Premessa

Una brevissima premessa in prima persona singolare.

Chiamerò complessivamente ‘immagine interna’ sia il precedente di un’immagine (sensazione), sia l’immagine in quanto attualmente prodotta (percezione), sia l’immagine in quanto riprodotta o ricordata-rielaborata (immaginazione), per distinguerle complessivamente dalla ‘figura’ esteriorizzata, per esempio, mediante un disegno. Quei tre momenti o aspetti dell’immagine interna sono strettamente connessi e talvolta addirittura difficilmente distinguibili. Perciò, nel corso di queste osservazioni e relative ipotesi, mi capiterà di chiamare la facoltà che ne è responsabile ‘facoltà dell’immagine’, tale da riunire in sé sensazione, percezione e immaginazione. Ma, poiché sarà opportuno accentuare l’un aspetto o momento rispetto agli altri, parlerò spesso anche di ‘sensazione’, ‘percezione’ e ‘immaginazione’. Resta convenuto tuttavia che questi termini non sarebbero pienamente comprensibili se non fossero sempre riferiti a una complessiva ‘facoltà dell’immagine’.

Le mie osservazioni partono dalla convinzione che l’immagine interna è un piccolo o grande enigma: una convinzione che mi si è imposta via via sempre più nettamente, soprattutto attraverso l’assiduo ripensamento del cosiddetto ‘schematismo’ kantiano, un tema ormai antico e tuttavia sempre attualissimo, non a caso ripreso frequentemente da studiosi moderni e viventi. In un certo senso questo enigma è il mio tema. Mi porrò in particolare le seguenti domande: Che cos’è l’immagine interna? Come si produce? In che cosa consiste precisamente (o imprecisamente)? Come può essere descritta? o addirittura: Può essere descritta? Ma, naturalmente, il tema sottostante, che nasce dall’idea della creatività della percezione, è più ampio e forse più ambizioso: si tratta infatti di vedere più chiaramente, nei limiti in cui ciò è possibile e in particolare è possibile a me, le condizioni e i modi del nostro adattamento e quindi del nostro essere finora sopravvissuti come specie, del nostro operare, del nostro conoscere e comunicare, o insomma, per dirla con un’espressione un po’ pomposa, lo statuto del nostro essere nel mondo.

Il che richiama ovviamente il problema, qui non trattato, della comprensione che diciamo ‘filosofica’ della possibilità di un’immagine del mondo nella sua totalità, impossibile da realizzare in termini di rappresentazioni tutte determinate, ma solo facendo spazio all’indeterminatezza – come vedremo – che il determinato sempre suppone. Insomma, qui il problema dello statuto di una tale comprensione rimanda a ciò che in un libro precedente ho detto ‘guardare-attraverso’, l’unico possibile di contro al ‘guardare il mondo nella sua totalità dall’esterno’, come pensano i metafisici, o al ‘guardare solo le rappresentazioni particolari che di volta in volta ci formiamo di questo o quell’aspetto del mondo’, come pensano gli empirici. Il ‘guardare-attraverso’ unifica paradossalmente il nostro coinvolgimento nel mondo delle cose, quindi la determinatezza, diciamo la nostra ‘vicinanza’ alle cose e, nello stesso tempo, la nostra ‘lontananza’, cioè il nostro allungare lo sguardo nel mezzo del determinato verso i suoi confini liminari e non mai raggiungibili completamente. Cosa che facciamo tutti i giorni, anche da non-filosofi. Il che permette proprio al determinato di sussistere, per noi, come tale.

Questo libretto è dunque, sì, nel fondo, un saggio di filosofia, e tuttavia gli argomenti più strettamente filosofici saranno solo sfiorati, per dare maggiore spazio sulla loro base a osservazioni e ipotesi legate all’esperienza determinata-indeterminata di tutti i giorni. La mia intenzione è insomma di muovermi, nei limiti del possibile, mediante osservazioni personali dirette, che appartengono probabilmente alla malfamata, forse ingiustamente malfamata, introspezione, accompagnate costantemente dall’esigenza di valere come auto-osservazioni comuni a tutti. Naturalmente non potrò non tenere conto almeno implicitamente degli apporti, accettabili o meno accettabili, della letteratura specialistica, scientifica o filosofico-scientifica, che esiste su questo tema. E tuttavia quasi prescinderò in linea di principio da tale letteratura e dai suoi autori o, almeno, salvo il caso inevitabile di alcuni classici, non li citerò di proposito. Vorrei infatti che questo mio libretto conservasse non solo il suo carattere originario di riflessione non dotta, di monologo, di riflessione giornaliera, di esercizio osservativo e ipotetico informale, ma anche di conversazione e discussione con amici intelligenti, che mi sono stati direttamente o indirettamente di grande aiuto nel tentativo di comprendere quell’enigma grande o piccolo e le sue ulteriori conseguenze e teoriche e applicative. Cito qui quelli che più hanno contribuito alla comprensione del mio tema: il linguista Tullio De Mauro, i filosofi Giuseppe Di Giacomo e Pietro Montani, l’antropologo Giancarlo M.G. Scoditti, lo psicoanalista Armando B. Ferrari, il linguista (e altro) Francesco Antinucci, ricordati solo tacitamente nel testo. (Ma molti altri dovrei qui ricordare, e in primo luogo il giornalista, mio ex-compagno di studi, Luigi Bianchi.) La decisione mi consentirà di restare fedele a un mio antico ideale di semplicità espressiva, che non sempre mi è capitato di soddisfare adeguatamente.

Detta così la cosa, il mio proposito sembra dettato solo da modestia. Purtroppo, la cosa non sta così. Alla modestia apparente si accompagna anche un’indesiderata e a me non congeniale presunzione. Ci sono filosofi giustamente famosi che hanno lavorato in un simile stile corsivo e osservativo, e il paragone tra me e loro dovrebbe preoccuparmi piuttosto che pacificarmi nell’ideale della semplicità. La semplicità, infatti, è molto più complicata delle complicatezze tecniche o pseudo-tecniche, che non infrequentemente danno solo l’illusione di aver pensato a fondo un argomento, mentre in realtà possono solo averlo rivestito di filosofemi altezzosi e vuoti. Ma la mia scelta è questa. Mi auguro solo che la presunzione indesiderata resti in ombra e si dispieghi invece, per quanto è possibile, una comprensione motivata e largamente accessibile.

Ripeto: l’idea di scrivere questo libretto non tecnicamente filosofico, e tanto meno scientifico, nasce da interessi teorico-filosofici, già in parte coltivati in saggi precedenti, quindi un po’ astratti, non applicativi e non esplicativi del fenomeno della rappresentazione esterna, ciò che appunto chiamo ‘figura’, e del suo rapporto con l’immagine interna. Ma è stata anche rafforzata in modo decisivo dallo stimolo e dai suggerimenti che ho ricevuto da alcuni eccellenti lavori di giovani studiosi, a me molto vicini, che mi hanno indotto ad affrontare la questione soprattutto dal punto di vista di un abbozzo di teoria anche esplicativa. Ne cito uno solo, a me particolarmente caro. Si tratta di mio figlio Giovanni, a cui dedico questo breve lavoro non perché sia mio figlio (circostanza strettamente privata che è incongruo ricordare in una Premessa), quanto perché da un suo eccellente libro, Elogio dell’imprecisione (Boringhieri, Torino 2004), ho ripreso molte idee centrali e osservazioni assai acute, di carattere e teorico e applicativo, che non solo mi hanno aiutato nel chiarirmi alcuni temi particolari, ma hanno anche costituito un contributo condizionante allo svolgimento complessivo del mio discorso filosofico-teorico-osservativo-ipotetico. Anche per sua responsabilità, quindi, sono uscito allo scoperto non senza una qualche improntitudine, per dichiarare, sia pure con molti ‘sembra’ e ‘forse’, il mio pensiero sull’argomento.

Ringrazio infine mia moglie, Maria Giovanna, per aver letto con attenzione e affetto il cosiddetto ‘manoscritto’ (come si dice comunemente, anche se manoscritto più non è) e per le sue molte utilissime osservazioni e i suoi consigli preziosi, sia di sostanza sia ai fini della leggibilità del testo.