3.
Interpretazione percettiva
e ambiente linguistico

Abbiamo usato più volte il termine ‘supposizione’, ‘ipotesi’, e così via, dato che un caso di pura percezione, svincolata da un ambiente linguistico, non è individuabile in concreto, né propriamente osservabile, dal momento che per noi ormai percezione e linguaggio già convivono e interferiscono l’uno con l’altra. Di fatto, proprio perché la percezione si attua ormai in un ambiente linguistico già costituito e operante, e anzi fin dalla prima infanzia essa viene guidata dagli adulti verso il riconoscimento con indicazioni linguistiche, un aggregato slitta continuamente sulla famiglia o sulla classe. A rigore, quindi, può essere inteso come problematico l’affermare che la formazione di un aggregato sia attribuibile soltanto alla percezione interpretante. Ma se, in via di una supposizione non confermabile osservativamente e tuttavia non priva di indizi significativi, ci fermiamo a considerare l’interpretazione percettiva (pur riconoscendo che è vocata al linguaggio e che tra questo e la percezione deve essere supposta addirittura, vedremo, una correlazione necessaria), allora dobbiamo pensare che essa non possa non fermarsi all’aggregato, preliminare alla famiglia e alla classe, sì, e tuttavia solo aggregato.

Come si vede, non mancano gravi difficoltà al tentativo di delineare lo statuto della percezione come tale. Sono difficoltà che si pongono sia nella penetrazione della mente del bambino nella primissima infanzia, sia nella comprensione di culture degli inizi, per definizione extrastoriche, che non conosciamo e non possiamo conoscere, ma anche della stessa percezione, per così dire, storica, che di fatto non può non convivere con il linguaggio. E tuttavia una percezione interpretante ci sembra che debba essere supposta, dal momento che l’innegabile organizzazione percettiva dei dati sensibili non può essere un semplice mettere-insieme tutto ciò che è dato mediante ispezioni degli oggetti, dal che nascerebbe solo un’immagine statica, sorda e per di più inutilizzabile ai fini del controllo del mondo circostante, ma piuttosto un istituire una gerarchia di dati sotto un certo profilo. Per esempio, secondo il nostro esempio banale e quotidiano, quel gatto o quel vaso non come enti astratti, fissati in una forma standardizzata, simile a quella di un vecchio dizionario illustrato, ma visti piuttosto da un certo punto di vista, il gatto come mangia-topi, come animale domestico, come oggetto di affetto, come possibile ladro del nostro cibo, o il vaso come prodotto industriale o di artigianato, come contenitore di fiori, come oggetto d’abbellimento, e così via. Gli esempi più stringenti, va da sé, dovrebbero essere tratti proprio dalla vita degli inizi, là dove si pose un tempo il drammatico problema di una stretta sopravvivenza da parte di un animale carente di istinti orientativi forti e privo del tutto di mezzi di difesa naturali convenienti al suo comportamento, quale è l’uomo. Ma questo è, appunto, impossibile.

Insomma pensiamo che l’interazione percezione-linguaggio, che caratterizza la nostra esperienza, non assimili fino in fondo l’uno all’altra, e anzi che debba essere possibile intravedere, all’interno di essa e attraverso indizi, le funzioni proprie e dell’uno e dell’altra. Possiamo ovviamente interpretare la percezione di un oggetto sotto un dato profilo anche in funzione di un’ipotesi di lavoro intellettuale e verbalizzata, ma un’operazione del genere è del tutto consueta anche a prescindere da esplicite ipotesi verbali, e quindi al di fuori del campo della conoscenza scientifica e dello stesso linguaggio comune, sebbene non al di fuori di un ambiente linguistico già costituito. Per esempio, uno scultore può percepire una pietra, ciò che all’uomo comune in genere non accade, interpretandola come una figura in essa nascosta e da rivelare, al modo di Michelangelo, per via di ‘levare’; un muratore come un elemento da sovrapporre ad altri elementi simili, per innalzare un muro; un bambino come un oggetto di gioco, da far rotolare per la strada; un collezionista estetizzante di pietre come un campione pregevole da affiancare su una mensola ad altri campioni di diversa forma e diversamente colorati. Ciò accade anche con gli oggetti artificiali, per esempio gli strumenti, che possiamo vedere nelle loro funzioni primarie, già note operativamente e linguisticamente, o anche in altre, che percepiamo al di fuori del noto. Possiamo percepire un martello come un martello, da usare nella sua funzione tecnicamente primaria, di piantare un chiodo su una parete o su un asse di legno; ma anche come una leva, per svellere un pezzo di legno incollato su un piano di pietra; o come un particolare livellatore, per appiattire un materiale morbido, ma difficilmente modellabile, per esempio una lastrina di stagno, su una superficie più dura; come un’arma per colpire un malintenzionato che ci ha aggredito; oppure come uno strumento adatto a rompere un salvadanaio o per ripulire la suola di una scarpa da una gomma americana calpestata casualmente. Insomma percepiamo queste funzioni possibili, in circostanze opportune, senza per ciò necessariamente allargare la nostra idea esplicita di martello. Si tratta, in tutti questi casi, di percepire le varie configurazioni più adatte a un certo uso, e non necessariamente di dichiarare le varie interpretazioni e i vari usi della pietra o del martello; vale a dire: non ci proponiamo diverse interpretazioni o diversi usi, ma, per così dire, vediamo che quella pietra o quel martello sono ad essi adatti.

Qui cade opportuno un riferimento ad altre specie, prive di un ambiente semiotico paragonabile a quello umano. Il vedere dell’animale umano è infatti per un verso simile al modo di vedere, per esempio, dei primati non-umani. Percepiscono entrambi oggetti naturali o artificiali, una pietra o un martello, in vista dell’uso che essi ne faranno, ma per altro verso con la non improbabile e non insignificante differenza di principio che questi oggetti sono per i primati non-umani oggetti disponibili in un ambito ristretto di operazioni. Tale limitazione dell’uso strumentale di un oggetto deve essere compresa, ci pare, come una conseguenza della loro specifica operatività, mancante di una interna metaoperatività. Per esempio: la loro capacità di usare un oggetto come strumento volto a uno scopo determinato e presente, ma non anche la capacità di usare uno strumento per produrre uno strumento in vista di scopi possibili. La metaoperatività umana considera appunto lo strumento da produrre come uno strumento destinato a scopi possibili e non soltanto a scopi dati di volta in volta, e si vede subito quindi che tale metaoperatività interna allo stesso operare è analoga alla capacità linguistica, in quanto anche metalinguistica, costruttrice di famiglie e di classi. Nel caso dell’uomo dunque la varia interpretabilità percettiva di una pietra o di un martello pare essere un investimento percettivo, fondato sul loro riconoscimento, che, pur non trasformando materialmente l’oggetto e lo strumento, li configura secondo una specifica declinazione in situazioni opportune e in analogia tacita con un linguaggio che implica una capacità metalinguistica e organizza tutti i casi, e reali e anche solo possibili.

Altro indizio: anche quando l’investimento percettivo è guidato da ipotesi esplicite e ragionate, queste hanno un’influenza retroattiva sulla percezione. Possono indurci a considerare, e in un certo senso vedere, il medesimo oggetto, per esempio un libro, come uno strumento di lettura, come un prodotto tipografico, come un campione di materiale cartaceo, come una cosa che può essere lanciata nello spazio, come un composto chimico, e così via. Sarà via via oggetto da guardare dal punto di vista di uno studio letterario o scientifico, dell’industria tipografica, della fabbricazione della carta, della fisica dei moti, della chimica, e così via. E in rapporto a come lo consideriamo varia anche la sua percezione, pur restando, quello, il medesimo oggetto. Sarà una percezione rispettosa o annoiata dagli studi, interessata tecnicamente, incline al gusto dei materiali, alla conoscenza che se ne può trarre rispetto alle sue proprietà dinamiche e alla sua interna composizione. Così che, in quanto prodotto tipografico, non ci capiterà di interpretarlo percettivamente come un mobile nello spazio, anche se per caso lo avremo gettato lontano da noi in un momento di irritazione, e quindi nei suoi aspetti di pesantezza e di resistenza all’aria, ma solo dal punto di vista dello stile della stampa e della sua qualità di libro stampato, bene o male progettato, di buon gusto, di facile lettura o no. Insomma lo vediamo così o così in rapporto all’ipotesi che abbiamo in mente.

Tutto ciò ha nella scienza le esemplificazioni più forti e conoscitivamente più interessanti. Per esempio, la cinematica classica non può nascere se non sulla base di ipotesi costruttive che configurano nella mente i suoi oggetti epistemici in modo molto diverso rispetto agli oggetti che naturalmente si presentano nella percezione. Occorre infatti una capacità di astrazione assai spinta, cioè l’eliminazione di tutte le caratteristiche (di tutte le variabili) che non entrano nell’oggetto epistemico che stiamo costruendo: le sue qualità cromatiche o strutturali, le cause del suo moto, gli attriti che vi si oppongono. Ma anche in questi casi, che paiono riguardare solo l’intelligenza e il linguaggio di cui essa si serve, la percezione non è estranea. Innanzi tutto, se non vi fosse una percezione ambigua, e quindi suscettibile di far passare sullo sfondo o in primo piano ciò che già stava in primo piano o sullo sfondo, intelligenza e linguaggio non avrebbero a disposizione il materiale stesso su cui esercitarsi. In secondo luogo, una volta così interpretati e configurati gli oggetti dal punto di vista cinematico, noi appunto quasi li vediamo anche come oggetti mobili in uno spazio puro, senza attriti. Solo così, ci sembra, è stato possibile che si escogitassero, nella fisica classica fin dal suo nascere, quegli ‘esperimenti ideali’, che altrimenti sarebbero parsi probabilmente solo operazioni intellettuali autocontraddittorie. La stessa espressione sarebbe passata per un puro e semplice ossimoro.

Sono solo indizi, forse anche deboli e contestabili. Una ragione più consistente, anche se solo teorica e non osservativa, andrà ricercata nella distinzione di percezione e linguaggio e, nello stesso tempo, nella loro correlazione paritetica.