Abbiamo visto che tutte le figure, artistiche e non, non sono in alcun modo confondibili con immagini interne. Non sono naturali come queste, né come queste interpretanti: sono in realtà il risultato di un’interpretazione e richiedono a loro volta di essere interpretate. Sono almeno inizialmente arbitrarie e talvolta strettamente convenzionali, e quindi ininterpretabili senza la conoscenza del codice. Hanno con l’immagine somiglianze e dissomiglianze, ora rispetto alla sua mobilità-stabilità, ora rispetto alla sua configurazione visiva. Così che, se la musica e la letteratura narrativa e poetica possono vantare, rispetto alle arti figurative, una maggiore somiglianza analogica con la percezione in forza della mobilità-stabilità interna delle loro figure, è altrettanto vero che inversamente le arti figurative possono vantare una maggiore somiglianza sotto altri rispetti. (Del resto anche la musica e anche la letteratura possono avere una mobilità solo sequenziale, come nella monodia o in brani eseguiti da uno strumento solista non in grado di suonare composizioni conrappuntistiche, oppure come nei secchi raccontini sequenziali del Novellino o nelle biografie scritte in termini di elencazioni cronologiche di date, eventi e opere di un uomo politico o di un autore.)
Non si tratta quindi di stabilire una superiorità delle prime rispetto alle seconde. La superiorità della percezione, per così dire, ci basta e ci avanza, o piuttosto dovrebbe bastarci e avanzarci. Si tratta invece di vedere come e le une e le altre, tutte indispensabili alla formazione di una cultura, possano rispecchiare l’esperienza nel suo complesso, cioè in tutti i suoi aspetti: percezione, intelligenza senso-motoria, sentimento di piacere e di dispiacere (come suona una formula classica), emotività, linguaggio, intelligenza concettuale, comprensione dell’esperienza stessa nella sua globalità, e quindi sia come esperienza determinata e liminarmente indeterminata, sia, proprio perché anche indeterminata, come sua totalizzazione. Ma ognuna di esse, in forza del carattere delle figure disponibili, perseguirà questo compito muovendo ora da un aspetto dell’esperienza, ora da un altro, non solo senza eliminare gli altri o alcuni degli altri, ma conservando pur sempre un rapporto originario costante con l’immagine interna.
Esaminiamo, dunque, le figure delle arti (e meglio si dovrebbe dire: di certe opere di questa o quell’arte) rispetto a questo rispecchiamento, senza per ciò escludere in linea di principio l’esperienza estetica nel senso più ampio, relativa a manifestazioni di altro tipo, dovunque e comunque esse si manifestino, di cui le cosiddette opere d’arte sono in sostanza manifestazioni consapevoli e pregnanti. Ci riferiamo all’esperienza di qualcosa fatto dall’uomo (o anche esistente in natura), tale da generare in noi un qualche ‘interesse disinteressato’. Con questa espressione non intendiamo indicare la pretesa autonomia assoluta dell’arte nei riguardi dei piaceri sensibili, degli scopi e delle conoscenze, ma solo un interesse volto non immediatamente a piaceri sensibili, a scopi, a conoscenze utilizzabili, ma piuttosto un interesse per quell’interesse, volto pur sempre a piaceri, scopi, conoscenze. Insomma: un interesse di secondo grado.
L’esperienza dell’arte in genere, e dei suoi equivalenti, può essere considerata per ciò come esemplare dell’esperienza in genere e in particolare anche dello statuto della percezione e dell’immagine interna, da cui ogni arte prende le mosse. Precisiamo, se pure ce n’è bisogno, che tale esemplarità va distinta da quella degli esempi-schemi e intesa non nel senso della loro riportabilità a una classe o famiglia di esperienze, ma piuttosto come caso singolo all’esperienza in genere. Si tratta dunque di una esemplarità strana, anche perché l’opera non riproduce, né può riprodurre, adeguatamente il carattere nativamente enigmatico dell’immagine interna. Tuttavia l’idea di base è che la motivazione più intrinseca dell’arte sia l’esigenza di affrontare e in qualche modo di mimare, con inevitabile distacco, il funzionamento della percezione quale luogo originario della coscienza dell’essere al mondo e nel mondo, in tutte le sue direzioni, componenti, contenuti, emozioni, desideri, frustrazioni, felicità immotivate e sofferenze inguaribili, anche in vista, proprio come la stessa percezione, di piaceri, scopi e conoscenze, ma in questo caso pensati solo come possibili e globali.
Per la verità l’idea non è nuova. L’estetica classica ha fornito numerose trattazioni della questione, da Dubos a Burke, da Baumgarten a Diderot, da Alembert a Kant. La riflessione kantiana le riassume tutte, anche nel senso che le approfondisce, le amplia e giunge al nodo della questione, aprendo la strada a tutta l’estetica successiva, impensabile senza di lui, anche quando si oppone a lui. È insomma la trattazione più lucida e più produttiva. Noi ci fermeremo in particolare sul cosiddetto ‘libero schematismo’.
Al proposito si parla, per il giudizio estetico, di libero gioco dell’intera immaginazione e dell’intero intelletto sull’occasione di una rappresentazione determinata. In quel gioco, che riguarda e il bello naturale e il bello artistico, è quindi previsto esplicitamente un riferimento, insieme alla componente dell’indeterminatezza, anche alla totalità delle rappresentazioni, sia dell’immaginazione che, sull’occasione di una rappresentazione determinata, si apre a tutte le rappresentazioni possibili, sia dell’intelletto, che interviene solo come facoltà dei concetti in genere, cioè nella sua semplice legalità, senza fornire concetti determinati, tale quindi da esporre l’immaginazione nella sua virtuale interezza. Così che, nella ricezione dell’opera artistica e in virtù di questa, si riproduce quel fiorire, svariare, eclissarsi e riemergere di tratti caratteristici immaginativi che sono propri della mobile immagine interna, nella sua vocazione semantica e conoscitiva. Lo stesso schema è possibile dentro il quadro del rapporto dell’intera immaginazione e dell’intero intelletto: è una scelta di certi tratti caratteristici nell’insieme di tutti i tratti caratteristici percepibili di un oggetto, il quale a sua volta non sarebbe possibile se non sullo sfondo di tutti i tratti caratteristici possibili, percepiti o no, percepibili o no, confusi nell’indeterminatezza della totalità. Questa appunto la conclusione a cui siamo giunti noi stessi nell’esame del funzionamento della percezione. Così che, per giustificare la nostra idea, basterebbe mostrare, nell’esame circostanziato di singole opere, che in questa sede sarebbe spaesato, come nella ricezione dell’opera d’arte si produca precisamente, in forma forte e quasi-consapevole, ciò che accade sempre nella percezione, anche se quasi sempre non ce ne accorgiamo. Ecco: l’arte ce ne fa accorgere.
In questo senso, e nell’ambito delle arti visive e in quello di ogni altra arte, l’opera d’arte può indurre nella mente dell’osservatore, mediante i suoi propri artifici e il talento dell’artista, l’idea che essa ostenda sempre il funzionamento dell’immaginazione anche nella sua mobilità interna e nella sua inesprimibile totalità, ciò che la comune immagine interna può soltanto avvertire tacitamente e che l’arte invece, costituendo una sorta di riflessione in azione sull’immagine interna mediante figure, può far cogliere coscientemente. In altre parole: si richiede non necessariamente alla figura di essere oggettivamente mobile come l’immagine interna oppure oggettivamente simile alla configurazione visiva di essa, ma di produrre nell’osservatore, ascoltatore, lettore, facilitata anche da certe somiglianze, un’esperienza globale innescata da immagini interne percettive. Così che quel ‘fiorire, svariare, eclissarsi e riemergere di tratti caratteristici immaginativi’ della figura artistica, unito al suo essere determinata-indeterminata, e quindi tendente a una totalizzazione, anche se non dimora materialmente nell’opera stessa, è nell’osservatore provocato dall’opera come se essa fosse un equivalente riflesso dell’immagine interna. È a essa intenzionalmente simile, pur nella riduzione ed esteriorizzazione di cui è il prodotto.
La differenza sta precisamente in quell’‘intenzionalmente’. Ma è un’intenzionalità profonda, che non è esaurita dalla volontà e dalla tecnica. Siamo come posseduti dall’opera nella sua determinatezza-indeterminatezza, mentre la creiamo e la ricreiamo in noi, e lo siamo consapevolmente, mentre nella percezione, che è non intenzionale, pur essendo parimenti posseduti dalle immagini che ne ricaviamo, spesso l’essere posseduti ci sfugge e, per esempio, siamo richiamati innanzi tutto dall’utilizzabilità pratica o conoscitiva delle cose che percepiamo. Ora, è anche questo ‘essere posseduti’ che l’opera d’arte mima, riflette e intensifica. (L’espressione, naturalmente, non deve essere intesa in senso mistico o quasi-mistico, ma in quello dell’‘essere coinvolti’, del ‘non poter trarsene fuori’, il cui contrario avrebbe invece un senso mistico e metafisico.)
Posseduto non è solo il cosiddetto fruitore, ma innanzi tutto l’autore dell’opera d’arte. Non a caso le espressioni, divenute poi un luogo comune banale, del ‘genio’ e dell’‘ispirazione’ sono originariamente tutt’altro che un luogo comune. Hanno avuto e hanno tuttora, se usate non banalmente, un senso serio e giusto. Segnalano che scopo dell’artista, per esempio del pittore, non è la resa esatta (convenzionalmente ritenuta esatta) propria del disegno tecnico, cioè di isolare certi tratti caratteristici, standardizzarli secondo regole ed eseguirli nel modo più neutro possibile. Al contrario è spesso, come è stato sostenuto con ottimi argomenti, il rifiuto dell’esattezza, per esempio (ma è solo un esempio) mediante lo sforzo di immettere in un disegno o un dipinto che pure riduce ed esteriorizza certi effettivi tratti caratteristici dell’oggetto una qualche vaghezza: tratti tralasciati o appena accennati, ambiguità funzionale di certi aspetti, una qualche confusione di tratti diversi, sommarietà, contrasti, insomma una sorta di pensato e controllato lassismo espressivo o, come si diceva una volta, di ‘sprezzatura’. Il che realizza una mobilità mediata dell’opera d’arte.
In conclusione: è proprio questo carattere dell’opera d’arte (di nuovo: di certe opere d’arte) una neutralizzazione, nell’osservatore, nel lettore e nell’ascoltatore, non nell’opera stessa, delle limitazioni di cui soffre la figura. Nell’opera c’è tutto ciò che l’artista ci ha messo, ma c’è anche ciò che non ci ha messo, in funzione di suggerimento di una totalità inafferrabile, e proprio per ciò non si può restare a ciò che semplicemente si vede, si legge, si ascolta, ma si deve continuamente svariare sulle diverse parti dell’opera per sempre ricostituire, attraverso varie determinazioni e interpretazioni, quel sentimento di totalità che l’opera suggerisce.
Naturalmente qualcosa di simile accade, o dovrebbe accadere, anche con tutti i prodotti più comuni e anche banali. Ma certe opere d’arte, appunto, quasi ci costringono a riconoscerlo, se ci mettiamo nella prospettiva giusta per intenderle, e a cogliere ciò che ci càpita, o ci dovrebbe capitare inconsapevolmente tutti i giorni con opere e oggetti comunissimi. Del resto anche le opere d’arte, tutte le opere d’arte, anche le più importanti, sono infine solo oggetti che possono essere appresi con indifferenza. Qualche volta le avvertiamo proprio come figure fisse, atone, stecchite. Ma appunto, se la nostra attenzione è invece pronta e disponibile, scopriamo in esse quell’aria inafferrabile di varietà e totalità che ci restituisce, insieme all’esperienza nel suo complesso, anche l’immagine interna nella sua mobilità, nella sua icasticità e nella sua produttività ulteriore.