Sara non dimenticò mai quella prima notte nella soffitta, una notte in cui provò un’angoscia e un dolore intollerabili per una bambina, che non rivelò mai a nessuno. Chi avrebbe potuto comprenderla? Fortunatamente, mentre giaceva al buio senza poter dormire, ogni tanto abbandonava i suoi pensieri, distratta dalla stranezza dell’ambiente in cui si trovava. Fu un bene per lei aggrapparsi alle cose materiali, altrimenti il suo cuoricino di bimba non avrebbe potuto sopportare un tormento cosí atroce. Mentre le ore passavano, però, Sara si rendeva conto a stento di avere un corpo, e aveva un solo pensiero fisso nella mente: «Il papà è morto! Il papà è morto!»

Solo molto piú tardi prese piena coscienza dell’incubo di quella notte interminabile: il letto era duro e lei continuava a rigirarsi, nel vano tentativo di trovare una posizione comoda; l’oscurità sembrava piú profonda del solito e il vento ululava sul tetto, fra i comignoli, con un gemito lugubre. Ma c’era ancor di peggio: nei muri, dietro i tramezzi, si udiva correre, raspare e squittire. Sara sapeva di che cosa si trattava, perché Becky gliene aveva parlato: erano i topi che lottavano o giocavano. Un paio di volte le parve di sentire un rumore di zampette sul pavimento e quando, in seguito, ripensò a quella notte, ricordò di essersi messa a sedere sul letto, tremante, e di essersi poi di nuovo sdraiata, ficcando la testa sotto la coperta.

La sua vita non cambiò a poco a poco, ma di colpo.

– Bisogna che accetti immediatamente la sua nuova condizione, – aveva raccomandato Miss Minchin a Miss Amelia. – Deve sapere subito che cosa la aspetta.

La mattina dopo Mariette partí e Sara, passando davanti a quello che era stato il suo salotto, vide dalla porta aperta che tutto era diverso: i ninnoli e gli oggetti preziosi erano spariti e la stanza era stata trasformata in una camera per un’altra allieva, con un letto in un angolo.

Quando scese a colazione, vide che il suo posto, accanto a Miss Minchin, era occupato da Lavinia. La direttrice le parlò con freddezza.

– Oggi comincerà a svolgere i suoi nuovi compiti, Sara, – disse. – Si sieda alla tavola delle piú piccole e faccia in modo che stiano buone, si comportino bene e non sprechino il cibo. Sarebbe dovuta scendere molto prima. Lottie ha già rovesciato il tè.

Questo fu solo l’inizio: giorno dopo giorno, le sue incombenze si moltiplicarono. Doveva insegnare il francese alle piccine e far loro ripetere le lezioni delle altre materie, ma questo era il lavoro piú lieve. Ben presto, infatti, le furono affidati incarichi di ogni genere: la mandavano fuori per le commissioni a tutte le ore e con qualsiasi tempo e le ordinavano di occuparsi di quello che gli altri non volevano fare. La cuoca e le cameriere, in perfetto accordo con Miss Minchin, si divertivano a comandare a bacchetta la ragazzina che prima era al centro di tutte le attenzioni. Spesso non svolgevano bene il loro lavoro ed erano sgarbate e irascibili, perciò si rallegravano di avere a portata di mano qualcuno su cui scaricare tutte le responsabilità.

Durante i primi due mesi della sua nuova vita, Sara pensava che se si fosse sforzata di fare del proprio meglio e avesse accettato in silenzio i rimproveri, le persone che la maltrattavano si sarebbero addolcite un poco. Orgogliosamente, voleva dimostrare che stava cercando di guadagnarsi da vivere e non accettava la carità altrui. A un certo punto, però, dovette prendere atto che nessuno cambiava atteggiamento nei suoi confronti: piú disponibile e mansueta era, piú le domestiche e la cuoca diventavano tiranniche ed esigenti.

Se Sara avesse avuto qualche anno in piú, Miss Minchin le avrebbe fatto insegnare alle «grandi», risparmiando lo stipendio di un’educatrice, ma finché era cosí piccola, era meglio utilizzarla come tuttofare. Una sguattera qualsiasi non sarebbe stata cosí sveglia e affidabile: Sara poteva svolgere anche gli incarichi piú difficili e delicati, come andare a pagare i conti, ma sapeva anche spolverare e riordinare le stanze in modo impeccabile.

Anche i suoi studi appartenevano ormai al passato: non le insegnavano piú nulla, e solo dopo una lunga ed estenuante giornata passata a correre di qua e di là per obbedire agli ordini di tutti, le permettevano, con riluttanza, di andare in aula a studiare da sola su qualche vecchio libro.

«Se non ripasso quello che ho imparato, dimenticherò tutto, – pensava. – Sono una specie di sguattera, ma se diventassi anche ignorante mi ridurrei come la povera Becky. Potrei davvero scordarmi quel che ho studiato, cominciare a fare errori di grammatica e non sapere piú che Enrico VIII ha avuto sei mogli».

Ma l’aspetto piú singolare della sua nuova esistenza erano i rapporti con le altre allieve. Non solo Sara non era piú la reginetta: sembrava che non fosse nemmeno piú una di loro. Era sempre impegnata con il lavoro, tanto che raramente riusciva a parlare con le antiche compagne, e Miss Minchin favoriva in ogni modo il suo isolamento.

– Non voglio che parli con le alunne e abbia delle amiche, – diceva la direttrice. – Le ragazzine tendono a esagerare; se Sara comincia a raccontare le solite storie romantiche su di sé passerà per l’eroina perseguitata, e questo farà una cattiva impressione sui genitori delle altre. Preferisco che stia in disparte, come le si conviene. Le ho dato un tetto, e questo è già molto piú di quello che poteva aspettarsi da me.

Sara non si aspettava nulla, ed era troppo orgogliosa per cercare di mantenere un’amicizia con bambine che erano evidentemente imbarazzate e perplesse nei suoi riguardi. In realtà, le allieve di Miss Minchin erano per lo piú mediocri e prosaiche: cresciute nella ricchezza e negli agi, quando videro i vestiti di Sara farsi sempre piú corti e logori e si accorsero che si precipitava fuori con le scarpe bucate tenendo al braccio la sporta della spesa ogni volta che la cuoca aveva bisogno di qualcosa, cominciarono a considerarla come una domestica.

– E pensare che era la padrona della miniera di diamanti! – commentò Lavinia. – Ora sembra proprio una serva, ed è sempre piú strana. Non mi è mai piaciuta, ma adesso non sopporto quel suo modo di guardarti senza dire nulla, come se volesse scrutarti dentro.

Quando le riportarono queste parole, lei rispose: – È proprio per questo che osservo le persone; mi piace conoscerle e comprenderne il carattere.

Certamente Sara si risparmiava molte noie evitando di avvicinare Lavinia, sempre pronta a umiliare quella che era stata la reginetta della scuola. Sara, invece, non voleva far torto né dare fastidio a nessuno, lavorava come un uomo di fatica, girando per le strade fangose con pacchi e ceste, o lottando contro la pigrizia delle piú piccole durante le ripetizioni di francese. Quando il suo vestito divenne troppo frusto e il suo aspetto troppo derelitto, le fu ordinato di mangiare in cucina. A nessuno importava niente di lei, e il suo povero cuoricino fiero soffriva sempre piú. Eppure, non confessò a nessuno le sue angosce.

«I soldati non si lamentano, – pensava stringendo i denti, – e nemmeno io mi lamenterò. Fingerò di essere in guerra».

Qualche volta, però, non ce l’avrebbe fatta a sopportare tutto questo, se non ci fossero state tre persone.

Innanzi tutto, naturalmente, c’era Becky. In quella prima notte trascorsa in soffitta, Sara aveva provato un vago conforto al pensiero che dall’altra parte del muro in cui i topi si azzuffavano e squittivano ci fosse un’altra ragazzina. Nelle notti seguenti, quel senso di sollievo si accrebbe. Durante il giorno le due bambine non potevano parlarsi, perché ognuna doveva svolgere il proprio lavoro e se le avessero sorprese a scambiare due chiacchiere le avrebbero accusate di poltrire e perdere tempo.

– Non si offenda, signorina, se le parlo poco educatamente, – mormorò Becky la prima mattina. – Vorrei dirle «per favore» e «grazie», ma non posso prendermi il tempo di farlo, e poi ci sgriderebbero.

Però, ogni giorno all’alba, prima di scendere ad accendere il fuoco in cucina, Becky scivolava silenziosamente nella soffitta di Sara per offrirle i suoi servigi, per esempio aiutandola ad abbottonarsi il vestito. E tutte le sere Sara udiva bussare timidamente alla porta: era la sua piccola cameriera che veniva di nuovo a chiederle se avesse bisogno di qualcosa.

All’inizio Sara si sentiva troppo triste per fare conversazione, cosí passò un po’ di tempo prima che cominciassero a vedersi regolarmente. D’altronde, Becky sentiva in fondo al cuore che era meglio non intromettersi nella sua sofferenza.

La seconda nel terzetto delle consolatrici fu Ermengarda, ma prima accaddero dei fatti piuttosto singolari.

Quando Sara cominciò a risvegliarsi alla vita, si accorse di avere dimenticato l’esistenza di Ermengarda. Eppure erano state buone amiche, per quanto Sara si considerasse assai piú matura di lei, che era tanto limitata di mente quanto generosa di cuore. Ermengarda le si era affezionata sinceramente ma anche per necessità, facendosi ripetere le lezioni, ascoltandola e chiedendole di raccontarle delle favole, ma non aveva niente di interessante da dire, perché detestava i libri. In effetti, non era una persona di cui ci si potesse ricordare in un momento di grande dolore, e Sara si era scordata di lei, anche perché all’improvviso i suoi genitori l’avevano portata a casa per qualche settimana.

Una volta tornata, Ermengarda non vide Sara per un giorno o due, poi la incontrò nel corridoio mentre portava di sotto un mucchio di biancheria da aggiustare: un altro lavoro, il rammendo, che aveva dovuto imparare a fare. Era pallida, quasi irriconoscibile, e portava il solito abitino logoro che le scopriva le gambe magre.

Ermengarda, lenta come sempre nel comprendere le situazioni, non sapeva come comportarsi né che cosa dire. Naturalmente era al corrente dell’accaduto, ma non aveva mai immaginato che Sara potesse ridursi cosí, al punto di sembrare una serva. Le dispiaceva molto per lei, però non riuscí a fare altro che una risatina isterica e una domanda del tutto assurda: – Oh, Sara, sei proprio tu?

– Sí, – rispose lei, mentre uno strano pensiero le attraversava la mente, facendola arrossire. Con il mento appoggiato sulla pila della biancheria per tenerla ben ferma, fissò Ermengarda dritto negli occhi.

Qualcosa nel suo sguardo confuse ancor di piú Ermengarda, e di colpo le parve di trovarsi di fronte una sconosciuta. Forse perché improvvisamente Sara era diventata povera e adesso era costretta a rammendare e a lavorare come Becky?

– Come… come stai? – balbettò.

– Non lo so, – disse Sara. – E tu, come stai?

– Io… io sto bene, – fece Ermengarda, sopraffatta dalla timidezza. Poi cercò disperatamente di dire qualcosa di meno banale. – Sei… sei molto infelice? – chiese d’un fiato.

E Sara allora fu ingiusta. Tormentata dalla sofferenza, pensò che fosse meglio stare alla larga da una persona cosí stupida.

– Tu che dici? – replicò. – Credi che sia molto felice? – e se ne andò senza aggiungere altro.

Piú tardi si rese conto che se il dolore non l’avesse accecata, avrebbe saputo che non si poteva biasimare la povera Ermengarda perché era cosí goffa e lenta di comprendonio. Era sempre impacciata, e quando si commuoveva lo diventava ancor di piú.

Ma la reazione di Sara era dovuta al pensiero che aveva avuto poco prima, vedendo Ermengarda. «È come tutte le altre, – si era detta. – Non vuole parlarmi, perché sa che nessuno lo fa».

Cosí, per alcune settimane ci fu una barriera fra loro. Quando si incontravano, Sara guardava altrove ed Ermengarda era troppo imbarazzata per parlare; a volte si scambiavano un cenno con la testa, ma di solito non si salutavano nemmeno.

«Se preferisce evitarmi, – pensava Sara, – mi terrò alla larga da lei. Del resto, è proprio quello che vuole Miss Minchin».

Infatti, la direttrice fece in modo che le due bambine si incrociassero a malapena. Tutti si accorsero però che Ermengarda diventava sempre piú sciocca e aveva un’aria sempre piú svogliata e triste. Spesso si accoccolava nel vano di una finestra a guardare fuori, senza dire una parola.

Un giorno Jessie, passando, si fermò a domandarle incuriosita: – Perché piangi, Ermengarda?

– Non sto piangendo, – rispose lei con voce tremante.

– Sí che piangi, – ribatté Jessie. – Ti è appena caduto un lacrimone dalla punta del naso, ed ecco che ne arriva un altro!

– Va bene, – disse Ermengarda, – sono infelice. Lasciami stare –. Poi le voltò la schiena e nascose la faccia nel fazzoletto.

Quella sera, quando Sara salí nella soffitta, era piú tardi del solito. Aveva dovuto lavorare finché le allieve non erano andate a dormire, e dopo era rimasta a leggere nell’aula deserta. Giunta in cima alla scala, fu stupita di vedere un filo di luce trapelare da sotto la porta.

«Nessuno entra mai qui, – pensò, – eppure qualcuno ha acceso una candela».

Ed era proprio cosí, ma la luce non proveniva dal rozzo candeliere della cucina che usava Sara, bensí da uno di quelli eleganti delle camere delle alunne. La bimba che l’aveva accesa se ne stava seduta sullo sgabello sbilenco, avvolta in una lunga camicia da notte, con uno scialle rosso sulle spalle. Era Ermengarda.

– Ermengarda! – esclamò Sara, cosí sorpresa da essere quasi spaventata. – Ti metterai nei pasticci!

Ermengarda saltò giú dallo sgabello, ciabattando nelle pantofole troppo grandi, con gli occhi e il naso rossi di pianto.

– Sí, lo so… passerò dei guai se mi scoprono, – disse, – ma non m’importa… me ne infischio. Oh, Sara, per piacere, dimmi che cosa c’è! Perché non mi vuoi piú bene?

Sara si commosse sentendo il tono sincero e affettuoso della sua voce, lo stesso che Ermengarda aveva quando le aveva chiesto di diventare amiche. Sembrava che volesse cancellare l’atteggiamento incerto che aveva avuto nelle ultime settimane.

– Ma certo che ti voglio bene, – rispose Sara. – Vedi… ora tutto è diverso, e credevo che anche tu… fossi cambiata.

Ermengarda spalancò gli occhi inondati di lacrime.

– No, tu sei cambiata! Non vuoi parlarmi, e io non so che cosa fare. Sei tu che sei diversa, da quando sono ritornata.

Sara rifletté per qualche istante e si rese conto di avere sbagliato.

– Sí, sono diversa, – spiegò, – ma non nel senso che credi tu. Miss Minchin non vuole che le bambine parlino con me, e infatti la maggior parte di loro non mi rivolge piú la parola. Allora ho pensato che… forse… anche tu facevi come loro. Per questo cercavo di evitarti.

– Oh, Sara! – gemette Ermengarda, sgomenta.

Dopo essersi scambiate uno sguardo, corsero ad abbracciarsi. Per un po’ la testolina bruna di Sara rimase appoggiata sullo scialle rosso: solo ora si rendeva conto di quanto si fosse sentita sola credendo che Ermengarda l’avesse abbandonata.

Si sedettero per terra. Ermengarda se ne stava avvolta nel suo scialle, guardando con ammirazione lo strano visetto dai grandi occhi di Sara, che teneva le ginocchia strette fra le braccia.

– Non ce la facevo piú, – disse Ermengarda. – Penso che tu possa vivere senza di me, Sara, ma io non posso stare senza di te. Mi sembrava di morire. Cosí, stasera, mentre ero a letto e piangevo, mi è venuta l’idea di sgattaiolare fin quassú e chiederti se volevi essere ancora la mia amica.

– Tu sei migliore di me, – rispose Sara. – Io sono troppo orgogliosa e non ti avrei mai chiesto di riannodare la nostra amicizia. Vedi? Sono stata messa alla prova e ho dimostrato di non essere buona. Temevo che sarebbe successo. Forse, – aggiunse aggrottando la fronte con aria saggia, – è proprio per questo che mi sono state inviate tante sofferenze.

– Io non ci vedo niente di buono, – replicò Ermengarda con decisione.

– A dire il vero nemmeno io, – ammise Sara, – ma probabilmente in ogni avvenimento c’è qualcosa di buono, anche se non lo vediamo. Forse, – concluse in tono dubbioso, – c’è del buono anche in Miss Minchin.

Ermengarda si guardò intorno con curiosità mista a timore.

– Sara, credi che potrai vivere qui?

Lo sguardo di Sara fece il giro della stanza.

– Sí, se faccio finta che tutto sia diverso, – rispose, – oppure che questa sia la scena di una favola.

Parlava lentamente, mentre la sua immaginazione si risvegliava. In quel periodo di grande sofferenza la sua fantasia si era spenta, lasciando Sara come inebetita.

– Molte persone hanno vissuto in luoghi assai peggiori. Pensa al conte di Montecristo rinchiuso nella torre del castello d’If o ai prigionieri della Bastiglia!

– La Bastiglia! – sussurrò Ermengarda, guardandola affascinata. Grazie ai suggestivi racconti dell’amica, le vicende della rivoluzione francese si erano ormai impresse nella sua memoria. E chi altri sarebbe riuscito a ottenere un simile risultato?

Negli occhi di Sara brillò una luce ben nota.

– Sí, – disse, continuando a stringersi le ginocchia fra le braccia, – ecco che cosa devo immaginare. Da molti anni sono prigioniera nella Bastiglia e nessuno piú si ricorda di me; Miss Minchin è il mio carceriere e Becky, – un lampo affettuoso le balenò nello sguardo, – Becky è la mia compagna di cella.

Quando si voltò verso Ermengarda, sembrava di nuovo la Sara di un tempo.

– Fingerò che sia cosí, – continuò, – e mi sarà di grande conforto.

Ermengarda era incantata e impressionata.

– E me lo racconterai? – domandò. – Posso venire in punta di piedi, di notte, quando non ci sarà pericolo di essere scoperta, per ascoltare le storie che inventerai durante il giorno? E saremo ancora piú amiche di prima?

– Sí, – rispose Sara annuendo. – Gli amici si vedono nelle avversità. Le mie sofferenze ti hanno messo alla prova e hanno dimostrato la tua bontà.