Per cominciare a renderci conto di che cosa percepiamo quando percepiamo, è opportuno esaminare le percezioni non quando operiamo e siamo interessati innanzi tutto a orientarci nell’ambiente in cui operiamo, ma nelle pause di riposo o di momentaneo distacco. Lo facciamo continuamente, anche quando siamo indaffarati, basta che la tensione si rilasci per un attimo.
Nel primo caso, come si è già accennato, gli scopi che ci guidano tendono a nascondere sotto la loro cogenza la questione della percezione e il suo enigma. Questa è la buona ragione dei più. Abbiamo, per così dire, altro da fare che preoccuparci di uno degli ingredienti che stanno alla base di ogni minima, quotidiana o impervia, esperienza operativa o intellettuale. Ma, quando semplicemente ci guardiamo attorno e mettiamo a fuoco questo o quell’oggetto senza un interesse determinato, quando cioè gli scopi non occultano ciò che è percezione, il quesito s’impone quasi inevitabilmente, se soltanto non ci accontentiamo di accettarla così come di fatto, ovviamente e tuttavia oscuramente, essa si produce.
Per esempio: giriamo lo sguardo intorno e ci soffermiamo via via su alcuni oggetti, e aspetti di oggetti, che incontriamo – un vaso, un gatto, una sedia, una tenda, una finestra, e così via – e li riconosciamo pur senza dircelo esplicitamente. Ora, il riconoscimento sembra essere una caratteristica funzionale importante della percezione, tale da avere conseguenze decisive nella comprensione del problema. Il riconoscimento infatti già comporta che noi, pur senza un intervento esplicito del linguaggio e dei significati o concetti di cui esso è portatore, cogliamo quegli oggetti come casi taciti, non, certo, di una ‘classe’ o anche di una ‘famiglia’, nel senso di Wittgenstein, ma di qualcosa che chiamiamo qui un ‘aggregato’. Altrimenti come potremmo riconoscere un gatto o un vaso, senza nello stesso tempo notare in qualche modo certe somiglianze (o anche dissomiglianze) che li legano ad altri oggetti dello stesso aggregato? Si tratta, certo, proprio di quel gatto o di quel vaso singoli, ma resta il fatto che il gatto o il vaso, sono proprio un gatto o un vaso, e non rispettivamente un vaso o un gatto. Quindi in un certo senso una percezione, senza essere per se stessa linguaggio e senza rifarsi esplicitamente al linguaggio, in qualche modo, vedremo, lo anticipa e lo richiede. E questo, in tale forma preliminare e approssimativa, è un primo aspetto dell’enigma della percezione.
Abbiamo introdotto il termine ‘aggregato’ per escludere possibili confusioni con il termine ‘classe’ e il termine ‘famiglia’, anche se esso indica qualcosa di simile al significato di ‘famiglia’ e ‘classe’. Una classe di oggetti, che si colloca in un dominio concettuale, è definita da un esplicito criterio di appartenenza, tale che i suoi membri, possibili e non solo reali, cioè non solo effettivamente sperimentati o usati, sono di solito di numero indefinito e addirittura infinito; e deve quindi soddisfare, per essere ben formata, la condizione di contenere tutti e soli i membri, reali o possibili, concreti o astratti, che abbiano almeno una nota in comune. Parimenti la ‘famiglia’, pur essendo apparentemente più informale della classe e sembrando per ciò quasi indefinibile, si colloca in un dominio linguistico e di essa si deve poter dare una qualche definizione esplicita, così che anch’essa contiene anche casi solo possibili, non effettivamente sperimentati o usati. Per esempio, si può dare la seguente definizione: una famiglia contiene membri che non hanno, tutti, almeno una medesima nota in comune, ma ciascuno dei suoi membri ha una o più note in comune con alcuni membri e una o più note in comune con alcuni altri membri; tra almeno due membri, quindi, c’è sempre almeno una nota in comune e tra almeno altri due membri non c’è alcuna nota in comune; ma deve essere sempre possibile collegare due membri qualsiasi disgiunti, assunti come primo e ultimo, mediante un numero finito di membri, ordinati in modo tale che abbiano, ciascuno, almeno una nota in comune con il precedente.
Ora la differenza decisiva, rispetto a classe e famiglia, è che dobbiamo supporre che un aggregato venga costruito solo percettivamente e costituisca un insieme di casi effettivamente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente. Non può quindi essere definito in modo esplicito senza trasformarsi senz’altro in un significato linguistico o in un concetto, che si riferiscono anche a casi solo possibili. Naturalmente la facoltà dell’immagine può aggregare anche ulteriori membri solo immaginati, ma, in assenza ideale di un’azione inevitabile, almeno implicita, del linguaggio, essi sono solo duplicati o combinazioni di oggetti effettivamente percepiti.
Un’ulteriore differenza rispetto alle classi e alle famiglie, che discende subito dal modo di formarsi degli aggregati, è che questi possono anche essere costituiti da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità, non chiaribile intellettualmente, di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, volto al padroneggiamento di eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti. È plausibile ipotizzare che qualcosa del genere accada soprattutto nella primissima infanzia, prima che il linguaggio costituisca un vero e proprio ambiente e quindi sotto la condizione di un’intelligenza prevalentemente senso-motoria che, nella manipolazione degli oggetti, produca riconoscimenti, usi e aggregati di oggetti, in essi variamente disposti. Un burattino può essere riconosciuto come un burattino e nello stesso tempo come un vivente, oggetto d’amore o mostro persecutorio che sia; una copertina o un lenzuolino possono essere riconosciuti come oggetti d’uso, adatti per coprirsi e stare al caldo, e insieme come utero della madre, il suo abbraccio, il suo stesso seno e quindi come una difesa dal mondo esterno non ancora pienamente riconosciuto e dominato; e così via. In questi casi l’aggregato è lontanissimo dalla formazione di una futura tassonomia intellettuale, e tuttavia una tassonomia non potrebbe più tardi formarsi se non fosse preceduta da quello. Ciò che conta, al di fuori della nostra esperienza prevalentemente intellettuale, è semplicemente la capacità di riconoscere e di aggregare, comunque tale capacità sia poi svolta in età adulta. È appunto un indizio della capacità di riconoscimento propria della percezione.
È parimenti plausibile, vedremo, che ciò sia accaduto anche nei tempi dell’origine dell’umanità, quando cioè non è pensabile che esistessero, nella forma attuale, linguaggi storico-naturali del tipo ormai diffuso universalmente. Qui possiamo dire, a titolo di ipotesi, che la funzione dell’immaginazione, pur legata a un qualche linguaggio, deve aver avuto una portata assai più ampia e significativa nella costruzione di una cultura osservativa, interpretativa degli eventi, comportamentale, tecnica, magica e almeno embrionalmente mitologica, come del resto sappiamo, in modo certo, che è poi accaduto in forma complessa nelle culture cosiddette ‘primitive’. Qui per esempio gli aggregati, contenenti membri disparati, addirittura opposti, e intricati con famiglie e con classi, possono acquistare, come è stato osservato autorevolmente, una dignità culturale alta e raffinata, prossima, pur nelle differenze espressive, allo statuto della filosofia e perfino del pensiero scientifico della tradizione occidentale. Del resto ancora oggi, nello stesso pensiero occidentale, non possono essere evitati paradossi liminari, che denunciano in un certo senso la persistenza dell’ufficio, pur intellettualmente controllato, dell’aggregato, cioè dell’unione di due termini diversi e addirittura opposti, in una proposizione unitaria e non più risalibile. Basterebbe pensare alla kantiana comprensione dell’opposizione tra incondizionato e condizionato, di soprasensibile e sensibile, e insieme del loro richiamarsi l’un l’altro necessariamente, all’hegeliana unità di essere e non-essere, alla questione russelliana di ‘classe e classe di tutte le classi’, e così via. Ma, certo, in quelle culture la funzione di certi aggregati, intricati con famiglie e classi, è per noi più appariscente e conturbante.