17.
La forma: completezza/incompletezza

Ma la forma di un’opera d’arte, caratterizzata stilisticamente in modo forte e riconoscibile, tenderebbe forse a essere considerata all’opposto dell’immagine interna come non lacunosa e non correggibile, in sostanza come non mai carente di qualcosa o provvista di qualcosa di troppo, e quindi ‘per se stessa completa’? È questa un’altra difficoltà che si frapporrebbe alla nostra ipotesi della prossimità di figura e immagine? Esaminiamo quindi la nozione di ‘forma’, in quanto determinata da uno stile. Ma, prima ancora, diciamo che l’espressione sopra virgolettata sembra non significare assolutamente nulla per un’opera d’arte, dal momento che un qualsiasi oggetto materiale, anche uno di quegli infiniti rifiuti cittadini che rotolano per la strada dai contenitori strapieni, è sempre ‘per se stesso completo’. C’è in esso tutto ciò che c’è. Che altro ci può essere, dato che non c’è? Ma forse per completezza s’intende un’altra cosa. Ma quale?

In che senso dunque un’opera potrebbe essere completa, e rispetto a che? Non, certo, rispetto all’immagine interna, che è in linea di principio più ricca dell’opera, in quanto questa è appunto una sua riduzione. Per di più, l’opera che raggiunge una forma ottimale è di solito più fortemente selettiva delle altre, anche e proprio in funzione del suo stile. Lo stile, infatti, tende a eliminare intenzionalmente l’eterogeneità a-stilistica dell’immagine percepita. Qualcosa di tale eterogeneità può certo permanere in certi casi, ma perché lo stile lo richiede, o nella forma di particolari che per un verso rompono l’omogeneità della figura e per altro verso si collegano ad altri particolari che, insieme, rappresentano il suo tessuto icastico (come in van Eyck) oppure come un insieme di particolari confusi per introdurvi una voluta indeterminatezza (come in Rembrandt). Quando invece lo stile diviene meno esigente e i particolari si moltiplicano, come in certo verismo, la figura si degrada in figurina. In ogni caso, perfino in quest’ultimo, la figura è tutt’altro che completa.

Tuttavia, si potrebbe obiettare, la forma è completa non nel senso di un oggetto materiale, ma perché è stata fatta proprio così e così, e di nient’altro ha bisogno. Ma in un’opera d’arte, formalmente riuscita o no, il suo esser fatta così o così implica anche il suo tralasciare infiniti particolari possibili. Per essere così e così, deve essere nello stesso tempo non solo così e così. (Così e così sono semmai gli oggetti strumentali progettati per scopi determinati.) Deve quindi essere così e così in rapporto a qualcosa che eccede il così e così e rinviarci a ciò che nell’opera non è osservabile. Questo del resto deve accadere in ogni caso in opere qualsiasi e con risultati anche insignificanti. Per esempio, un cartellone pubblicitario può rappresentare un cane che mangia cibo per cani in scatola, e quel cane rimanda l’osservatore a un’infinità di altri particolari del cane rappresentato e di altri cani che abbiamo posseduto o semplicemente conosciuto, rievocando via via in qualche modo un intero mondo, anche se microscopico. Solo così l’icona ‘cane’ ha l’effetto desiderato. Lo stesso si dica per un santino di quart’ordine, che sarebbe assurdo identificare con la sua immagine in quanto è così e così.

In un’opera d’arte riuscita questo rimandare ad altro ha una portata più ampia e meno pragmatica. Qui la forma contiene qualcosa che non è senz’altro forma visibile, leggibile, ascoltabile, osservabile. Solo che questo non-osservabile dell’opera è indotto dal suo stesso osservabile nella mente dell’osservatore. Per tornare all’esempio più volte usato: se una siepe reale, essendo solo traguardata, quasi si annulla percettivamente nell’infinito che può suggerire per contrasto, la siepe leopardiana, attraverso cui l’infinito viene evocato, resta come figura dell’opera. Qui, per così dire, noi non ‘traguardiamo’ la figura, ma la ‘guardiamo’, e in questo modo essa ci rimanda al di là di se stessa. È dunque questa permanenza della figura che fa sì che l’opera d’arte possa suggerire proprio con la sua forma positiva e presente qualcosa di negativo e assente oltre la stessa forma. Diciamo aforisticamente che ogni opera d’arte riuscita è una siepe leopardiana.

Questo ‘al di là di se stessa’ dell’opera può essere confermato da considerazioni di carattere generale. È evidente che la forma di un’‘opera d’arte’ è qualcosa di più di un esito espressivo qualsiasi, di cui si possa dire che c’è tutto il necessario e niente di superfluo. Prevede, oltre a un suo pensiero interno, una cultura articolata, un contenuto (scientifico, psicologico, politico e così via) e anche la congruenza delle varie parti dell’opera tra loro, la coerenza, la combinazione, l’intersezione dei mezzi espressivi adoperati. Ma forse proprio questa coerenza viene presa per completezza, come se si trattasse di coerenza logica? Ma la coerenza, che distingue nettamente l’opera d’arte dall’immagine vissuta casualmente e l’avvicina al suo genuino statuto, è tutt’altra cosa. Anzi, da essa scaturiscono significati molteplici, non necessariamente tutti coerenti e tuttavia come raccolti in uno solo, non facilmente esprimibile, nonché una forza emozionale non affidata a espedienti facili, volti alla commozione, ma tutta contenuta nella forma stessa, tale da suscitare emozioni non episodiche e non sentimentali, ma piuttosto un sentimento gratificante e sofferto, simile a quello che proviamo, senza riuscire a dire di che cosa si tratta, quando abbiamo un’intensa coscienza di essere immersi in un mondo che ci eccede infinitamente e che tuttavia, per così dire, ‘ha bisogno di noi’ per minimizzarci e per non essere altro che un buco vuoto da noi insaputo. Come può essere completa una opera cosiffatta?

Tutto ciò non sempre appare attraverso certe idee riduttivamente formalistiche, attente esclusivamente alla forma determinata e osservabile, che hanno talvolta il torto di trasformare ciò che diciamo ‘bellezza’ in una semplice ‘bella apparenza’, per cui si parlerà di un romanzo ‘ben scritto, secondo una scrittura raffinata e affascinante’, di un quadro ‘ben dipinto, secondo forme coerenti rispetto a un certo modello’, di una sonata ‘composta con procedimenti che generano una struttura originale e ben pensata’. Ma queste sono, soprattutto nel discorso corrente, le semplificazioni inevitabili e, in certi casi, anche le deviazioni della nozione critica di ‘forma’, portatrice invece, al contrario delle teorie meramente contenutistiche (sociologiche, storicistiche, psicologistiche, e così via) o meramente ineffabilistiche (solo incentrate sul genio, sull’ispirazione, sul miracolo della creazione), di un’istanza di comprensione innegabile e pertinente.

Prendiamo per esempio il cosiddetto ‘purovisibilismo’, nato in rapporto alle arti figurative, oggi ingiustamente bistrattato, perché confuso con talune sue banalizzazioni, anche specialistiche. Senza dubbio da esso si sono originate derive critiche ‘formalistiche’, in senso riduttivo, attente esclusivamente alla forma sensibile osservabile. Il che la teoria originaria non prevedeva necessariamente. Negli autori, ormai classici, del purovisibilismo c’è invece la preoccupazione di fondo di analizzare l’opera d’arte, nella misura in cui essa è analizzabile, secondo categorie che ci permettono di cogliere l’effettiva configurazione formale di un dipinto, di una scultura o di un’architettura, senza tuttavia spingerci tanto oltre da affermare che quella configurazione esaurisce la capacità dell’opera di essere esperita e compresa. L’opposizione purovisibilistica ‘lineare-pittorico’ o ‘forma chiusa-forma aperta’, per esempio, ci fornisce a rigore solo un criterio di individuazione del modo di costruire la forma, che, proprio perché così costruita, è in grado di rimandare anche all’altro da sé. Il lineare e la forma chiusa, in particolare nel caso dell’architettura, non si esauriscono in se stessi, ma rinviano a uno spazio delimitato nella sua invisibilità da linee e da piani osservabili; così come il pittorico e la forma aperta, in particolare nel caso della scultura, non si disperdono nell’ambiente al modo di forme frastagliate e solo determinate, ma piuttosto assorbono in sé, unitariamente, lo spazio altrettanto invisibile entro cui esse si accampano. La contrapposizione classica di ‘rinascimento’ e ‘barocco’ ha esplicitato egregiamente questa doppia via per esprimere attraverso una forma definita l’indeterminatezza che va oltre la forma stessa. Il che, in diversi ambiti culturali, è esplicitamente attestato anche nella riflessione artistica di molti artisti, quale per esempio Klee, come è stato messo in rilievo recentemente.

Ora, se il così e così è in grado di rinviare a qualcosa che eccede il così e così, l’opera non costituisce mai un mondo in sé chiuso (neppure, appunto, nel caso della ‘forma chiusa’) e deve essere quindi compresa nella sua relazione intima con la percezione delle cose del mondo e con l’esperienza nella sua varietà e interpretabilità. Non si sta parlando qui soltanto di rappresentazioni di immagini di oggetti, ma anche di semplice utilizzazione e trasformazione dei caratteri sensibili che costituiscono il tessuto entro cui un oggetto può essere percepito e infine anche figurato. In altre parole: non si sta privilegiando, per esempio, la pittura cosiddetta ‘figurativa’ rispetto alla pittura cosiddetta ‘astratta’ o ‘concreta’, o la letteratura realistica rispetto a una letteratura fantastica o intellettuale, e tanto meno il melodramma rispetto alla musica strumentale. Non interessano neppure, qui, tali distinzioni storico-critiche. Si sta dicendo soltanto che la produzione di un’opera, caratterizzata da un suo stile e da una sua forma, non può avvenire senza legarsi non solo all’esperienza sensibile effettiva, il che è ovvio, ma anche alle configurazioni o agli elementi che essa offre per una elaborazione ulteriore.

Siamo esseri che stanno in un mondo di cose nelle quali siamo coinvolti in ogni aspetto della nostra corporeità, linguisticità e intellettualità, e quindi anche nella correlazione determinatezza-indeterminatezza che è propria di quel mondo nell’esperienza che ne facciamo. Gli attrezzi stilistici che escogitiamo e la forma che determiniamo non possono non tenerne conto e tendono per ciò a una severa selezione degli aspetti dell’immagine. Nel caso particolare delle arti figurative, la figura artistica in tal modo si distingue, sì, dall’immagine di oggetti percepiti e segnala in modo deciso a chi la riguarda che l’immagine che questi ne ricava non è in linea di principio quell’intrico eterogeneo di particolari determinati che è proprio della percezione comune. Ma se ne distingue per mimare, in quanto figura, la percezione nel suo genuino statuto.

La figura troppo ricca di particolari invece può far passare in secondo piano questa sua funzione e intricarci in una visione simile, sì, alla comune percezione, ma nel suo essere comune e disattenta. Ma neppure una tale figura, anche nel suo estremo verismo, è la piatta riproduzione, per altro impossibile, dell’immagine percettiva. Lo dimostrano abbondantemente le vicende lente e faticose della riduzione ed esteriorizzazione, cosiddette ‘realistiche’ o ‘veristiche’, delle immagini interne, come è stato mostrato da teorici e critici d’arte. Gli sbocchi apprezzabili di tali vicende possono essere diversi: recuperare pur nell’ispezione più accurata dell’oggetto percepito una complessiva selettività formale, come per esempio nella liscia e tersa lucidità di un Vermeer, unire all’accuratezza ispettiva una forma intenzionalmente sommaria e confusa, come in un Goya, forzare il realismo verso una forma severa e spoglia che affatto realistica non è sempre, come in un Courbet, oppure, come negli esempi migliori di iperrealismo, portare il realismo fotografico al di là di se stesso, verso una forma visionaria e spiazzante, che non può non evocare in noi l’indeterminatezza del determinato della stessa fotografia. (Ma anche negli esempi meno interessanti, Morelli o Meissonier, non mancano talvolta certe sprezzature. E perfino nel caso di certo iperrealismo, là dove la pittura ricalca puramente e semplicemente la figura fotografica di partenza, come negare che la realtà fotografata-dipinta e l’ottusità della sua riduzione evochino in noi un senso di vuoto che in qualche modo recupera qualcosa dell’indeterminato della percezione?)