Sunrise, Italia. Oggi
«Lettura interessante?» chiese Ivanov con un ghigno.
«Come l’hai avuto?»
«Oh, mia cara, ho amici influenti fra i papaveri della polizia tedesca. Mi hanno permesso di darci un’occhiata e di fotografarlo prima di rimetterlo a posto.»
La dottoressa Stark scosse la testa mentre Dennis non riusciva a staccarsi dal tablet. Anche lui stava rivivendo quell’orrore, ricacciato per troppo tempo in fondo alla sua memoria.
«Inutile che ti sforzi di finirlo» lo interruppe il russo. «Te lo riassumo io: c’è scritto che non c’era nessun uomo nero e che vostro padre l’avete ammazzato voi.»
«Ci ucciderai?» gli domandò Rebecca fissandolo negli occhi.
Ivanov allargò le braccia come se la cosa non dipendesse da lui. «Ovviamente! Non posso permettermi di lasciare dei testimoni. Agli inquirenti dirò che siete impazziti e avete scatenato questo macello! In fondo, non è tanto lontano dalla verità: tu, Dennis, sei un vero psicopatico. O dovrei chiamarti Dietfried? E tu, Rebecca, come ti trovi con Besse?»
Sentire pronunciare quei nomi fu per entrambi una doccia gelata. Schegge del loro passato riaffiorarono in superficie dopo essere rimaste sepolte per anni.
Rebecca venne nuovamente travolta dai ricordi, spinta a ripensare a quando vivevano con l’orco nella Foresta Nera, e si chiamavano Besse e Dietfried Neumann.
Dopo la morte del padre erano stati affidati a una donnona simpatica, una poliziotta che li aveva tenuti con sé meno di una settimana. Poi erano stati trasferiti in un istituto di Friburgo in attesa di trovare dei parenti disposti a prenderseli. I Bauer, cugini della madre, non avevano potuto tenerli, così erano stati spediti da una zia a Londra e lì erano rimasti. Perlomeno la bambina, che non creava problemi. Dietfried, invece, dava già segni di squilibrio e la zia aveva preferito affidarlo a un istituto che in seguito lo aveva fatto adottare dalla famiglia Moore. Loro gli avevano cambiato nome da Dietfried a Dennis perché suonava più inglese.
La piccola, invece, era stata ufficialmente adottata dalla zia e dal marito, Josef Stark. Anche a lei avevano cambiato nome per la stessa ragione. Nessuno voleva che qualcuno ricordasse quella brutta storia avvenuta la notte di Natale di cui tanto avevano scritto anche i giornali locali.
Ivanov riprese a parlare riportando entrambi al presente.
«L’uomo nero eri tu, Rebecca. E credo proprio che il tuo fratellino ti abbia aiutato coraggiosamente, al punto che da quel giorno in avanti qualche rotella gli è schizzata fuori posto.»
«Stai farneticando!»
«Davvero? Quindi è solo la mia immaginazione? Non sei tu che hai inventato la storia dello sconosciuto che ha ucciso vostro padre? Io la trovo perfetta per una bambina di dieci anni. Eri già molto sveglia. Non come questo idiota che ti ha sempre causato problemi.»
Dennis ringhiò ma la canna della pistola spianata lo dissuase dall’agire.
«Hai iniziato presto a manipolare le persone» riprese il russo. «Lui è sempre stato il tuo burattino: gli hai fatto uccidere tuo padre e poi l’hai obbligato a imparare a memoria la storia dell’assassino sconosciuto da rifilare alla polizia.»
«Non è andata così!» ribatté la dottoressa.
«Ah no? Secondo me sì. Non siete finiti in galera solo perché eravate troppo piccoli per essere incriminati. Che storia commovente, non trovi? Sempre insieme. Uno la stampella dell’altro. Anni difficili, soprattutto per il matto, qui, che a un certo punto è stato allontanato... Non ci stava più con il cervello dopo quello che aveva visto e fatto al padre. Forse è per questo che tu hai studiato così tanto per diventare psichiatra: per curare il folle di famiglia. Pardon, il secondo folle. Il primo era quell’animale di vostro padre.»
Rebecca teneva gli occhi bassi. Tutto quello che usciva dalla bocca di quel maledetto russo era vero. Era come se quel mostro le leggesse dentro e potesse vedere quel male che lei crescendo, per sua scelta e per non dimenticare, aveva continuato a farsi anche da sola, incidendosi con una lametta dei piccoli tagli sulle braccia. Era un modo per punirsi, perché in fondo era stata tutta colpa sua. Sua l’idea di uccidere il padre, sua l’idea di coinvolgere il fratello.
E ora che metteva in fila gli eventi degli ultimi giorni capiva quanto Dennis si fosse impegnato nel commettere quei crimini, cancellando al meglio le proprie tracce per proteggerla e non coinvolgerla. Prima aveva cercato di eliminare gli anelli deboli, fingendo che se ne fossero andati. La pioggia però aveva rovinato i suoi piani. Quindi aveva fatto trovare i biglietti dell’autobus nella stanza di Lena perché i sospetti ricadessero su di lei. E infine aveva convinto gli uomini a dormire nella camera di Claudio e non nella sua evitando che scoprissero il cloroformio e le tracce di sangue sulla tuta e sullo straccio.
Chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro. Se era diventata psichiatra era stato essenzialmente per comprendere se stessa fino in fondo e per scavare nei meandri del proprio inconscio e di quello di suo fratello che, da quel Natale in avanti, non era stato più lo stesso. A poco a poco lui era diventato taciturno e sadico nei confronti degli animali. Quell’esperienza li aveva segnati per sempre e lei aveva tentato di rimettere le cose in ordine, di aggiustare quello che si era guastato nel cervello di Dennis.
Ma non era possibile. Al massimo si poteva fingere: fingere di essere due persone diverse; fingere che non fosse mai accaduto nulla; fingere che lui fosse un bravo infermiere...
«Alla fine tu, Rebecca, ne sei uscita» riprese Ivanov. «Sei quella con più forza di volontà, del resto. Hai studiato, hai smesso di tagliarti... Sì, so anche questo. Ho visto quanta empatia provavi per Jessica che viveva una situazione identica alla tua!»
«Tu non capisci...» sussurrò la dottoressa.
«Oh, invece io capisco benissimo. Sono un addicted, ricordi? Tu ti tagliavi per punirti delle tue colpe, ma l’hai superato. E sei diventata la salvezza di tuo fratello che, in fondo, era uscito fuori di testa per difendere te.»
«Taci, stronzo!» urlò Dennis. «Vedrai cosa ti farò quando ti avrò fra le mani...»
Ivanov sorrise stupito. «Lo vedi, Rebecca? Ecco su cosa contavo! Ed è andata esattamente come speravo; è bastata una spintarella e la sua vera natura si è manifestata: vedere Klaus che spacciava, che assecondava gli istinti più bassi dei pazienti e che, di conseguenza, rovinava la clinica della sua cara sorella lo ha fatto sbroccare...»
«Tu sei davvero malato.»
«Non lo sapevi già, dottoressa?»
«Intendo ben oltre la tua addiction. Sei un vero psicopatico!»
«Be’, sono in buona compagnia qui.»
Per un attimo calò il silenzio, poi la psichiatra sollevò lo sguardo verso Ivanov con una luce nuova negli occhi.
«Quindi hai messo in piedi tutto questo per inscenare la tua fantasia più perversa? Quella che da sempre ti ossessionava... La Sunrise non è altro che il set per il tuo... Oh mio Dio!»
«Il suo cosa?» domandò Dennis confuso.
«Il mio snuff movie!» rise il russo. «Esatto! E manca solo l’ultima scena.» Indicò le telecamere di sorveglianza. «E indovinate chi saranno i protagonisti ora che la corrente è tornata?»
Dennis continuava a scuotere la testa.
«Ma di cosa sta farneticando?»
Rebecca sospirò. «La sua ossessione è vedere la morte in diretta delle persone... Lui ne gode. È la sua addiction!»
«E brava la nostra psichiatra: lo vedi che alla fine hai capito tutto?»
«E questa è solo una copertura...»
«Già! Questa villa, dopo la ristrutturazione, vale già molto di più di quanto l’ho pagata.»
«E in più ci sono gli addicted... Loro...»
«Sono il nostro tesoro! Con la campagna pubblicitaria mondiale io e i miei soci abbiamo costruito un archivio che ci basterà per il resto della vita!»
«Non capisco» intervenne Dennis. «Un archivio di cosa?»
«Di disperati» sospirò Rebecca. «Persone sole, che nessuno cerca se spariscono, emarginati della società.»
«Analisi impeccabile! E voi due avete rappresentato lo specchietto per le allodole di questo progetto. Quanto ai soldi spesi non vi preoccupate: il florido mercato degli snuff movie farà triplicare l’investimento iniziale.»
«Mi fai schifo!»
Ivanov sorrise. «Ora basta con i complimenti; è ora di farla finita! Spostiamoci giù nel salone dove c’è più spazio e una luce migliore.»
Rebecca e Dennis si presero istintivamente per mano, senza muoversi.
«Che tenerezza!» ghignò Ivanov.
«Vuoi vedere qualcosa di eccitante, Grigory?» lo stuzzicò la dottoressa piegandosi in avanti.
«Cosa hai in mente?»
La donna sorrise maliziosa e si passò la lingua sulle labbra, dopodiché afferrò per i capelli il fratello attirandolo a sé per baciarlo sulla bocca. Un gesto sensuale che eccitò Ivanov all’inverosimile.
Il russo sgranò gli occhi e il suo respiro divenne affannoso mentre Rebecca si appoggiava alla scrivania lasciando che Dennis la stringesse.
«Fermi, fermi!» ordinò l’altro ansimando.
«Che c’è? Non ti piace? Vuoi che facciamo altro per il tuo filmino?»
Ivanov allungò un dito che passò sulle labbra di lei. Rebecca iniziò a succhiarlo con avidità.
«Tipo cosa?» chiese lui agitato.
L’elettricità se ne andò per un secondo.
«Tipo ammazzarti, brutto bastardo!» gridò lei scattando in avanti.
Quando la luce ritornò per Ivanov era già troppo tardi. La messa in scena del bacio era stata solo un diversivo per permettere alla psichiatra di recuperare il coltello e conficcarlo nella gola del magnate.
Il russo ora la osservava incredulo, sgranando gli occhi. Dennis intanto lo aveva disarmato con un calcio e la pistola era caduta lontana.
«Nella tua ricostruzione hai scordato un dettaglio importante, caro Grigory» lo incalzò la psichiatra. «Dovevi chiederti che fine avesse fatto la lama con cui Dennis sgozza tutti quanti. Un errore fatale. Sai dov’era? Dove mio fratello la tiene da sempre: fissata al passante della cintura, dentro un fodero di pelle di cervo.»
L’infermiere si girò e sollevò il retro del camice per mostrargli la custodia.
«E indovina?» riprese la dottoressa «È identico a quello che possedeva nostro padre. Che tenerezza, eh?»
Ivanov a quel punto scivolò a terra in un lago di sangue.
Il cielo si era rasserenato e ora brillava un timido sole. La masseria era tornata a essere un luogo splendido e non una tetra cattedrale di morte. Una trappola per topi che custodiva i cadaveri di nove persone.
Dennis si era lavato e cambiato e ora aspettava la sorella seduto al volante del Suv di Ivanov, con il motore acceso.
Rebecca arrivò di corsa, i capelli bagnati al vento. «Bello questo regalo del caro Grigory» disse salendo a bordo.
Lui le sorrise, poi indicò la villa.
«Lasciamo tutto così?»
Lei si strinse nelle spalle.
«Nessuno sapeva che eravamo qui. E ricordi quella marea di precauzioni sulla privacy? L’unico che conosceva l’identità dei pazienti e del personale era Ivanov e lui di sicuro non può raccontarlo in giro.»
«Basterà?»
«Non lo so. Comunque ho escogitato un piano per cancellare ogni traccia.»
«Sarebbe?»
«Hai fatto quello che ti ho chiesto, Dennis?» Anche se conosceva già la risposta, voleva sentirla dalla sua voce.
«Certo, ho trasportato tutti i cadaveri in cucina. Ma qual è la tua idea?»
Lei sorrise. «Rimetterò a posto le cose, una volta ancora. Se dovessero risalire a noi, diremo che ce ne siamo andati prima che iniziasse la pioggia, per disaccordi con il proprietario.»
«E?»
«E niente! Gli inquirenti si divertiranno a elaborare una fantasiosa teoria. Sempre che trovino qualcosa...»
«Perché?»
Il boato fu assordante e lo spostamento d’aria fece tremare il Suv. Entrambi si girarono istintivamente verso la masseria che era già avvolta dalle fiamme.
Dennis guardò la sorella che gli mostrava un paio di forbici e un pezzo di tubo in gomma.
«Ops! Ci deve essere stata una perdita di gas» rise lei. «Meglio se ci leviamo di qui.»
Lui ingranò la marcia e i grossi pneumatici dell’auto lasciarono le loro impronte nel fango.
«Ricominceremo daccapo» sussurrò Rebecca. «E questa volta niente andrà storto.»