4.
Incompletezza dell’immagine

Torniamo al nostro esempio banale e quotidiano. Ci interessa ora di capire in che modo vediamo quel gatto o quel vaso, anzi che cosa vediamo propriamente. Forse vediamo un gatto o un vaso in tutti i loro particolari, cioè nella loro completa determinatezza? Oppure vediamo via via solo alcuni aspetti del gatto o del vaso in una certa configurazione complessiva e, insieme, molte altre cose che non hanno a che fare con gatti o vasi? Pare che la seconda ipotesi, che affida alla percezione il compito di costruire un’immagine interna sulla base di ispezioni dinamiche dell’oggetto, inevitabilmente sempre parziali e incomplete, risponda meglio a ciò che effettivamente percepiamo.

Già gli stessi dati ottico-retinici non possono ovviamente essere considerati come il risultato di organi sensori, per così dire, ‘perfetti’, cioè capaci di restituirci tutto ciò che dovrebbe costituire oggettivamente un gatto o un vaso: ogni dettaglio, ogni flessione, ogni peluzzo, ogni scabrosità, ogni piega, ogni minima frattura che, a ispezioni più accurate, dovrebbero essere considerati come appartenenti essenzialmente agli oggetti sentiti, si tratti di un gatto o di un vaso, e quindi, poi, alla loro immagine presuntivamente perfetta. Non a caso inoltre si usano strumenti opportuni, per esempio in medicina, per cogliere aspetti delle cose che sfuggono ai nostri sensi. Gli organi sensori sono infatti filtri recettivi che operano entro una certa fascia di stimoli possibili. Se per assurdo non fossero cosiffatti, non ci permetterebbero di ottenerne dati sensibili organizzabili e adoperabili, ma ci identificherebbero, in quanto senzienti, con le cose stesse. In altre parole: se fossero perfetti, ci troveremmo congelati al modo di cose tra le cose.

L’incompletezza dei dati sensibili è forse una difficoltà per i più? Vale a dire: sarebbe mai possibile che, attraverso un’organizzazione percettiva dei dati sensibili, l’incompleto consenta la produzione di un’immagine che a tutti pare avere l’aria della cosa stessa nella sua flagranza? Ma anche questa volta si tratta di una difficoltà solo apparente, dato che l’incompletezza non solo è una caratteristica produttiva e un innegabile vantaggio adattivo, ma è anche ciò che costituisce la ragione di quella stessa flagranza.

Consideriamo il caso degli animali non-umani, cui si addice, ci sembra, più una sensazione segnaletica che una percezione. In essi un organo sensorio, per essere tale e per far funzionare i suoi dati come segnali efficaci, deve necessariamente essere parziale, cioè selettivo. Altrimenti essi stessi vedrebbero o solo oggetti in senso assoluto individuali, indecifrabili come segnali, o piuttosto senz’altro un caos. Per certi uccelli predatori, per esempio, è segnale di una preda possibile la sensazione di una macchia chiara mobile provocata da un oggetto bianco qualsiasi fatto muovere rapidamente al suolo, per esempio da un etologo in sede di sperimentazioni. Al contrario la medesima macchia, un uomo può da lontano interpretarla percettivamente anche come una luce proveniente da un faro mobile, come una motocicletta bianca che fa del motocross, come un momentaneo disturbo di vista o – perché no? – proprio come un coniglio che corre. Per ciò agli animali non-umani è attribuibile una sensazione segnaletica (sia essa veridica o sia, in certi casi particolari, ingannatoria, ma statisticamente sempre conveniente), piuttosto che una percezione nel senso degli animali umani, dato che questa sembra imporsi solo quando i segnali sensibili perdono la loro univocità e quindi possono e debbono essere variamente organizzati al fine di consentire un adeguato controllo dell’ambiente.

Ma anche la percezione è selettiva al pari di un organo sensorio, anzi in modo ancora più forte, cioè tale da organizzare in immagine i dati ottico-retinici disponibili non, appunto, a titolo di segnale semplice e univoco, ma come segno-interpretazione di qualcosa di complesso e plurivoco, legato al nostro sguardo sul mondo per conoscerlo, per riconoscerlo e per adattarvisi secondo le varie interpretazioni possibili. E ciò appunto comporta un’ulteriore specifica selezione. Anzi, l’animale umano, non potendo affidarsi nei casi più interessanti e decisivi a segnali sensibili univoci, percepisce oggetti come enti complessi del suo mondo, anche a prescindere dalle sue esigenze immediate rispetto alla sopravvivenza. Gli è data precisamente la capacità di guardarsi intorno in modo disinteressato, cioè guardando alle cose con distacco, quasi contemplandole, in realtà immagazzinando, precisando e rafforzando la propria ‘esperienza’, nel senso più lato, mediatamente pur sempre in vista della sopravvivenza. È un modo diverso di adattarsi e sopravvivere, non certo, non univoco e proprio per ciò entro certi limiti più efficace, tale da richiedere una percezione interpretante, una cultura, una tecnologia. (Una percezione interpretante più efficace del segnale, senza dubbio, a meno che essa, via via che si sviluppa e produce una cultura e una tecnologia sempre più potente, non provochi sulla distanza, come non è impossibile, un disastro ecologico e la fine della vita, compreso l’uomo, sul pianeta.)

Se, di nuovo, qualcuno avesse il sospetto che l’incompletezza percettiva sia contestabile proprio per il senso di verità flagrante o di ‘effetto di realtà’, direbbe un teorico del cinema, che la percezione provoca, varrebbe la pena di ricordare che lo stesso fissare con lo sguardo un oggetto è a rigore impossibile. ‘Fissare un oggetto con lo sguardo’ è un’espressione che non deve essere presa alla lettera, considerato che quando crediamo di fissare qualcosa il movimento delle pupille è, anche se minimo, continuo. Altrimenti neppure vedremmo. E infatti il ‘fissare’ è piuttosto uno spostare lo sguardo via via da un punto all’altro a stretto ridosso del centro dell’attenzione, costruendo al tempo stesso l’immagine internamente dinamica dell’oggetto, o di parte dell’oggetto, attraverso tutti i punti via via perlustrati: ne segue che l’oggetto fissato o la parte dell’oggetto fissata è piuttosto l’unità, internamente dinamica, di una molteplicità di impressioni sensibili che nella sintesi cinetica percettiva restituiscono proprio quell’oggetto o quella parte dell’oggetto nel loro complesso, ma che, proprio per ciò, non possono essere colte tutte e in tutte le loro tante particolarità. Se lo fossero, l’oggetto sarebbe per definizione statico, una sorta di simulacro, non dinamico, come è. In altre parole, per percepire un oggetto e avvertire un ‘effetto di realtà’ è necessario che non tutti i suoi aspetti siano attualmente presenti e che invece si perdano via via di vista gli aspetti abbandonati nell’attimo in cui passiamo ad altri aspetti, e viceversa. La flagranza dell’oggetto percepito è dunque un’unità di avvertimento e di dimenticanza.