Poco tempo dopo accadde qualcosa di straordinario, che provocò grande eccitazione non solo in Sara ma in tutto il collegio, dando alle allieve un argomento di conversazione per intere settimane.
In una lettera, il capitano Crewe raccontò alla figlia una storia molto avvincente. Aveva ricevuto la visita inattesa di un ex compagno di scuola, proprietario di un vasto terreno dove si era scoperta una miniera di diamanti, che ora il suo amico stava sfruttando. Se tutto fosse andato come previsto, sarebbe diventato favolosamente ricco, e aveva chiesto al capitano, cui lo legava un grande affetto, di diventare suo socio, dandogli l’opportunità di dividere con lui quell’immensa fortuna. Questa almeno fu la conclusione cui giunse Sara dopo avere letto le parole del padre.
Ogni altro progetto d’affari, per quanto grandioso, non avrebbe certo entusiasmato a tal punto lei e le compagne, ma una miniera di diamanti era affascinante come le Mille e una notte, e nessuna rimase indifferente.
Sara immaginava, e descriveva a Ermengarda e a Lottie, il labirinto delle gallerie scavate nelle viscere della terra, dove le pietre scintillanti ricoprivano pareti e soffitti, e gli strani uomini dalla pelle scura che le staccavano con pesanti picconi. Ermengarda era deliziata da quel racconto e Lottie voleva che Sara glielo ripetesse tutte le sere. Soltanto Lavinia, rosa dall’invidia, cercava di convincere Jessie che le miniere di diamanti non esistono.
– La mia mamma ha un anello con un brillante che vale quaranta sterline, – disse, – e non è nemmeno molto grosso. Se ci fossero miniere piene di diamanti, chi le possiede sarebbe assurdamente ricco.
– Forse anche Sara diventerà assurdamente ricca, – ridacchiò Jessie.
– Ma è già assurda, anche senza essere cosí ricca, – ribatté Lavinia.
– Sembra proprio che la detesti.
– No, non è vero. Però non credo alle sue miniere di diamanti.
– Ma i diamanti usciranno pure da qualche parte, – osservò Jessie. Poi aggiunse sogghignando: – Lavinia, lo sai cosa mi ha detto Gertrude?
– No di certo, e non mi interessa, se riguarda la solita Sara.
– Proprio cosí. Fra le sue stranezze c’è quella di fingere di essere una principessa; ci pensa sempre, perfino durante le lezioni. Anzi, sostiene che questa convinzione la aiuti a imparare meglio. E vorrebbe che anche Ermengarda immaginasse di essere una principessa, ma lei dice che non può farlo perché è troppo grassa.
– Infatti, è troppo grassa, – commentò Lavinia. – E Sara è troppo magra.
Jessie fece un altro sorrisetto. – Lei dice che l’apparenza non conta, e nemmeno la ricchezza. Conta soltanto quello che si pensa e si fa.
– Forse si crederebbe una principessa anche se fosse una mendicante, – concluse Lavinia. – Perciò, d’ora in poi la chiameremo Altezza Reale.
Per quel giorno le lezioni erano terminate e le allieve erano raccolte intorno al fuoco, nella sala di studio. Era l’ora preferita da tutte, perché Miss Minchin e Miss Amelia prendevano il tè nel loro salottino privato e le bambine potevano chiacchierare scambiandosi i loro grandi segreti, soprattutto se le piú piccole stavano tranquille, senza azzuffarsi o fare troppo chiasso. Va però detto che questo succedeva quasi sempre; allora le piú grandi le rimproveravano aspramente, dato che erano incaricate di mantenere l’ordine e, se non ci riuscivano, ecco apparire Miss Minchin o Miss Amelia a porre fine alla festa.
Lavinia parlava ancora, quando la porta si aprí e Sara entrò con Lottie, che la seguiva dappertutto come un cagnolino.
– Eccola qua, con quell’orribile marmocchia! – bisbigliò Lavinia. – Ma se le vuole tanto bene, perché non la tiene in camera con sé? Fra cinque minuti, di certo Lottie comincerà a strillare.
Lottie desiderava giocare nella sala di studio e aveva pregato la sua mammina adottiva di accompagnarla. Si uní al gruppo delle piccole riunite in un angolo, mentre Sara si raggomitolava nel vano di una finestra a leggere. Era un libro sulla rivoluzione francese, e ben presto la bambina si ritrovò immersa nella straziante descrizione dei prigionieri rinchiusi nella Bastiglia, uomini che avevano trascorso cosí tanto tempo lí dentro che i loro salvatori avevano dovuto trascinarli fuori a braccia. Avevano i capelli e la barba lunghissimi e avevano ormai dimenticato l’esistenza del mondo esterno, vivendo come in un sogno.
Sara era dunque lontana mille miglia dalla sala di studio, quando fu richiamata bruscamente alla realtà da un urlo di Lottie. Come per ogni lettore appassionato, era sempre molto difficile per lei non perdere la pazienza se la disturbavano mentre era assorta in un libro. La tentazione di reagire in modo sgarbato era fortissima.
– È come se mi dessero un pugno, – spiegò una volta a Ermengarda, – e mi viene voglia di renderlo. Devo sforzarmi di trattenermi, per non dire qualcosa di molto cattivo.
Anche quel giorno dovette impegnarsi a fondo per rimanere calma; posò il libro sul davanzale della finestra e saltò giú dal suo comodo cantuccio.
Lottie, che si divertiva a fare degli scivoloni attraverso la stanza, prima aveva infastidito Lavinia e Jessie con tutto quel baccano, poi era caduta, scorticandosi un ginocchio. Ora gridava, saltellando su un piede solo, in mezzo a un gruppo di compagne in parte amiche e in parte nemiche che, a turno, la consolavano e la rimproveravano.
– Smettila subito, piagnucolona! – le ordinò Lavinia.
– Non sono una piagnucolona, – singhiozzò Lottie. – Sara! Sara!
– Se non sta zitta, Miss Minchin la sentirà! – esclamò Jessie. – Lottie, tesoro, ti darò un penny.
– Non lo voglio, il tuo penny! – gemette lei. Poi si guardò il ginocchio grassoccio e, vedendo una goccia di sangue, scoppiò di nuovo a piangere.
Sara corse da lei, s’inginocchiò e la prese fra le braccia. – Su, Lottie, mi hai promesso che…
– Ha detto che sono una piagnucolona! – la interruppe l’altra.
Sara le fece una carezza ma le parlò con la voce ferma che Lottie ben conosceva: – Però se piangi, allora sí che sarai una piagnucolona, piccola mia. Eppure, mi avevi promesso…
Lottie ricordava bene la sua promessa, ma in quel momento preferí strillare: – Non ho piú la mamma! Non ho piú la mamma!
– Ma certo che ce l’hai! – disse allegramente Sara. – Te ne sei dimenticata? Non ti ricordi piú che è Sara la tua mamma? Non la vuoi piú per mammina?
Lottie si rifugiò fra le sue braccia con un gran sospiro.
– Vieni a sederti con me, – continuò Sara, – e ti racconterò sottovoce una bella fiaba, per te sola.
– Davvero? – mormorò Lottie. – Mi racconterai della miniera di diamanti?
– Ancora la miniera di diamanti! – sbottò Lavinia. – Sei una bambina cattiva e viziata, ti darei uno schiaffo!
Sara balzò in piedi. Ricordiamoci che era stata disturbata nel bel mezzo di una lettura avvincente e si era dovuta armare di pazienza per consolare Lottie. Inoltre, non era un angelo, e non provava alcuna simpatia per Lavinia.
– Be’, – disse con fervore, – anche a me piacerebbe darti uno schiaffo… ma non voglio farlo! – Cercò di dominarsi. – O meglio, vorrei farlo e mi piacerebbe davvero darti uno schiaffo, ma non lo farò. Non siamo come le bambine di strada che si picchiano, e ormai siamo abbastanza grandi per sapere come comportarci.
Lavinia colse a volo l’occasione per risponderle: – Certo, Altezza Reale. So che siamo delle principesse, o quanto meno lo è una di noi. Questa scuola diventerà molto famosa, ora che Miss Minchin ha una principessa fra le sue allieve.
Sara la fissò e si avvicinò con aria minacciosa, come se volesse colpirla. Le sue fantasie erano la grande gioia della sua vita, ma le rivelava solo alle amiche. Fingere di essere una principessa le piaceva immensamente, però voleva che rimanesse un segreto, ed ecco che Lavinia lo sapeva e si prendeva gioco di lei di fronte a tutte.
Sentí le guance in fiamme e le orecchie che le ronzavano, ma riuscí a trattenersi. Una principessa non s’infuria. Lasciò ricadere la mano e rimase immobile per qualche istante. Quando parlò di nuovo, lo fece con voce calma, a testa alta, mentre le compagne ascoltavano. – È vero, – disse, – qualche volta faccio finta di essere una principessa, cosí posso provare a comportarmi come farebbe una vera principessa.
Lavinia non trovò le parole per ribattere, come spesso le succedeva quando aveva a che fare con Sara, probabilmente perché percepiva sempre nelle altre allieve una vaga simpatia verso la rivale. E la sua non era un’impressione sbagliata: tutte si avvicinarono a Sara, pronte ad ascoltare, perché a tutte piacevano le principesse.
Lavinia riuscí a tirare fuori solo una frase alquanto sciocca: – Allora, spero che quando salirai al trono non ti dimenticherai di noi.
– Certo che no, – replicò Sara e, senza aggiungere altro, rimase immobile a fissare Lavinia che prendeva per un braccio Jessie e usciva con lei dalla sala.
Da quel giorno tutte cominciarono a chiamare Sara «la principessa», le piú invidiose per canzonarla, le altre con affetto. Anche Miss Minchin venne a saperlo e ne parlò piú di una volta con i genitori che andavano a trovare le figlie, quasi che quel soprannome conferisse maggiore prestigio al suo collegio.
Becky pensava che quel titolo fosse perfetto per Sara. L’amicizia nata fra loro nel nebbioso pomeriggio in cui Becky si era addormentata nella poltrona accanto al fuoco si era approfondita e rinsaldata, all’insaputa di Miss Minchin e Miss Amelia.
Le due donne vedevano che Sara era gentile con la sguattera, ma erano totalmente all’oscuro dei momenti indimenticabili che le bambine riuscivano a ritagliarsi quando Becky, dopo avere riassettato tutte le camere, entrava nel salotto di Sara, posava con un sospiro di sollievo il grosso secchio del carbone e ascoltava una fiaba, gustandosi una deliziosa merenda. E se ne andava sempre con qualcosa di buono nascosto nelle tasche, per mangiarlo la sera, quando si ritirava nella sua soffitta.
– Però devo stare molto attenta, signorina, – spiegò un giorno, – a non lasciare in giro briciole, altrimenti i topi escono per mangiarle.
– Topi! – esclamò Sara inorridita. – Ci sono i topi, lassú?
– Tantissimi, signorina, – rispose Becky senza scomporsi, – come in quasi tutte le soffitte. Ma mi sono abituata a sentirli sgattaiolare qua e là. Ormai non ci faccio piú caso, a meno che non mi vengano sul guanciale.
– Ma è orribile! – commentò Sara.
– Ci si adatta a tutto, dopo un po’, – disse Becky. – Bisogna farlo, se si è una sguattera. Meglio i topi che gli scarafaggi.
– Certo, – convenne Sara. – Credo che con il tempo si possa addomesticare un topo, ma non uno scarafaggio.
A volte Becky non si arrischiava a rimanere piú di qualche minuto nel salottino caldo e luminoso; in quelle occasioni le due bambine potevano scambiare solo poche parole, ma Sara non dimenticava mai di dare all’amica un fagottino pieno di cose buone, che scivolava nella tasca sdrucita sotto la vecchia gonna di Becky. Sara si dedicava con gioia alla ricerca di cibo che potesse essere impacchettato occupando pochissimo spazio. Uscendo, guardava le vetrine con estremo interesse, e quando vide dei pasticcini di carne fu proprio come se avesse fatto un’importante scoperta. Mentre li dava a Becky, vide che i suoi occhi brillavano.
– Oh, signorina, – mormorò, – sono buoni e nutrienti. E quel che piú conta è proprio che tolgono la fame. Il pan di Spagna è squisito, ma si scioglie subito in bocca. Capisce quel che voglio dire, vero? Invece questi pasticcini restano nello stomaco.
– Be’, – rispose Sara esitante, – non credo che sarebbe un bene se ci restassero troppo a lungo, ma di certo ti sazieranno.
Grazie ai pasticcini, ma anche ai panini al manzo, alle salsicce e ai salamini, a poco a poco Becky superò lo sfinimento dovuto alla fame e alla fatica, tanto che il secchio del carbone cominciò a sembrarle piú leggero. In ogni modo, per quanto opprimente fosse quel peso, e nonostante le urla della cuoca e la quantità di lavoro che doveva sobbarcarsi, Becky provava sempre un gran sollievo al pensiero di stare con Sara: vederla era per lei una grande gioia, anche senza pasticcini o altre ghiottonerie. Se aveva poco tempo, poteva pur sempre scambiare qualche parola allegra e amichevole con lei, e se ne aveva di piú poteva ascoltare un episodio di una fiaba, o una novella intera, o fare una chiacchierata su cui rifletteva con calma piú tardi, quando si ritrovava da sola nella soffitta. Sara, che essendo generosa per natura si comportava in modo del tutto spontaneo, non aveva la minima idea di quanto tutto ciò significasse per la povera Becky e di come lei la considerasse una meravigliosa benefattrice. Quando si è altruisti, si è pronti a dare con il cuore aperto; anche se a volte le mani sono vuote, il cuore è sempre colmo di affetto, dolcezza e gentilezza. Questo permette di donare conforto e allegria, e talvolta una risata è la migliore medicina. In tutta la sua miserevole e durissima vita, Becky aveva avuto ben poche occasioni di ridere, ma ora Sara la faceva ridere e rideva con lei e, per quanto nessuna delle due ne fosse consapevole, quelle risate erano nutrienti quanto i pasticcini di carne.
Poche settimane prima del suo undicesimo compleanno, Sara ricevette dal padre una lettera che non aveva il solito tono gaio ed effervescente: il capitano non si sentiva bene e aveva problemi con la miniera di diamanti.
Vedi, piccola mia, – diceva, – non sono un uomo d’affari. Le cifre e i documenti mi annoiano, non ci capisco nulla e tutto mi sembra difficilissimo. Forse, se non avessi la febbre, non passerei le mie notti per metà sveglio a rigirarmi nel letto e per l’altra metà in preda agli incubi. Se la mia donnina fosse qui, di certo mi darebbe qualche buon consiglio con la sua solita aria solenne, non è vero, tesoro mio?
La chiamava spesso «donnina» per via dell’atteggiamento grave, da adulta, che Sara spesso assumeva. Il capitano aveva fatto grandiosi preparativi per festeggiare il suo compleanno: fra l’altro, aveva ordinato una bambola a Parigi, con uno splendido guardaroba. Nella lettera, le chiedeva se quel regalo le sarebbe piaciuto, e Sara gli rispose con una delle sue solite, originali sortite.
Sto invecchiando, sai, e non posso piú giocare con le bambole: questa sarà l’ultima. È una cosa che mi fa riflettere. Se fossi un poeta, scriverei una poesia sulla mia ultima bambola, ma non ne sono capace. Ci ho provato, e il risultato è stato ridicolo: niente a che vedere con Watts, Coleridge e Shakespeare! Nessuna potrà mai prendere il posto di Emily, ma terrò in grande considerazione questa Ultima Bambola. E sono sicura che piacerà alle mie compagne, perché tutte adorano le bambole, anche quelle che hanno quasi quindici anni e fanno finta di essere troppo grandi per giocarci ancora.
Quando lesse quella lettera nel suo bungalow, il capitano Crewe aveva un terribile mal di testa. Il tavolo davanti a lui era ricoperto di documenti e conti che gli provocavano grande inquietudine, eppure rise di cuore, come da settimane non faceva piú.
«Man mano che cresce diventa sempre piú particolare, – pensò. – Che Dio mandi a buon fine i miei affari e mi lasci correre a riabbracciarla! Che cosa non darei per avere intorno al collo le sue braccine, qui e ora!»
Intanto, i preparativi per il compleanno di Sara fervevano: l’intero collegio sarebbe stato addobbato e si sarebbe tenuta una grande festa. Prima Sara avrebbe aperto tutti i regali, poi ci sarebbe stato un sontuoso rinfresco nel salotto privato di Miss Minchin. Quando il giorno tanto atteso arrivò, la scuola era in preda alla frenesia. La mattinata trascorse in un lampo, mentre si adornava la classe con ghirlande d’agrifoglio e si spostavano i banchi, coprendoli di drappi rossi.
Quando Sara si alzò ed entrò nel suo salottino, trovò sul tavolo un pacchettino avvolto alla meglio in un pezzo di carta marrone. Capí subito che si trattava di un regalo, intuí da chi provenisse e lo aprí con tenerezza. Era un puntaspilli quadrato, fatto di flanella rossa non troppo pulita: sopra c’era una serie di spilli dalla capocchia nera, accuratamente disposti a formare le parole: «Ciento di cuesti giorni».
– Oh, che pensiero gentile! – esclamò Sara commossa. – Come mi fa piacere!
Subito dopo spalancò gli occhi per lo stupore, vedendo sotto il puntaspilli un bigliettino firmato da Miss Amelia Minchin. Se lo girò e rigirò fra le dita, dicendosi: «Miss Amelia! Com’è possibile?»
Proprio in quel momento, dallo spiraglio della porta spuntò il visino di Becky, che la guardava con un’espressione affettuosa e trionfante; poi la servetta si avvicinò con passo strascicato e si fermò, torcendosi nervosamente le mani.
– Le piace, signorina?
– Se mi piace? – esclamò Sara. – L’hai fatto proprio tu, cara Becky?
Con un risolino nervoso ma felice e uno strano luccichio negli occhi, Becky rispose: – È soltanto un pezzo di flanella, e non è neppure nuovo, ma volevo regalarle qualcosa, cosí l’ho fatto di notte. Vorrei che se lo immaginasse di seta e con gli spilli di diamanti: mentre lo preparavo, pensavo proprio questo. E il bigliettino, – aggiunse un po’ titubante, – l’ho raccolto dal cestino della carta straccia. Non ho fatto male, vero? Miss Amelia l’aveva buttato via; io non ne ho, e siccome so che non si può dare un regalo senza biglietto, ci ho messo quello di Miss Amelia.
Sara corse ad abbracciarla, e non avrebbe saputo dire perché, ma si sentiva un nodo in gola.
– Oh, Becky, quanto bene ti voglio! – esclamò. – Con tutto il cuore!
– Oh, signorina, – sospirò Becky, – grazie, siete cosí gentile! Non dovete ringraziarmi… non era neanche flanella nuova!