Sulla copertina di una vecchia edizione di A Little Princess, pubblicata dalla casa editrice americana HarperCollins, l’illustrazione di Tasha Tudor, racchiusa in un ovale, mostra Sara Crewe, la giovane protagonista del romanzo di Frances Hodgson Burnett, in piedi, con un vestito da ballo rosa, che le conferisce l’aspetto di una graziosa farfalla, mentre guarda con aria affettuosa la piccola sguattera Becky, addormentata sulla sedia della bellissima stanza del collegio femminile, dove Sara è stata, in un certo senso, rinchiusa, mentre una terza figura femminile, una bambola, seduta ai margini dell’illustrazione, tiene un libro in mano: sembra leggere, o forse guardare, a sua volta, Sara e Becky. Di lí a poco, Sara, che è già orfana di madre, saprà che il padre, che l’ha portata a Londra, prima di tornare in India alla ricerca di una favolosa miniera di diamanti, è morto, e la sua posizione sociale diventerà quella di Becky, tanto che anch’ella indosserà miseri vestiti e svolgerà nella scuola, dove era stata accolta trionfalmente come show pupil, le umili mansioni a lei imposte dalla crudele Miss Minchin, proprietaria-direttrice del collegio. Emily, la sua bambola preferita, continuerà a esserle accanto, e a rappresentare il nucleo di quella visione alternativa dell’esistenza, che permetterà a Sara di sopravvivere e di affermare la sua identità di «piccola principessa», se non sulla scala delle gerarchie sociali, nell’interiorità del proprio cuore e nella tenace convinzione che è possibile trasformare il mondo attraverso l’immaginazione.
Scrittrice capace di passare con disinvoltura dal romanzo realistico-sentimentale alla favola per adolescenti, dalla rievocazione autobiografica alla produzione teatrale, Frances Hodgson Burnett era approdata nel 1865, a sedici anni, negli Stati Uniti assieme alla madre, dopo aver vissuto un’infanzia funestata dalla morte del padre a Manchester, in Inghilterra. La nuova residenza della futura scrittrice è a Knoxville, nel Tennessee. Il mutamento è radicale, e il fatto che Frances abbia superato con una certa disinvoltura il trauma del passaggio è certamente da addebitare anche alla tenacia con cui ella vuole perseguire una carriera di scrittrice. Nella autobiografia pubblicata nel 1893 con il titolo The One I Knew the Best of All (Colei che conoscevo meglio di tutti), Frances mette in rilievo il carattere sconvolgente della nuova esperienza, lenita, tuttavia, dalla scoperta di una dimensione legata alla natura, che gli anni dell’infanzia passati in una grande città industriale le avevano fino ad allora negato: «C’è un’ampia, ampia distanza – una distanza che è piú d’una questione di semplice spazio – tra una grande città manifatturiera inglese, fosca e basata sul lavoro degli schiavi, e le montagne e le foreste del Tennessee – foreste che sembrano sconfinate, montagne coperte di grandi estensioni verdi…» Parlando di sé in terza persona, come the small person, e proiettandosi quindi in una sfera già mitizzante, Frances si sofferma anche sui problemi legati all’acquisizione di quella che a tutti gli effetti le sembra una nuova lingua, a cui comunque si adegua con la duttilità che è propria di una scrittrice, che sarà anche autrice di teatro: «Come aveva imparato a parlare il dialetto del Lancashire, imparò a parlare la lingua del Tennessee orientale e quella della North Carolina, e il dialetto dei negri (the negro dialect). Avendo scoperto che il suo accento inglese era considerato bizzarro (queer), si sforzò di correggerlo e di parlare Americano. Trovò l’Americano interessante e, insomma, le piacque». Si noterà, per inciso, che quell’aggettivo queer viene spesso applicato a Sara Crewe, il cui carattere singolare, unico, fuori dalla norma, viene piú volte ribadito, sebbene poi l’eroina burnettiana sappia anche incarnare il meglio dell’umanità e della femminilità adolescente, ponendosi in questo senso come modello insuperabile per le altre ragazze del collegio (e per le lettrici). Il titolo originale del romanzo è, infatti, A Little Princess, a segnalare che qualunque fanciulla abbia il cuore colmo di buoni sentimenti e doti immaginative può aspirare a un ideale titolo nobiliare, a essere a princess inside. Si potrebbe aggiungere, un po’ malignamente, che è comunque necessario, per realizzare l’ideale burnettiano, anche il possesso di un inglese elegante e forbito, in cui, ad esempio si aspirino le h (e infatti Sara, ridotta in povertà, teme di perdere questa essenziale proprietà della pronuncia), tanto è vero che, neppure negli squallidi vestiti che le sono stati affibbiati da Miss Minchin, Sara può essere scambiata per una mendicante, può solo, semmai, fingere (pretend) di essere una mendicante per compiacere l’antipatico bambino borghese che vuole rifilarle una monetina.
In ogni caso, Frances si afferma a livello editoriale sulle due sponde dell’Atlantico grazie al romanzo Il piccolo lord (Little Lord Fauntleroy, 1886), in cui sembra situare in una piú ottimistica dimensione giovanile il ‘tema internazionale’ che già compariva nei romanzi del grandissimo Henry James, nei cui confronti nutriva una sincera ammirazione, solo in parte ricambiata. Di fatto, Il piccolo lord aveva messo a confronto il grezzo ma sincero spirito democratico americano con la raffinata civiltà nobiliare di un’Inghilterra ancora regolata dall’ingiustizia sociale e irrigidita nei propri vuoti rituali, facendo di Cedric, il giovane protagonista, figlio di un nobile inglese, diseredato dal padre, e di una coraggiosa donna americana, il mediatore tra i due paesi, l’erede del passato che sa iniettare lo spirito generoso ed egualitario della civiltà yankee nelle vene del corpo esausto e chiuso in se stesso della grande tradizione britannica. L’ambiente fortemente industrializzato di Manchester è scomparso, e si può intravedere l’inizio di una vocazione ecologica culminante nell’esaltazione del paesaggio dello Yorkshire che troviamo ne Il giardino segreto (The Secret Garden, 1911). Solo La piccola principessa, come vedremo, recupera, sia pure in modo schematico, alcuni aspetti del paesaggio urbano. Qui dalla rappresentazione un po’ folklorica dei poveri contadini del contado rurale si passa allo spettacolo piú realistico – seppure limitato a un paio di personaggi femminili – della plebe londinese.
Come altre scrittrici, provenienti da ceti sociali piccolo-borghesi, che si affermano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento – penso, ad esempio, alla popolarissima Marie Corelli, che si spacciava per discendente di un’antica famiglia italiana – Frances reagisce ai comportamenti misogini e classisti delle sfere letterarie ufficiali, creando una propria identità pubblica, atteggiandosi a figura esemplare nel dibattito sull’emancipazione della donna, e ribadendo, nello stesso tempo, la propria forte individualità, che sa comprendere le esigenze di un’ampia sfera di lettori, ormai eterogenea, interessata anche alla vita privata dei ‘personaggi’ letterari, alla caccia di prodotti popolari, capaci di intrattenere e di ammaestrare senza affidarsi a modelli estetici troppo raffinati.
In questo ambito la children’s literature non poteva che rappresentare, nella sua esplicita marginalità e con i suoi consolidati obiettivi pedagogici, un veicolo privilegiato proprio per le scrittrici, le quali potevano ricollegarsi a una tradizione nobile, che si era sviluppata nel corso dell’Ottocento, e che, negli Stati Uniti, aveva prodotto, ad esempio, il capolavoro di Piccole donne (Little Women, 1868) di Louisa M. Alcott, dove la coralità delle voci che campeggia al centro del romanzo è in grado di indagare sulle ansie dell’America travolta dalla guerra civile, sul ruolo delle giovani donne che devono arrangiarsi da sole senza piú la guida del patriarca, sull’importanza che la testimonianza di un periodo difficile sia affidata alla scrittura femminile. Va ricordato, peraltro, che nel primo decennio del ’900, in Inghilterra si affermano scrittrici confinate all’attenzione del pubblico infantile come Beatrix Potter ed Edith Nesbit, mentre, in un paese ancora coloniale come il Canada, L. M. Montgomery dà inizio al ciclo narrativo di Anna dai capelli rossi (ovvero, Anne of Green Gables, 1908). Non è un caso se, con l’eccezione delle favole illustrate di Beatrix Potter, le opere delle scrittrici sopra menzionate presentano figure forti di giovani eroine, intenzionate a lottare per affermare i propri diritti e sconfiggere i numerosi ostacoli a cui la vita le sottopone. A questa eletta schiera appartiene ovviamente anche Dorothy, la protagonista del Mago di Oz (The Wizard of Oz, 1900) di Frank L. Baum, trasportata sulle ali di un uragano dal Kansas alla terra meravigliosa di Oz. E, tornando al versante inglese, potremmo aggiungere al drappello delle eroine primo-novecentesche la Wendy del Peter Pan di J. M. Barrie (l’opera teatrale è del 1904, il romanzo esce nel 1911 con il titolo Peter e Wendy), depositaria di una memoria familiare che neppure l’isola incantata di Peter Pan riesce a cancellare.
La piccola principessa appartiene al novero di questa produzione ormai consapevole delle proprie potenzialità, costituendo la seconda tappa – dopo Il piccolo lord e prima de Il giardino segreto – della ricerca intrapresa dall’autrice anglo-americana che non tocca solo la condizione infantile, ma anche il rapporto tra mondo femminile e processi immaginativi, e dunque il carattere metanarrativo indagato dalla favola nei tempi moderni. Ne La piccola principessa, in particolare, Hodgson Burnett rilegge la propria esperienza autobiografica di appassionata e precoce lettrice, immersa in un mondo in cui immaginazione e vita quotidiana si sovrappongono e si confondono nella figura emblematica della bambola – replica umana e creatura fantastica per eccellenza – e poi di narratrice in grado di coinvolgere lettrici e lettori nelle proprie visioni, creando una narrazione che è nello stesso tempo ricca di spunti personali e fortemente condivisa, carica di espliciti riferimenti letterari e aperta a una serie di problematiche sociali e perfino etico-politiche. In questo modo, scrittrici come Nesbit, Montgomery, Hodgson Burnett, non solo affermano la centralità del ruolo della giovane donna, alle prese con un mondo ostile che vorrebbe ancora incatenarle ai principî della supremazia patriarcale, per poi gettarle in pasto agli eventi, senza protezione e difesa (come fa l’improvvido e infantile capitano Crewe, il papà di Sara), ma, ognuna a modo suo, ribadiscono che le trasformazioni e le inquietudini dell’epoca si possono efficacemente mettere in scena anche in una prospettiva marginale e scarsamente considerata come è quella della children’s literature. Nella produzione di queste scrittrici, infatti, il dramma dell’esistenza è rivisitato, ricreato, e talvolta risolto terapeuticamente attraverso la coscienza di una giovane donna di cui la scrittrice si fa interprete e portavoce. Tra la bambola e l’eroina si instaura la stessa relazione che intercorre tra l’eroina e la scrittrice, in un gioco di intensi rispecchiamenti che in A Little Princess trova forse la sua massima espressione, sebbene, nel corso del romanzo burnettiano, Sara si renda conto, a un certo punto, che la sempre silenziosa bambola Emily non le sia piú sufficiente come docile interlocutrice. La sua ricerca di un linguaggio narrativo deve andare oltre. Del resto, nel giorno trionfale del suo undicesimo compleanno, quando Sara apprende della morte del padre e della sua caduta sociale, l’Ultima Bambola, l’ultimo splendido regalo del papà, le viene confiscato dall’odiosa Miss Minchin, a conferma che il periodo della spensieratezza infantile è davvero finito.
Sia ne Il piccolo lord, che in La piccola principessa, e poi ne Il giardino segreto, la scrittrice rielabora momenti cruciali della sua esperienza, tra cui la condizione di orfano, o di orfana, di chi ha perso il padre in tenera età. Ne La piccola principessa l’episodio della morte del padre di Sara viene proposto con una intensità che, ad esempio, non ha riscontro nell’autobiografia burnettiana, come se Frances dovesse ancora rielaborare un lutto che le aveva lasciato una profonda lacerazione interiore. Non solo Sara prova, allorché la notizia ferale le viene comunicata proprio nel giorno del suo compleanno, un dolore lancinante, ma dovrà ripetere il racconto di quella morte a Carrisford, il vecchio gentiluomo che è alla sua ricerca, affinché costui si renda conto di trovarsi di fronte alla figlia dell’amico, da lui abbandonato in India. Tuttavia, l’autentica forza autobiografica de La piccola principessa risiede nella ricostruzione della nascita della narratrice, la small person di The One I Knew the Best of All, che ora diventa Sara, condividendo con la precedente incarnazione di Frances il rapporto esclusivo con i libri, l’impulso della story-teller, che trasforma il mondo con la magia della narrazione, la fascinazione per le bambole, le compagne di una non facile infanzia solitaria. All’evocazione dell’universo parallelo popolato dalle bambole, Hodgson Burnett aveva dedicato il quarto capitolo della sua autobiografia, intitolato «Literature and the Doll», per sottolineare come le umili bambole con cui giocava da piccola erano compagne necessarie al gioco immaginativo a cui la small person si abbandonava: «Lei era tutti i personaggi eccetto l’eroina – la Bambola era l’eroina». Di fatto, come ha notato U. C. Knoepflmacher, ne La piccola principessa, la bambola Emily assolve a una funzione di distanziamento rispetto al punto di vista della protagonista, come a indicare l’esistenza di varie prospettive, ma, durante la sua crescita, Sara si renderà conto che Emily non può esserle di aiuto, ribellandosi contro di lei, che è, appunto, niente altro che una bambola. L’intero romanzo, del resto, non si identifica mai del tutto con lo sguardo di Sara, ma, fin dal primo capitolo, adoperando l’espediente di una voce narrante sufficientemente distaccata, anche se sempre pronta a valorizzare la ‘differenza’ della piccola principessa, la sua unicità, consegna a lettrici e lettori il giudizio assai meno gratificante di Miss Minchin e di alcune compagne invidiose. Nel capitolo XIV, poi, il punto di vista diventerà esplicitamente quello del topo Melchidesec, una creatura sospesa tra il mondo della squallida realtà di una soffitta e l’invenzione prodigiosa della fantasia narrativa. Nell’ultima parte del romanzo, infine, la comparsa del benefattore Carrisford e dei suoi aiutanti porterà come conseguenza a un aggiustamento delle coordinate narrative, attraverso cui Sara non verrà piú vista come una creatura ricca di doti interiori e fornita di una prodigiosa immaginazione, ma come una bambina spaurita e abbandonata, la quale, interrogata da Carrisford, affermerà di non sapere esattamente chi, o cosa sia («I don’t think I know exactly what I am»).
Non è certo un caso che su quest’opera Hodgson Burnett tornasse in piú occasioni, dando di essa svariate versioni, dal momento che La piccola principessa doveva accompagnare una parte rilevante della sua vita. Una versione piú breve, intitolata Sara Crewe; Or, What Happened at Miss Minchin’s appare in rivista tra il dicembre del 1887 e il febbraio del 1888. Qui la trama è piú schematica rispetto alla successiva rielaborazione dell’autrice, e l’incipit narrativo si situa direttamente nel collegio di Miss Minchin, facendo subito del personaggio della direttrice l’antagonista di Sara. Nel 1888 il romanzo appare in volume a Londra assieme al racconto Editha’s Burglar, in cui una bambina tanto ingenua quanto coraggiosa riesce con le sue argomentazioni a venire a patti con un rapinatore che si è introdotto nella sua bella casa borghese in assenza del padre. La scarsa protezione fornita dalle figure paterne è uno dei motivi ricorrenti della narrativa burnettiana, e si ritrova anche in La piccola principessa. Al massimo, i padri possono essere sostituiti da personaggi piú anziani, che ne fanno le veci. Nel 1902 Hodgson Burnett mette in scena una versione teatrale dell’opera (The Little Princess), come aveva già fatto con successo per Il piccolo lord, e ritorna quindi a lavorare sul romanzo, ampliandolo e arricchendo la narrazione con la comparsa di altri personaggi, fino a pubblicare A Little Princess nel 1905 con una prefazione in cui spiega di aver voluto, appunto, fornire un’informazione piú esauriente sulle vicende narrate, dando spazio a figure che erano in precedenza rimaste nell’ombra.
Si arriva cosí a un romanzo in 19 capitoli, che si articola secondo uno schema compatto e lineare, comprendente una prima parte ambientata nel collegio di Miss Minchin, in cui Sara viene trattata con tutti gli onori, stringe amicizia con altre ragazzine che poi non l’abbandoneranno nel momento della sventura (Becky, Lottie, Ermengarda), e una seconda parte successiva alla notizia della rovina finanziaria e della morte del capitano Crewe. Qui il racconto si anima, poiché lettrici e lettori possono seguire Sara nella sua povera soffitta, mentre l’eroina dà inizio alla sua nuova esistenza di orfana al servizio di Miss Minchin, e assistere alle trasformazioni che si compiono grazie ai prodigi della sua immaginazione, attraverso cui lo squallore quotidiano viene rigenerato in una favola meravigliosa. Nello stesso tempo, nuovi personaggi, come il topo Melchisedec, aggiungono una sfumatura fantastica alla trama, e la comparsa del servitore indiano Ram Dass apre la strada sia a un mondo fatto di apparenti incantesimi degni delle Mille e una notte, sia al recupero di una condizione familiare alto borghese attraverso il riconoscimento operato da Carrisford. Di fatto, la magia, magic, e il livello dell’esperienza quotidiana finiscono per sovrapporsi, in modo da far coincidere il mondo della favola con quello dell’esistenza concreta. Quest’ultimo aspetto viene potenziato dagli spostamenti che Sara compie per le strade di Londra, finalmente a contatto con l’esperienza non delle bambine ricche e viziate del collegio, ma delle adolescenti affamate e disperate, ideali sorelle di Becky. E non è un caso, infatti, alla fine del romanzo burnettiano, Sara trasmette simbolicamente a una di loro, la Anne incontrata nei suoi giorni piú tristi, il compito di continuare una narrazione, che per lei si è conclusa, ma che nelle strade della Londra miserabile e imperiale, potrà illuminare ben altri scenari. E tuttavia, seguendo altre soluzioni narrative, Frances si allontana, assieme a Sara, da Londra, visto che, pur riproponendo il brusco passaggio di un’orfana dall’India all’Inghilterra in Il giardino segreto, la storia di Mary Lennox salterà a piè pari la metropoli e si concentrerà sul paesaggio selvaggio dello Yorkshire e sulla natura redentrice di un giardino abbandonato, destinato a rifiorire per le cure della giovane protagonista.
Ne La piccola principessa un cruciale allargamento di prospettive narrative si esplicita nell’XI capitolo, che è, a mio parere, il vero turning point della narrazione, non solo per la comparsa risolutrice di Ram Dass: sporgendosi dal lucernario, Sara concentra la sua attenzione sul mutevole cielo di Londra, aprendo la sua mente a un orizzonte esterno fino a quel momento trascurato, in cui i tetti della città, la visione della piazza e delle abitazioni (aldilà del muro prospiciente al collegio si cela l’abitazione del benefattore Carrisford), si fondono nello spettacolo della volta celeste, mutevole e affascinante, per il gioco incessante delle nuvole, come è l’esistenza stessa, e come è il tessuto della narrazione, che si apre a nuovi, imprevedibili sviluppi. In una dinamica narrativa assai diversa, una forte presenza simbolica delle nuvole, che si rincorrono nei cieli londinesi, la troveremo in Mrs Dalloway di Virginia Woolf (1925).
D’altra parte, l’ambientazione londinese, che caratterizza gli sviluppi narrativi de La piccola principessa, mette in luce la volontà della scrittrice di misurarsi con la grande tradizione vittoriana di Dickens e di Thackeray. A Dickens rinvia anche la partecipazione nella storia della numerosa famiglia borghese (the Large Family), che abita nella stessa piazza dove è posto il collegio di Miss Minchin, per i cui componenti Sara inventerà nomi fittizi, oltre che la presenza di personaggi orfani. Ancora piú esplicito è il richiamo alle prime pagine de La fiera della vanità di Thackeray, che si apre con la partenza dal collegio femminile delle due protagoniste, Amelia e Becky, quest’ultima, come Sara, in parte francese per via della madre. In ogni caso, Hodgson Burnett si muove con autonomia in questo fitto contesto letterario, che non esclude neppure un omaggio ad alcune finissime figure adolescenziali create da Henry James, soprattutto, almeno per quanto riguarda l’ultima stesura della Piccola principessa, all’eroina di Ciò che sapeva Maisie (What Maisie Knew, 1897). In A Little Princess. Gender and Empire (1996), Roderick McGillis, uno degli studiosi piú attenti, assieme a Phyllis Bixler, alle problematiche burnettiane, ha messo in risalto un sottotesto narrativo che si ispira al Robinson Crusoe di Defoe, a cui l’autrice anglo-americana avrebbe dedicato nel 1909 la riscrittura Barry Crusoe and His Man Saturday. Secondo McGillis, Hodgson Burnett cerca di articolare il discorso imperiale, derivato anche dalle letture e dalle nuove versioni del Robinson Crusoe, collegandolo ai motivi della domesticità femminile e della riscoperta dell’Inghilterra, la terra del ritorno a casa, della fine dell’esilio, sia per Sara Crewe che per Mary Lennox, che ha il significato del recupero di antiche radici. Sullo sfondo del racconto burnettiano rimane, invece, il romance imperiale di Rider Haggard, il cui popolarissimo Le miniere di re Salomone, pur ambientato in Africa, può riecheggiare amaramente nella ricerca delle favolose miniere di diamanti che costa la vita al capitano Crewe. Presente ne La piccola principessa è senz’altro il retaggio della children’s literature vittoriana, della favola di Cenerentola e di quella della Bella Addormentata, del Conte di Montecristo di Dumas, che insieme alla Rivoluzione francese di Carlyle sembra fornire a Sara, chiusa nella sua soffitta, la chiave per riaprire le porte della fantasia, con un vero e proprio processo creativo che esalta il potere terapeutico dell’evasione letteraria.
Certamente, il rapporto tra l’insidioso e remoto mondo indiano e la civiltà inglese viene affrontato ne La piccola principessa prima ancora che ne Il giardino segreto, ma se nel romanzo successivo l’India appare sostanzialmente luogo di malattia e di morte, nel caso della storia di Sara, pur cancellando dalla narrazione l’improvvido genitore, il gioiello della corona inglese si materializza soprattutto nel personaggio di Ram Dass, un vero deus-ex-machina che guida le vicende verso un meraviglioso happy ending. Ram Dass ha tutte le qualità di uno spirito buono, del genio nella lampada, essendo una figura che certo si presta a una tipologia coloniale rassicurante – è mite e gentile, ha tratti quasi animaleschi (rispecchiati nella scimmietta che porta con sé) nei movimenti agili e silenziosi – e che esprime subito rispetto e devozione per Missee Sahib, la padroncina bianca, ma è pur vero che egli incarna un’alterità – sotto i cieli di Londra – altrettanto anomala di quella di Sara. A lui è affidato il processo di guarigione che accompagna il ritorno della memoria, l’accettazione del passato e dell’esperienza indiana, in cui anche la morte del papà può recuperare un senso non puramente distruttivo e, anzi, essere almeno parzialmente esorcizzata con il ritorno del padre nelle vesti del piú anziano ed esperto Carrisford, provato dalla vita e a sua volta bisognoso di riscattare i suoi errori e di trovare nuove motivazioni esistenziali.
Narratrice autentica fin dall’infanzia, come la small person e come la sua creatrice, Sara ha dunque bisogno di compiere un percorso iniziatico di dolore e di conoscenza per perfezionare la sua arte. Ella deve capire che, per raccontare una storia, bisogna ‘essere’ una storia («everything is a story, you’re a story, I’am a story, Miss Minchin is a story», spiegherà all’amica Ermengarda), e che ognuno, anche la persona meno importante, possiede una sua storia. Il suo incontro con altri personaggi femminili emarginati, da Becky a Lottie, da Ermengarda ad Anne, l’abitante delle strade di Londra, è dunque fondamentale. Sara non potrà raccontare solo se stessa, ma affronterà le vicende di coloro che la circondano e che condividono con lei un tratto significativo del percorso della vita. È anche da questa nuova consapevolezza che emerge la ‘lezione’ piú alta impartita da Frances Hodgson Burnett alle sue lettrici e ai suoi lettori: si vive per raccontare… si racconta per vivere…
CARLO PAGETTI