Per un verso, l’enigma dell’immagine può parere risibile. Quale enigma in ciò che ci accade tutti i giorni e che è anzi alla base delle esperienze più comuni? Per altro verso, le difficoltà connesse alle nostre domande, può non vederle solo chi professi un referenzialismo talmente ingenuo da concepire il percepito come il doppio complessivo e puntuale dell’oggetto.
È mai esistito un referenzialismo così spinto e intenibile? Più no che sì. Tuttavia alcuni aspetti di esso affiorano in trasparenza, qua e là, nella tradizione filosofica e, incredibilmente, riaffiorano e anzi si dichiarano quasi apertamente e ingenuamente anche ai nostri giorni. Senza dubbio, anche chi ha pensato e pensa che la percezione abbia una portata esclusivamente oggettiva ha concepito e concepisce in generale tale portata come un rapporto semiotico, tale che l’immagine è il segno iconico dell’oggetto. E un segno di tipo iconico ha tratti che traducono visivamente la struttura e i rapporti interni dell’oggetto di cui è immagine, ma non è senz’altro il doppio complessivo e puntuale del suo oggetto. Restituisce di esso qualcosa che gli appartiene, ma secondo un filtro che è del percipiente, non della cosa. Diciamo allora che si tratta di un referenzialismo ideale, più supposto tra le righe che ipotizzato e professato esplicitamente, ma tuttavia latente o presente in forme semiesplicite. Esso è intenibile anche nella sua idealità, esattamente come lo è il suo contrario. Infatti non è che la posizione opposta e complementare all’idea di una totale indipendenza del percepire, come se questo non ci aprisse alle cose e fosse un’attività tutta rinserrata nel soggetto e che in esso si esaurisce.
Infatti, secondo quella bizzarra coppia di idee, o la percezione ci fornirebbe in sostanza le cose stesse oppure le cose che percepiamo sarebbero solo nostre formazioni interne che non informano di nulla di ciò che c’è (o piuttosto non c’è) all’esterno dei percipienti. Con un oggettivismo estremo e contraddittorio si coniuga dunque in un nesso oppositivo e complementare un soggettivismo altrettanto estremo, la cui espressione più nota e più ingenua è l’‘Unico’ stirneriano (o, alla Berkeley, addirittura dio in persona in cui le nostre idee-percezioni-cose avrebbero l’unica consistenza, sede e legittimazione possibile). È in questo senso che, pur opponendosi l’uno all’altro, si richiedono a vicenda. L’assurdità dell’uno rimanda all’assurdità dell’altro, e viceversa.
Ora, l’idea, pur vaga e solo sfiorata, che l’immagine interna sia in tutto e per tutto corrispondente alla cosa dipende forse dall’identificazione abbastanza comune di essa con una figura, il cui realismo ci comunica talvolta un senso di presenza, come se la figura fosse appunto la cosa stessa. In realtà la figura sarebbe semmai identica all’immagine percepita della cosa. Ma neanche questo è vero. Un’immagine-segno, concepita come una figura effettivamente esistente (una specie di disegno mentale), ha non molto a che fare con la genuina immagine interna che si costituisce in noi con la percezione. Infatti una figura è, vedremo, una specifica riduzione ed esteriorizzazione dell’immagine interna dell’oggetto, ed è di fatto statica, anche se non può non essere stata costruita dinamicamente, con o senza intenzione. È, una volta prodotta, ciò che è, mentre l’immagine interna è essenzialmente dinamica, cioè non solo si forma, ma anche sussiste come il risultato cangiante di ispezioni sempre diverse dell’oggetto.
Insomma: quelle due posizioni alternative, pur se in parte solo ideali, non sono che modi di minimizzare la questione della percezione, o di non vederla affatto, come se essa non ponesse alcun problema alla riflessione. Non fanno che facilitare il nostro comprendere fino al punto di annullarlo, e non gettano la minima luce su che cosa è effettivamente il percepire oggetti.
Fu la filosofia critica kantiana ad aprire decisamente una nuova prospettiva, tale da riaffermare la portata oggettiva della sensazione e dell’intuizione, evitando da una parte una loro nullificazione in un soggettivismo assoluto, dogmatico e neppure seriamente discutibile, e dall’altra senza annegarle in un oggettivismo incomprensibile, altrettanto dogmatico e per di più contraddittorio. Talvolta la filosofia critica è stata sbrigativamente giudicata come soggettivistica e idealistica: il che dimostra precisamente che una qualche idea di referenzialismo radicale doveva pur alloggiare nella mente di certi interpreti. In realtà la filosofia critica ha sostenuto piuttosto questo: che noi abbiamo coscienza sensibile degli oggetti tra i quali siamo immersi sia attraverso le affezioni dei sensi, sia attraverso un’organizzazione di esse mediante forme, spazio e tempo, concepite come forme a priori. Ora, si potrà senza dubbio discutere e meglio precisare se e come spazio e tempo siano forme a priori, ma sarebbe difficile negare che esse siano non risultati dell’esperienza, ma piuttosto presupposizioni dell’intuizione che l’esperienza richiede, mette in atto e sviluppa. Probabilmente, come del resto fu allora suggerito in anticipo su ogni concezione evoluzionistica moderna, si tratta di forme a priori che fanno parte della nostra, umana, dotazione genetica, non di forme trascendentali per ogni tipo di coscienza sensibile. Le migliori espressioni della moderna psicologia della percezione e degli studi etologici hanno spesso accettato e sviluppato in diversi sensi, consapevolmente o no, questa impostazione di fondo.
Ormai è comunemente accettato che il modo di avvertire le cose fuori di noi è diverso da specie a specie, e che tale diversità dipende non dal numero e dall’accumulazione dei dati sensibili, ma piuttosto dalla capacità di filtrarli e adoperarli in modo specifico. Sta il fatto che non tutti i viventi hanno esperienza sensibile al modo degli animali umani, che è soprattutto visiva, organizzata inoltre spazio-temporalmente, ma l’hanno per esempio di tipo chimico, auditivo o di altro tipo: il pipistrello è fornito di una specie di radar, il cane ha una vista modesta e si affida principalmente all’odorato, il cosiddetto ‘porcellino di terra’ reagisce agli stimoli dell’umidità e sopravvive o no se, muovendosi a caso, trova o non trova il luogo con l’umidità giusta. Quindi, in ogni caso, decisiva è la specificità dell’avere coscienza e avvertimento delle cose, o almeno una tendenza a essa che l’esperienza rende operante.
La prima, ma solo apparente, difficoltà della percezione sta dunque in questo: che, se non ci si nasconde il problema che la riguarda, essa ci appare come soggettiva e oggettiva insieme. Ma non si tratta di una sorta di ossimoro. Tale duplicità non ha niente di contraddittorio e anzi non può non convenire al nostro essere coinvolti essenzialmente nelle cose stesse o nel mondo. Fornisce (salvo alterazioni gravi degli organi di senso, che in ogni caso non è pensabile che la soggettivizzino radicalmente) valori oggettivi delle cose, per esempio quantitativi, tali da poter essere poi esplicitati in rapporti metrici, in un modo che non è ad evidenza delle cose stesse: lo stesso avvertimento di quei valori oggettivi è nostro e, tanto più, la nostra misurazione non sta nelle cose, ma dipende da una unità di misura da noi stabilita, idonea per l’esplicitazione di quei rapporti.
Vere e proprie difficoltà incontreremo in seguito. Ma, precisiamo subito, esse non sono affatto di natura stratosferica. Non sono difficoltà simili a quelle, solo metafisiche, apparenti e superflue, dell’alternativa ‘essere o nulla’, della questione se ci sia un dio o se l’anima sia per caso immortale. La difficoltà è bassa, non alta: nasce dal fatto che proprio ciò che appartiene intrinsecamente alla stessa vita quotidiana e dovrebbe essere quindi affatto evidente, e che anzi sta alla base di ogni nostra esperienza, quotidiana e no, semplice o complicata, passa in generale inosservato. Resta oscuro, pur se ritenuto evidente.
Così, la sua mancanza di chiarezza viene trasformata in evidenza o, meglio, in ovvietà. Ma, con ciò, non stiamo prendendocela con i non-filosofi. I più, nel corso della loro vita, non pensano affatto a quei problemi, e fanno pragmaticamente benissimo, nella misura in cui operano. Sta il fatto però che quella presunta evidenza sollecita invece nei non distratti o nei petulanti, a piacere, domande a cui non si può rispondere con chiarimenti completi e con descrizioni conclusive. In realtà la facoltà dell’immagine è qualcosa di non definitivamente chiaribile, di non propriamente descrivibile, di non completamente afferrabile nella sua intera determinatezza. Ma una cosa è accettare passivamente una difficoltà come un sorta di oscuro destino, risolto per di più in ovvietà, una cosa è sforzarsi nei limiti del possibile di chiarirla e comprenderla proprio nella sua enigmaticità.
E diciamo subito, per non suscitare nel lettore aspettative infondate, che la questione della vera natura dell’immagine e della stessa percezione che la produce è aperta e forse è destinata a restare in qualche misura sempre aperta.