati tra loro secondo una continuità interrotta solo, qua e là, da salti. Per esempio la simbolizzazione può essere talmente stretta da proporsi non solo come una convenzione generale, ma come un vero e proprio codice: sarà quindi una sorta di linguaggio, indecifrabile senza una conoscenza del codice. Tuttavia nella sua figuralità anche questo tipo di figura non potrà non mostrare somiglianze, anche esigue, con aspetti estratti dalla percezione (come accade nelle figure non rappresentative della cosiddetta ‘arte astratta’ o ‘concreta’). È il caso per esempio dei mandala che, pur nel loro simbolismo, non rinunciano nella forma esterna a una parentela sublimata con l’immagine interna. Figure di questo genere hanno lo scopo primario di significare, ma si tratta di una significazione non realizzata con veri e propri segni linguistici, come nel caso dell’ideografia. Il che denuncia appunto la loro portata anche figurale. Meglio: il loro codice è appunto solo figurale.

Un caso simile, anche se solo informativo-pragmatico, è quello dei codici iconici del tipo usato per esempio dalle guide turistiche (la figura ‘albergo’, di prima, seconda, terza categoria, ‘ristorante’, ‘cabina telefonica’ e così via) o dalla segnaletica stradale (‘scuola’, ‘divieto di svolta’, ‘obbligo di proseguire in direzione retta’, ‘senso unico’, ecc.) oppure, infine, dal computer. Anche qui, per decifrare il significato dei messaggi, bisogna necessariamente conoscere la convenzione, o appunto il codice che accoppia a ogni icona un significato e che non è caratterizzato da interna creatività: ogni nuova icona non nasce dall’uso, come per il linguaggio verbale, ma solo da nuove convenzioni esplicite. Ma anche in questi casi, dato un codice, è possibile all’utente scorgere in gran parte delle icone, come è nell’intento di chi le ha ideate, una qualche somiglianza con immagini percettive, non foss’altro per il fatto che non esiste figura visiva che non sia costruita trasformando aspetti dell’immagine interna. Certo, il rosso del semaforo significa ‘alt’ e il verde ‘avanti’ solo sulla base di un codice. Ma la freccia bianca rivolta verso l’alto su un cerchio blu o la barra rossa obliqua di un divieto di transito sono verosimilmente la trasformazione convenzionale di un ramo in posizione tale da indicare una direzione, cioè infine della direzionalità di una percezione spazio-temporale, e di una barra materiale posta come ostacolo o segno di ostacolo per l’ingresso in una zona riservata, cioè infine la percezione di un ostacolo materiale che impedisce di proseguire. Ma si potrebbe via via estendere questo rapporto non tanto con la configurazione dell’immagine interna, ma con il materiale percettivo che essa offre, a tutti i significanti visivi più astratti, fino al caso estremo delle lettere dell’alfabeto. Senza dubbio, qui, la loro provenienza non è più rintracciabile intuitivamente. Eppure che essi siano costituiti da tratti simili ai tratti del disegno figurativo denuncia ancora una volta che senza un materiale percettivo e anche verosimilmente senza rappresentazioni figurali preesistenti non esisterebbe neanche la scrittura.

Ci sono poi figure tecniche in cui una convenzione particolareggiata e vincolante, tale da non ammettere quasi, di solito, deviazioni, è per un verso la condizione stessa della loro possibilità. È probabile per esempio che chi non sia abituato a consultare progetti esecutivi di architetti non capisca bene come stanno le cose su piante e alzati, pur cogliendo segni inequivocabilmente tecnici sulle carte che sta guardando. Per un verso, dunque, è la convenzione ad avere la meglio sulla somiglianza a scopo di esattezza metrica. Infatti, essendo la figura una riduzione ed esteriorizzazione di un’immagine (mentale, se si tratta di un progetto, o percepita, se si tratta della rilevazione di un edificio già esistente) secondo regole vincolanti, tali regole vengono stabilite e rispettate solo se di solito, soprattutto nei nostri tempi, si rinuncia alla rappresentazione di intere classi di particolari che pure stanno in quell’immagine. Eppure per altro verso anche in questo caso le regole della riduzione debbono portare a un parallelismo tra certi aspetti dell’immagine e la sua esteriorizzazione figurale. Altrimenti il disegno tecnico non servirebbe a nulla. È proprio la sua corrispondenza con un’immagine interna mediante certe regole, quindi convenzionale, ma pur sempre rappresentativa, a renderlo utilizzabile. Non a caso certe piante dei secoli XVII e XVIII possono abbondare di aggiunte paesaggistiche ormai abbandonate.

Sono possibili poi simbolizzazioni via via più larghe, tali da produrre figure che hanno via via maggiori somiglianze con immagini interne. Per esempio le pitture e i graffiti preistorici sono ottimi esempi in questo senso: infatti, mentre le pitture e i graffiti neolitici sono quasi-astratti e simbolici, anche se di solito ancora riconoscibili nella loro configurazione come somiglianti schematicamente a immagini, le pitture paleolitiche sono state dette addirittura ‘naturalistiche’ o ‘realistiche’. Il termine è un po’ spinto, anche perché non sappiamo e non possiamo sapere quale fosse la loro funzione o il loro significato. Tuttavia è indubbio che, quale che fosse la funzione o il significato di un ‘bisonte’, che potrebbe essere, almeno in parte, una cosa diversa dal bisonte reale, per esempio uno ‘spirito’, un ‘antenato’, un ‘totem’, e così via, esso è trasmesso da un significante che ha somiglianza impressionante, pur nella stilizzazione, con immagini interne di bisonti reali. Per cui il vero e proprio significato ignoto sembra essere legato semanticamente e intellettualmente con un’esperienza di bisonti e con una figura che riduce ed esteriorizza la loro immagine con un’evidenza tale da portare a escludere che il bisonte non faccia in qualche modo tutt’uno con il significato ignoto. Un aggregato di ‘bisonte e antenato’? Benissimo. Ma appunto anche ‘bisonte’, sebbene, in quanto anche ‘antenato’, la sua caccia richieda riti riparatori, necessari quanto il cibarsi della sua carne che li precede. Possiamo supporre anche che sia altrettanto probabile che si tratti soltanto di un animale da cacciare, e che la sua immagine serva a un rito magico che precede la caccia e decide dei suoi risultati e non solo li auspica, pur essendo condizione altrettanto decisiva l’abilità esperimentata dei cacciatori, indispensabile per una caccia effettiva. (Ecco un altro caso, sia detto per inciso, di aggregato ossimorico.) Quei bisonti significherebbero allora proprio ‘bisonti’, con o senza connotazioni ulteriori che ci sfuggono.

Sono da considerare ancora quelle figure che trasmettono intenzionalmente significati, senza essere né tecniche, né propriamente simboliche, ma piuttosto ostensive. Basta vedere qual è l’oggetto di cui si fa ostensione, e la sua significazione è evidente proprio in forza della somiglianza, senza che si debba essere al corrente di regole e tanto meno di codici. Basta sapere che cos’è un’ostensione pubblicitaria, quali siano i suoi costumi d’uso, i modelli iconografici, le associazioni stereotipe, i vezzi diventati luoghi comuni. Insomma: basta che si sappia che cosa sia in generale la moderna pubblicità, perché ogni messaggio singolo sia interpretato, a meno di un contesto, correttamente. In questi casi non è nemmeno necessario pensare a una tecnica naturalistica. Per esempio proprio la pubblicità, nella sua forma fotografica e non, fissa spesso un solo aspetto appariscente dell’oggetto, trascurando il resto, per colpire l’attenzione del riguardante: le labbra rosse di una donna per il resto invisibile se si tratta di lipstick, solo i suoi glutei, strizzati dall’indumento calato fin sotto la vita, se si tratta di jeans.

In generale però dobbiamo riconoscere, sia nel caso che si diano convenzioni strette o codici, sia nel caso che le convenzioni siano minime, più deboli e lasche, che la figura può essere appresa come tale solo a patto che l’uomo viva già in un ambiente figurale e sia familiare con una cultura figurale, del resto antichissima. Va da sé dunque che una popolazione estranea a un ambiente e a una cultura figurale avrebbe difficoltà a cogliere il carattere rappresentativo di certi segni impressi su superfici materiali e la loro somiglianza con immagini. (Sarebbe anche incline, pur possedendo una cultura figurale soltanto simbolica, a non cogliere la rappresentatività di figure non appariscenti o troppo al di fuori della scala e della tecnica figurale cui essa è abituata: questa potrebbe essere forse la ragione del fatto che la fotografia, come è noto, non viene riconosciuta nella sua rappresentatività da alcune popolazioni africane.) Ma basta vivere in un ambiente figurale, quale è diffuso quasi universalmente, ed ecco che la figura viene colta subito come tale e compresa subito nella sua rappresentatività, sia poi questa compresa o no nei suoi possibili significati interni o ulteriori.

Vogliamo dire con ciò che l’arbitrarietà iniziale delle figure non comporta sempre, come è stato sostenuto, un’ulteriore circostanziata convenzione nella forma di un codice, la cui conoscenza condizioni la possibilità di cogliere ogni figura come tale. La tesi si tiene solo se supponiamo che l’immagine sia sempre il significante arbitrario di un significato convenuto che si associa alla figura. Le cose stanno così, abbiamo visto, nel caso del codice semaforico. Ma abbiamo anche visto che le cose non stanno sempre così. Nel caso di infinite rappresentazioni, la funzione della figura può essere in primo luogo la riduzione ed esteriorizzazione, nonché l’elaborazione, dell’immagine interna. In questo caso l’eventuale significato è secondario, spesso trascurato dall’esecutore rispetto a quella funzione primaria.

L’arbitrarietà è dunque propria del primo dischiudersi dell’orizzonte, ripetiamo: antichissimo, di una cultura figurale. È propria precisamente dell’istituzione tutt’altro che ovvia del rapporto immagine-figura. Ma, dentro quell’istituzione e al di fuori di forti codificazioni, l’arbitrarietà tende di solito a diminuire e ad aumentare invece la motivazione in termini di somiglianze. Si apre insomma, come accade in particolare nella figure cosiddette ‘artistiche’, almeno dai Greci fino a oggi, il gioco estremamente vario della formazione figurale. Per citare pochi esempi scelti in modo sbrigativo: dallo schematismo spinto degli egizi fino al rappresentativismo greco, dal grafismo orientale al prospettivismo rinascimentale, dall’iconografismo cristiano a certo realismo seicentesco, dal verismo del secolo XIX all’astrattismo dell’avanguardia, e così via.

Senza dubbio c’è spesso un’intenzione o, più spesso, una semplice occasione comunicativa, più o meno forte o debole, nel fare degli autori di opere d’arte, anche e soprattutto quelle dette tali in senso estetico moderno. Ma gli autori hanno puntato e puntano forse ancora più spesso su effetti non propriamente comunicativi. Facciamo un esempio banale su un piano completamente diverso: se l’aspetto di una donna suscita in noi un’impressione forte, per esempio un cosiddetto innamoramento o un semplice desiderio, si tratta di un fatto comunicativo in senso stretto? Che cosa ci viene comunicato propriamente? Nel nostro caso, se un’opera d’arte sollecita la nostra attenzione e induce in noi un sentimento di intenso piacere e di coinvolgimento emotivo, ci ha forse comunicato qualcosa di traducibile in altro linguaggio oppure ci ha costretto a paragonare la nostra esperienza percettiva, linguistica, intellettuale con la figura che essa ci presenta?

È vero: gli affreschi della Cappella Sistina, delle Stanze del Vaticano, gli affreschi delle pareti, delle volte, delle cupole, dei soffitti di molte chiese e palazzi sono legati semanticamente all’ambiente culturale per il quale furono concepiti, cioè significano, talvolta in forma programmatica, intorno ad argomenti religiosi, metafisici, politici, legati a ordini religiosi, a santi consonanti con l’orientamento storico delle autorità ecclesiastiche o a famiglie potenti che impongono la propria apologia. Ma anch’essi in primo luogo si affermano come pitture in un contesto materiale, sfruttato anche e proprio a vantaggio della loro funzione primaria. Per esempio: il soffitto di Andrea Pozzo della chiesa di S. Ignazio, in cui non mancano simboli che implicano un messaggio comunicativo legato appunto al contesto culturale, non può essere sottratto al suo ambiente ed esposto per esempio su una enorme parete di museo non solo e non tanto per via dello spiazzamento dei simboli, ma proprio e innanzi tutto per il suo impianto prospettico-illusionistico che richiede necessariamente, da un punto di vista percettivo, lo spazio della chiesa sottostante. E ancora: moltissimi dipinti da cavalletto o in ogni caso eseguiti in studio, ma con una destinazione precisa (non solo quelli destinati al mercato, nature morte, paesaggi, scene di genere, che rappresentano in linea di principio oggetti e scene debolissimamente comunicativi), per esempio la Pala di Brera di Piero della Francesca e i quadri caravaggeschi della Cappella Contarelli, furono dipinti senza che necessariamente l’autore pensasse alla loro funzione e al loro significato. Piero era preso innanzi tutto, secondo la leggenda, vera o non vera che sia, dalla prospettiva e dal tipo di spazio che essa gli permetteva di raffigurare. Caravaggio dipinse quadri che avrebbero forse richiesto uno spazio più ampio: segno che nella sua testa stava innanzi tutto il quadro e non il contesto ambientale e culturale e il significato conseguente.

Del resto, possiamo sapere qual è l’occasione comunicativa per cui un quadro è stato dipinto, non l’intenzione dell’artista. Come si fa a conoscerla, se l’intenzione è precisamente celata in lui, e talvolta anche a lui stesso, e l’unica cosa che possiamo giudicare è il prodotto che ne è venuto fuori? (Il che vale, per la verità, anche nel caso della comunicazione linguistica.) Del resto, in moltissimi casi, la comunicazione non si realizza neppure dalla parte del destinatario del presunto messaggio, che già conosce il contenuto iconografico di un dipinto, per esempio un’Annunciazione, e semplicemente lo riconosce in esso. Che gli resta da capire in più se non il dipinto nella sua figuralità?

Restiamo a questo esempio. Ebbene: esistono al mondo un’infinità di Annunciazioni, il cui significato è innegabile ed è tale che per essere compreso occorrono, per i non cristiani, alcune informazioni preliminari su alcuni temi della religione cristiana. Ma possiamo ridurre la loro funzione alla comunicazione del secco messaggio: ‘un angelo viene inviato da Dio a Maria per annunciarle la nascita senza peccato del Redentore’? E che ne sarebbe dei tanti quadri diversissimi nella elaborazione figurale che dipingono quell’episodio evangelico? Sarebbero tutti significanti equivalenti del medesimo significato riformulato nella frase virgolettata? Ma ci sono, si potrebbe obiettare, connotazioni molto diverse tra Annunciazione e Annunciazione: una è austera, un’altra dolce, una lieta, una misteriosa, un’altra ancora casalinga. È così senza dubbio. Ma, a parte il fatto che tali connotazioni dovrebbero riguardare più la figuralità dei dipinti che il loro significato, con una sola altra parola avremmo ancora una volta liquidato l’identità figurale di ogni singolo quadro, che costituisce il suo vero e proprio statuto o, se si vuole, usando il termine in accezione amplissima, il suo ‘significato’ primario. In questo senso, tutt’altro che liquidatorio a sua volta, abbiamo usato le espressioni ‘connotazioni ulteriori’, ‘significati secondari’, e così via.

Queste osservazioni riguardano non esclusivamente la cosiddetta ‘arte’, ma anche ciò che sta al di fuori di una considerazione estetica, dai graffiti cittadini moderni alle illustrazioni di un testo, dai rebus figurati ai disegni sui banchi di scuola, dalle copertine dei libri alle facciate dei contenitori di dischi, fino alla fotografia, per la quale il senso comune ha assimilato l’idea non in ogni senso immotivata, ma errata, che essa sia senz’altro lo specchio più attendibile e accurato della realtà, cioè dell’immagine che ne abbiamo. La fotografia, che innanzi tutto non sarebbe possibile né afferrabile senza una cultura figurale condizionante e che è lontanissima, al contrario di ciò che taluni credono, dal presentarci la realtà tale e quale, è essa stessa arbitraria nell’invenzione e nell’uso della tecnica di registrazione, nella scelta del punto di vista, dell’inquadratura, dell’obiettivo, del diaframma, del tempo di esposizione, dell’illuminazione, del supporto sensibile, della tecnica di stampa. È un’elaborazione dell’immagine interna in figura, che però, a meno di un orizzonte figurale condizionante, non ha bisogno di nessunissimo codice ulteriore per essere colta come figura fotografica. (Semmai può richiedere solo informazioni importanti, utili o superflue sulle cose rappresentate, esattamente come può accadere a un dipinto.) In ciò consiste la non immotivazione di quell’idea errata del senso comune.

E proprio la fotografia ci introduce al secondo problema del rapporto tra figure e immagini.