Sunrise, Italia. Oggi
Sensazioni: la dottoressa Stark sapeva bene che non avevano alcuna base scientifica. Tuttavia confidava ciecamente nel suo istinto, che l’aveva sempre guidata. Non le sembrava certo il momento di rinunciarci. Quel mattino si era svegliata con un cattivo presentimento. Nella sua professione seguire le intuizioni o, semplicemente, un sospetto non era buona norma, anzi era fortemente sconsigliato. Ma non poteva farci nulla: aveva la netta sensazione che i suoi pazienti non stessero migliorando, semmai il contrario.
Subito dopo colazione si era rintanata nel suo studio, per rimuginarci sopra in completo silenzio, quando qualcuno bussò alla porta.
Era Dennis, che si presentò con due tazzine di caffè.
«Posso?»
Lei sorrise e gli fece segno di accomodarsi.
«Siamo arrivati senza intoppi al quarto giorno» osservò lui zuccherando la bevanda.
«Già.»
Non era la risposta che l’infermiere si aspettava.
«Sei sicura che vada tutto bene? A cena eri strana...»
«Dormo poco. Sono solo stanca...»
«Sicura?»
Rebecca non replicò. Con il collega poteva confidarsi ma preferì non farlo. Era un tipo emotivo. Non ritenne utile confessargli che secondo lei quello che stavano facendo alla Sunrise non stava funzionando! Né tantomeno che si sentiva inquieta perché le reazioni dei pazienti non erano quelle che si aspettava. Erano troppo tranquilli, rilassati. Tutti, eccetto Jessica.
L’unico per cui avesse una spiegazione soddisfacente era Claudio: il conforto sessuale lo aveva distratto dalla sua addiction. Ma gli altri? Dopo settantadue ore avrebbero dovuto essere scontrosi, insofferenti, oltremodo nervosi... Insomma, delle vere corde di violino. Invece non era così. Li aveva osservati a colazione. Sorridevano e chiacchieravano serenamente gli uni con gli altri, in completa armonia. Decisamente qualcosa non andava. Per il momento, però, l’unica mossa che potesse fare era concentrarsi sull’unica paziente che si comportava secondo le attese: la piccola olandesina.
«Che c’è?» insistette Dennis.
«Jessica» sibilò la psichiatra. «Sono preoccupata per lei.»
«Perché?»
«La vedo troppo chiusa in se stessa...»
«Oggi sarà lei a comandare.»
«Lo so. Me la potresti chiamare? Voglio dirle due parole d’incoraggiamento.»
Lui annuì, recuperò le tazzine vuote e uscì in silenzio dallo studio.
«Che ci faccio di nuovo qui?»
Jessica si fissava la punta delle scarpe. Non aveva mai alzato gli occhi da quando era entrata.
«Volevo chiederti come ti sentivi, prima che iniziasse la giornata...» esordì la dottoressa Stark. «Va tutto bene?»
«Be’, sì.»
«Non mi pare che tu abbia legato molto con il resto del gruppo.»
La mano della ragazza andò a poggiarsi sulla benda.
«Oggi sarai tu il capo squadra. Ti senti pronta?»
Jessica si strinse nelle spalle come se non le importasse. Si grattava lentamente il braccio fasciato e continuava a osservare il pavimento.
«Apriti e raccontami quello che ti affligge. Di me ti puoi fidare.»
Rebecca non ottenne reazioni ma sapeva che qualcosa dentro la paziente stava riaffiorando. Il suo sguardo era concentrato su un raggio di luce che illuminava una delle mattonelle in cotto grezzo.
«Ricordi com’è cominciato?»
«Certe cose non si dimenticano» rispose.
«Allora parlamene.»
Jessica sospirò e rivisse l’orrore.
Un pomeriggio di pioggia e di vento forte, quello che arriva dal mare del Nord e taglia la faccia e i pensieri.
Lei era nella sua stanza, a studiare con le cuffiette della musica nelle orecchie. Stava sotto le coperte perché la camera era mal riscaldata e le finestre piene di spifferi.
Il volume era alto e forse per questo non si era accorta della porta che si era aperta alle sue spalle. L’uomo era entrato senza far rumore. Indossava pantaloni di fustagno e una camicia scozzese. Jessica, allora, si era tolta le cuffiette e gli aveva sorriso. Lui sapeva di tabacco e di alcol. Le aveva accarezzato la testa e poi, con un gesto rapido, si era infilato nel letto, accanto a lei.
Jessica tacque di colpo e iniziò a grattarsi freneticamente finché le bende diventarono rosse per il sangue che sgorgava dalle ferite.
«Poi cos’è successo?» domandò la dottoressa Stark quando le dita della ragazza si arrestarono.
«Ha fatto quello che voleva, con tutta calma. Alla fine si è alzato e se n’è andato.»
«Era tuo padre, vero?»
Lei annuì senza mai levare gli occhi dalla mattonella. Le lacrime le rigavano il volto.
«Sono corsa in bagno. Per togliermi di dosso il suo odore, lavarmi tutto quello schifo dalla pelle. Solo che non veniva via. E all’improvviso l’ho visto.»
«Cosa?»
«Il rasoio, con il manico in radica, la lama affilata... Prima ho tagliato il pigiama e poi ho continuato. Il sangue sgorgava e gocciolava nel lavandino.»
«Mi spiace, io...»
«Oh, non devi dispiacerti: mi ha salvata.»
«In che senso?»
Jessica fece una smorfia prima di rispondere: «Odiava il sangue. E anche le ferite. Pensava che fossi malata e mi stava alla larga. Non ero sana, lo spaventavo...»
«Così hai continuato...»
«Sì. E da allora non riesco a smettere...»
Rebecca le si avvicinò e le porse un fazzoletto per asciugarsi il viso. «Non è stata colpa tua, lo sai, vero?»
«Lo so.»
«Io ti aiuterò a guarire e a vendicarti.»
Jessica sollevò la testa di scatto. «Vendicarmi?»
La psichiatra assentì seria. «Esatto. Dove sta scritto che la vendetta non è un sentimento sano? Specialmente se serve per cancellare un dolore.»
«Fa parte del metodo Stark?»
«Sì, come la legge del taglione nelle sacre scritture.»
«Allora comincio ad apprezzarlo.»
Quando la ragazza scese le scale trovò gli altri pazienti già radunati nel salone. Sorridevano e, in generale, pareva che l’attesa non li avesse contrariati.
L’unico che sembrava aver fretta di cominciare era Dennis, che la incalzò. «Avanti, assegna i compiti e diamoci una mossa: abbiamo già perso fin troppo tempo!»
Lei accennò un sorriso. «Sì, dunque, pensavo che per cena potremmo cucinare la parmigiana... Una ricetta italiana molto gustosa.» Mentre parlava con una mano aveva iniziato a grattarsi la benda mentre con l’altra teneva il foglio con l’elenco delle attività che le aveva passato l’infermiere. «Bisogna sistemare il recinto. C’è qualcuno che si offre volontario?»
«Nessun volontario!» la redarguì Dennis. «Devi essere tu a dare gli incarichi!»
«E dalle tregua!» sbottò Lena. «Non vedi che è agitata?»
I due si scambiarono un’occhiata feroce finché Jessica, dopo aver preso un profondo respiro, riprese a parlare con più sicurezza. «D’accordo, deciderò io. Claudio e Tim penseranno al recinto. A cucinare saranno Rosa, Julie e Jian; mentre io e Lena ci occuperemo di rifare le stanze e pulire.»
«Speravo di evitarmi i cessi visto che ti avevo difesa...» borbottò la tedesca.
L’infermiere sorrise compiaciuto e Jessica abbassò lo sguardo mentre gli altri uscivano alla spicciolata diretti alle loro mansioni.
«Hai finito quello che ti era stato assegnato?»
«Friggere melanzane? Sì, certo. Ed è stato un vero spasso.»
La dottoressa Stark rise alla battuta e così fece anche Rosa.
Per parlare con la giovane paziente aveva optato per un approccio diverso: una passeggiata nell’agrumeto anziché il classico one to one nel suo studio. Aveva l’impressione che potesse intimorire la ragazza, ricordandole il rapporto professoressa studentessa e che così si sentisse restia ad aprirsi.
Non che Rosa Bernasconi fosse timida, tutt’altro. Almeno stando alla sua cartella clinica. La sua attività preferita consisteva nel farsi ammirare senza veli via webcam, facendosi pagare per questo.
Rebecca aveva voluto incontrarla perché, come diversi degli altri addicted, non mostrava segni di cedimento né d’impazienza. Era come se il cellulare non le mancasse affatto e questa cosa non era per nulla positiva.
«Come ti trovi qui?» chiese la psichiatra accomodandosi su una delle panchine di pietra che ornavano il giardino.
La ragazzina si limitò a un’alzata di spalle.
«Cosa ti manca di più?»
«Internet ovviamente. E il mio smartphone.»
«Capisco. È normale. Anzi, a vederti sembra quasi che non ti importi...»
La ragazza iniziò a fissare un albero di arance. La psichiatra conosceva fin troppo bene quella tecnica: distogliere volutamente lo sguardo per nascondere qualcosa. Quello che non capiva era come mai apparisse tanto tranquilla anziché sprizzare odio e livore da tutti i pori. Il giorno che era arrivata, lo ricordava bene, aveva sputato veleno contro la madre senza nessuna remora.
«Quella zoccola!» aveva urlato nel corso della loro prima seduta. «Mi parcheggia qui mentre papà è lontano e lei se ne va a troieggiare nel Salento con le amiche!»
Ignorava, invece, che la madre era terrorizzata al solo pensiero di separarsi dalla figlia, un’adolescente difficile che si era persa nella rete cominciando per scherzo, come avevano fatto le sue amiche, con qualche foto e dei filmati vedo non vedo. La cosa era diventata preoccupante solo quando aveva deciso di mettersi in mostra, diventando una webcam girl su Snapchat. Allora aveva iniziato a chiedere ricariche telefoniche in cambio dei video, sempre più espliciti, sempre più piccanti.
La madre se n’era accorta per caso un giorno che erano in casa da sole. Insospettita dai sospiri che sentiva, era entrata nella sua stanza senza bussare e l’aveva sorpresa che si masturbava davanti a un uomo in chat che faceva lo stesso.
«C’è qualcosa che vuoi dirmi?» la esortò Rebecca.
«Tipo?»
«Come ti trovi con gli altri?»
«Starei meglio a casa mia, con il mio telefono e i miei amici.»
«Quelli che ti fanno i regalini?»
Lo sguardo della giovane fu attraversato da un lampo. «Posso andare?» chiese alzandosi in piedi. «Devo tagliare i pomodori per la cena e affettare le zucchine.»
«Vai, ma ricorda che ci sono, se hai bisogno.»
Rosa si incamminò rapida, quasi correndo, sottraendosi in fretta alla vista della dottoressa che scosse la testa. Era evidente che quella ragazza le nascondeva qualcosa, così come era altrettanto chiaro che non si sarebbe mai confidata con lei: forse le ricordava troppo sua madre.
A pranzo venne servito il piatto forte della Sunrise: minestra di verdure. Il resto del pomeriggio per gli addicted trascorse lentamente, fra paletti da piantare per la nuova recinzione dell’orto e altre attività di manutenzione in giardino, finché si ritrovarono tutti a tavola per la cena.
Nessuno aveva molta voglia di conversare tranne Tim, che per qualche strano motivo appariva particolarmente euforico.
«Niente male questa parmigiana, complimenti ai cuochi!» commentò.
«Se avessi potuto seguire la ricetta su YouTube sarebbe venuta dieci volte meglio!» sbottò Rosa.
«Infatti è una schifezza» intervenne Lena. «Solo uno con le narici cauterizzate come te può trovarla buona! Tu, piccola, però, ci hai messo il cuore!»
La teenager le lanciò un’occhiata complice e la tedesca sorrise cercando di accarezzarle la mano, ma l’altra la ritrasse subito piuttosto imbarazzata.
«Meglio due narici come le mie che due braccia da scaricatore di porto!» ringhiò Tim. «Su una donna fanno davvero impressione!»
Lena stava per scattare quando un urlo di disperazione attirò l’attenzione di tutti.
Jessica si era alzata in piedi, bianca in viso, e digrignando i denti aveva gridato: «Basta! State un po’ zitti! Non ce la fate a non prendervi per la gola ogni minuto? È già abbastanza pesante sopportare tutto questo, tutte le privazioni e le tensioni, senza dover stare a sentire le vostre lamentele!».
«Disse Scarface!» chiosò sarcastico Claudio, e Julie trattenne a stento una risata.
La giovane olandese invece corse via con le lacrime agli occhi.
«Questa te la potevi risparmiare!» lo redarguì la dottoressa alzandosi a sua volta per portarle conforto.
Il corridoio era immerso nell’oscurità e nel silenzio più completo.
Tim bussò cautamente alla porta e non poté fare a meno di pensare che quella stava diventando una piacevole abitudine.
I cardini stridettero appena e il volto sorridente della francese fece capolino.
«Oh, allora sei venuto! Entra prima che ti vedano.»
Poi la donna afferrò l’americano per la camicia e lo trascinò all’interno.
Lui avrebbe voluto ribattere con una frase spiritosa ma non ci fu bisogno di aggiungere nulla. Julie aveva già preso l’iniziativa inginocchiandosi e abbassandogli la lampo dei pantaloni. «E ora dimmi se questa ti sembra una malattia...»
Rebecca alla fine si alzò in piedi iniziando a rivestirsi in fretta.
«Quindi abbiamo fatto pace?» domandò Claudio restando nudo sdraiato sul letto.
Lei scosse la testa. Un attimo ed era quasi pronta, le mancavano solo le scarpe.
«Scommetto che questa cosa non è molto ortodossa, vero dottoressa?»
La psichiatra lo fulminò con lo sguardo. «Non scommettere!» lo bacchettò. «E comunque questo non inficia la terapia. Il tuo problema non è il sesso. Anzi, semmai ti aiuta a rilassarti e a non pensare alla tua vera dipendenza. Così, magari, sarai anche meno stronzo con gli altri. Jessica non la smetteva più di piangere...»
«Mi hai convinto! E sai, quasi quasi avrei bisogno di distrarmi ancora un po’.»
Fece per afferrarla ma lei si ritrasse.
«Adesso devo andare» annunciò sgattaiolando fuori dalla stanza. «Buonanotte.»
Tim si appiattì contro il muro e trattenne il fiato. La sua esperienza con Julie era durata meno del previsto: un amplesso rapido e furioso. Spremuto come un limone in una manciata di minuti e poi rispedito al mittente senza tanti complimenti.
«Vattene, sono sfinita» gli aveva detto prima di sbatterlo fuori.
Ora però le cose si stavano complicando. La porta della stanza di Claudio si era aperta e ne era uscita la dottoressa Stark. Sarebbe stato difficile giustificare la sua presenza lì se lei l’avesse visto. Forse avrebbe potuto rinfacciarle la stessa cosa, ma sarebbe comunque stato molto imbarazzante.
Per fortuna la psichiatra non si voltò, fece solo qualche passo e bussò alla camera di Dennis.
«Ah, sei tu» l’accolse la voce dell’infermiere dall’interno. «Era ora... Non ce la facevo più ad aspettare...»
Lei entrò e Tim finalmente riprese a respirare.
«Hai capito la dottoressa...» commentò.