L’ultima del terzetto fu Lottie. Troppo piccola per capire che cosa fossero le avversità, era sconcertata dai mutamenti avvenuti nella vita della sua mammina adottiva. Aveva sentito dire che a Sara era successo qualcosa di strano, ma non capiva perché fosse cosí diversa, indossasse un vecchio abito nero e andasse in classe solo per insegnare, invece di sedersi al solito posto d’onore a seguire le lezioni. C’erano stati molti chiacchiericci fra le piú piccine, quando avevano scoperto che Sara non occupava piú le stanze dove una volta Emily faceva bella mostra di sé. Ma quel che piú disorientava Lottie era il fatto che Sara rispondesse appena quando le si rivolgeva la parola. Come spiegare chiaramente a una bimbetta di sette anni degli avvenimenti cosí misteriosi?

– È vero che adesso sei molto povera? – aveva domandato a Sara la prima volta che era andata a dare lezioni di francese alle piccole. – È vero che sei povera come una mendicante? – Posando la manina grassottella su quella di Sara e sbarrando gli occhioni lucidi, aveva aggiunto: – No, non voglio che tu sia povera come una mendicante!

Stava per scoppiare a piangere, e Sara si era affrettata a consolarla.

– I mendicanti non hanno un posto dove vivere, – aveva detto coraggiosamente, – ma io ce l’ho.

– E dove abiti? – aveva insistito Lottie. – In camera tua c’è un’altra bambina, e la stanza non è piú bella come prima.

– Dormo in un’altra camera.

– È carina? Voglio vederla.

– Non parlare, – disse Sara. – Miss Minchin ci sta guardando e si arrabbierà con me, se ti lascio chiacchierare.

Ormai Sara sapeva di essere ritenuta responsabile di tutto quello che non andava: se le alunne non stavano attente, se parlavano o erano irrequiete, era lei a essere rimproverata.

Ma Lottie era una personcina risoluta: decise che se Sara non voleva dirle dove dormiva, in qualche modo l’avrebbe scoperto da sé. Lo chiese alle compagne della sua età, gironzolò intorno alle grandi per ascoltare i loro pettegolezzi e alla fine, sulla base di alcune informazioni che queste si erano lasciate sfuggire, un pomeriggio partí per un viaggio di esplorazione e, arrampicandosi su una scala di cui non conosceva l’esistenza, arrivò alla soffitta. Lí si trovò di fronte due porte, ne aprí una e vide la sua amata Sara in piedi su un vecchio tavolo, che guardava da una finestra.

– Sara! – gridò inorridita. – Mamma Sara!

Era sbalordita: quella soffitta spoglia e squallida sembrava lontanissima dal resto del mondo, come se per arrivarci le sue gambette avessero salito centinaia di scalini.

Al suono della sua voce, Sara si voltò, spaventata. Che cosa sarebbe successo, ora? Se Lottie si fosse messa a piangere e qualcuno l’avesse sentita, erano perdute. Saltò giú dal tavolo e si precipitò verso la piccola.

– Non piangere e non fare rumore, – implorò. – Se ti sentono mi puniranno, e sono stata sgridata già tante volte, oggi. Non… non è una camera cosí brutta, Lottie.

– Davvero? – farfugliò Lottie, guardandosi intorno e mordicchiandosi le labbra.

Per quanto viziata fosse, era cosí affezionata a Sara che, per il suo bene, si sforzò di controllarsi. D’altronde, era certamente possibile che qualunque posto abitato da Sara alla fine si rivelasse bello.

– E perché non è una brutta camera? – sussurrò.

Sara la strinse forte a sé, cercando di sorridere. Era confortante avere accanto quella bimba cicciottella: aveva avuto una giornata dura e quando era arrivata Lottie lei stava guardando dalla finestra con le lacrime agli occhi.

– Perché di qui si vedono molte piú cose che dalle finestre dei piani di sotto, – rispose.

– E quali sono queste cose? – domandò Lottie, con la solita curiosità che Sara riusciva sempre a suscitare in tutte le bambine, comprese le piú grandi.

– I comignoli qui intorno, con il fumo che esce e sale piano in cielo, i passerotti che saltellano e cinguettano come se stessero chiacchierando fra loro, e le finestre delle altre soffitte, dove ogni tanto appare una testa e puoi divertirti a indovinare di chi sia. Quassú ti senti cosí in alto che sembra di essere in un altro mondo.

– Voglio vedere! – esclamò Lottie. – Tirami su!

Sara la sollevò fin sul tavolo ed entrambe si appoggiarono al davanzale della finestra.

Chi non ha mai guardato giú da un abbaino non può sapere quanto sia diverso il mondo, visto da lassú. Sul tetto spiovente i passerotti zampettavano e cinguettavano tranquilli, senza paura, come se fossero a casa: due di loro si azzuffavano sul comignolo piú vicino, finché uno riuscí a scacciare l’altro, che volò via. La soffitta della casa accanto era chiusa, perché non ci abitava nessuno.

– Mi piacerebbe che ci vivesse qualcuno, – disse Sara. – È cosí vicina che, se ci stesse una bambina, potremmo parlare e anche farci visita da una finestra all’altra, se non avessimo paura di cadere.

Lottie guardava incantata il cielo, che da lí sembrava molto piú vicino che dalla strada. Da quella finestra fra i comignoli tutto ciò che accadeva in basso aveva un’aria irreale, e il rumore delle ruote delle carrozze sul selciato della piazza giungeva attutito, come se provenisse da un’altra dimensione. Era quasi incredibile che sotto di loro esistessero una scuola, una Miss Minchin e una Miss Amelia.

– Oh, come mi piace questa soffitta! – esclamò Lottie, stringendosi ancor di piú all’amica. – È bellissima, ed è molto meglio che stare di sotto!

– Guarda quel passerotto, – bisbigliò Sara. – Vorrei avere qualche briciola da dargli.

– Ce l’ho io! – rispose Lottie con un gridolino. – Ho un pezzetto di pandolce in tasca, l’ho comprato ieri e ne ho tenuto un pochino da parte.

Appena gli gettarono le briciole, l’uccellino volò dietro un comignolo: evidentemente, non aveva amici nelle soffitte e non si fidava troppo di quel cibo inaspettato. Mentre Lottie rimaneva immobile, Sara cominciò a fischiettare piano, cercando di imitare il cinguettio del passerotto, finché questo capí che non volevano fargli male ma offrirgli un regalo. Allora inclinò la testolina, guardando le briciole dal suo rifugio con occhi scintillanti di desiderio. Lottie non stava piú nella pelle.

– Verrà qui? Verrà? – sussurrò.

– Sembra proprio che voglia farlo, sta cercando di farsi coraggio, – mormorò Sara di rimando. – Sí, eccolo!

L’uccellino volò giú dal comignolo e saltellò verso le briciole, fermandosi a poca distanza, con la testolina di nuovo inclinata, quasi stesse considerando la possibilità che Lottie e Sara fossero due grossi gatti pronti a balzare su di lui. Alla fine il suo cuoricino gli suggerí che quelle due creature non dovevano essere terribili come sembravano, cosí si avvicinò lentamente, afferrò con una rapida beccata la briciola piú vicina e se la portò via, tornando a nascondersi dietro il comignolo.

– Ora ha capito e tornerà a prendere le altre, – disse Sara.

Infatti tornò, portando con sé anche un amico. Subito l’amico andò a chiamare un parente, e tutti e tre fecero un vero banchetto, cinguettando fra loro come se chiacchierassero e fermandosi di tanto in tanto per osservare le bambine.

Lottie era cosí contenta da dimenticare la brutta impressione che sulle prime le aveva fatto la soffitta, specialmente quando, scese dal tavolo e tornate alla realtà, Sara le illustrò le molte attrazioni della stanza, fino a quel momento sconosciute anche a lei.

– È un posticino cosí piccolo e cosí in alto che sembra di essere in un nido su un albero. Guarda com’è buffo il soffitto in pendenza: da questa parte non si può nemmeno stare dritti, tanto è basso. E quando fa giorno, dal mio letto vedo il cielo attraverso l’abbaino: è come un quadrato luminoso. Se il tempo è bello, ci sono delle nuvolette rosa cosí vicine che mi pare di poterle toccare; se piove, le gocce picchiettano sul vetro come se volessero dirmi tante cose gentili. E di notte, se ci sono le stelle, posso starmene qui sdraiata a contare quelle che brillano nel mio quadratino di cielo: ce ne sono tantissime! E guarda la grata del caminetto, laggiú nell’angolo: se fosse lucida e ci fosse il fuoco, pensa come sarebbe bella! Perciò, è davvero una camera graziosa, non credi?

Girava per la soffitta tenendo Lottie per mano e descrivendole tutte le bellezze che immaginava di vedere. Ma Lottie le vedeva davvero, perché credeva sempre ai racconti di Sara.

– E poi, – continuò Sara, – sul pavimento potrebbe esserci un bel tappeto indiano, soffice e azzurro; in questo angolo un piccolo sofà con tanti cuscini comodi su cui appoggiarsi, e sopra una mensola piena di libri che si possono prendere senza alzarsi; una pelle di tigre davanti al fuoco; una tappezzeria e dei quadretti sulle pareti, piccoli ma deliziosi; una lampada con il paralume rosa; qui in mezzo, un tavolo con un servizio da tè e sul caminetto un bollitore panciuto con l’acqua che borbotta. Anche il letto potrebbe essere diverso: morbido e con una bella trapunta di raso. Sarebbe proprio una camera meravigliosa. E forse potremmo coccolare i passerotti finché diventerebbero nostri amici e verrebbero a bussare alla finestra con il becco, chiedendo di entrare.

– Oh, Sara, – esclamò Lottie, – come mi piacerebbe vivere quassú!

Ma Sara la convinse a tornare nella sua camera e, dopo averle indicato la strada, rientrò nella soffitta e rimase in piedi a guardarsi intorno. L’incanto che la sua immaginazione aveva creato per Lottie era già svanito: davanti ai suoi occhi c’erano il letto duro e la coperta sbiadita, i muri scrostati, il pavimento nudo e freddo, la grata del caminetto arrugginita, e l’unico posto dove accomodarsi era lo sgabello sgangherato. Sara vi sedette, tenendosi la testa fra le mani per qualche minuto. Ora che Lottie se n’era andata, tutto le pareva piú tetro e desolato, proprio come a un carcerato la prigione sembra piú triste dopo la partenza dei visitatori.

«Com’è squallido, – pensò. – È il posto piú squallido del mondo».

In quel momento un lieve rumore attirò la sua attenzione, e Sara alzò la testa per vedere da dove provenisse. Se fosse stata una bambina paurosa, sarebbe schizzata via dallo sgabello: un grosso topo se ne stava seduto per terra, annusando l’aria con grande attenzione. Forse il profumo del pandolce di Lottie l’aveva attirato fuori dal nido.

Sembrava uno gnomo con i baffi grigi, ed era cosí buffo che Sara ne rimase affascinata. L’animaletto la guardava con gli occhi brillanti, come se volesse domandarle qualcosa. Vedendo il suo atteggiamento titubante, un pensiero bizzarro attraversò la mente di Sara.

«Dopo tutto, non è certo piacevole essere un topo, – si disse. – Tutti ti detestano, e se ti vedono scappano gridando: “Brutta bestia!” Non mi piacerebbe che le persone urlassero: “Brutta Sara” e fuggissero di fronte a me, per poi prepararmi delle trappole con un bel bocconcino. È molto meglio essere un passerotto! Ma nessuno ha chiesto a questo topo, quando è stato creato, se voleva nascere topo o preferiva essere un passerotto».

Mentre rifletteva, Sara era completamente immobile, tanto che il topo prese coraggio. Aveva ancora molta paura di lei, ma forse, come il passerotto, era convinto nel suo cuoricino di non avere a che fare con una creatura pericolosa. Inoltre, aveva fame, e nel nido lo aspettava una famiglia numerosa, che negli ultimi giorni era riuscito a nutrire a stento. Quando li aveva lasciati, poco prima, i piccoli strillavano affamati, ed era disposto a correre qualsiasi rischio per portare loro qualche briciola. Cosí, piano piano, si tirò su.

– Vieni, – bisbigliò Sara, – non sono una trappola. Puoi prenderti le briciole, poverino. I prigionieri della Bastiglia vivevano in buona armonia con i topi. E se diventassimo amici, noi due?

Come facciano a capire le cose gli animali, non si sa, ma di certo capiscono. Forse c’è un linguaggio muto che tutti gli esseri comprendono; forse in ogni creatura vivente c’è un’anima che può parlare alle altre anime senza emettere alcun suono. Comunque sia, il topo si rese conto che non correva pericoli: quella bambina seduta sullo sgabello rosso non sarebbe balzata su strillando, né gli avrebbe lanciato un oggetto pesante che l’avrebbe ucciso, o quanto meno lo avrebbe fatto tornare zoppicante al suo nido.

Era davvero un buon topino, e non aveva la minima intenzione di fare del male a Sara: mentre la guardava con i suoi occhietti vispi, sperava che lei lo capisse e non lo trattasse come un nemico. Quando, grazie al misterioso linguaggio che non ha bisogno di parole, si accorse che Sara era innocua, raggiunse lentamente le briciole e cominciò a mangiarle, lanciandole un’occhiata ogni tanto, proprio come aveva fatto il passerotto, con un’aria cosí umile che la bambina ne fu commossa.

Sara rimase seduta, senza muovere un dito. C’era una briciola molto piú grossa delle altre, tanto che non si poteva nemmeno definire una briciola, ed era chiaro che il topo la guardava con desiderio, ma siccome era proprio accanto allo sgabello, non osava avvicinarsi.

Sara pensò: «Di sicuro vorrebbe portarla alla sua famiglia, là nel nido dietro il tramezzo. Se sto ferma, forse verrà a prenderla».

Era talmente concentrata su quella scena da respirare appena. Il topo avanzò ancora un poco e mangiò qualche altra briciola, poi si fermò, annusò l’aria e guardò la creatura seduta sullo sgabello. Alla fine si avventò sulla briciola con la stessa fulminea audacia del passerotto e, non appena l’ebbe presa, fuggí rapido verso il muro, s’infilò in una fessura e scomparve.

«Sapevo che l’avrebbe portata ai suoi piccoli, – si disse Sara. – Credo davvero che lui e io potremmo fare amicizia».

Circa una settimana dopo, in una delle rare sere in cui Ermengarda riuscí a sgattaiolare di sopra senza rischiare di essere scoperta, quando bussò piano piano alla porta della soffitta, Sara la fece aspettare qualche minuto prima di aprirle. Il silenzio era assoluto, ed Ermengarda pensò che l’amica stesse dormendo. Poi, però, con sua grande sorpresa, la sentí ridere sommessamente e parlottare con dolcezza.

– Tieni, – diceva. – Prendila e torna a casa da tua moglie, Melchisedec.

Subito dopo aprí la porta e vide sulla soglia Ermengarda, che la fissava allarmata.

– Con chi… con chi parlavi? – farfugliò.

Sara la fece entrare con cautela, ma aveva un’espressione compiaciuta e divertita.

– Promettimi che non ti spaventerai e non ti metterai a gridare, altrimenti non te lo dico, – rispose.

Ermengarda già cominciava ad avere voglia di strillare, però riuscí a controllarsi. Frugò con lo sguardo in ogni angolo della soffitta ma non vide nessuno. Eppure, poco prima Sara stava parlando… forse con i fantasmi?

– C’è… c’è qualcosa che mi farà paura? – domandò intimorita.

– Qualcuno ne ha paura, – disse Sara. – All’inizio ne avevo anch’io, ma ora non piú.

– È un fantasma? – chiese Ermengarda rabbrividendo.

– No, – rise l’altra, – è il mio topo.

Con un solo balzo, Ermengarda atterrò nel bel mezzo del letto e si avvolse i piedi nella camicia da notte, coprendoseli anche con lo scialle rosso. Non gridò, ma ansimava terrorizzata.

– Oh! Oh! – annaspò. – Un topo! Un topo!

– Immaginavo che ti saresti spaventata, – disse Sara, – ma non devi. Lo sto addomesticando: ormai mi conosce e quando lo chiamo arriva subito. Vuoi vederlo o ti fa troppa paura?

Il fatto è che, con il passare dei giorni e con l’aiuto degli avanzi di cucina, la loro strana amicizia era diventata sempre piú stretta, e Sara aveva quasi dimenticato che quella timida creatura cui si era ormai affezionata non era altro che un topo.

Per un po’ Ermengarda continuò a essere allarmata e rimase rannicchiata sul letto con i piedi nascosti, ma poi, vedendo l’espressione tranquilla di Sara mentre le raccontava il primo incontro con Melchisedec, finí con l’incuriosirsi. Piano piano, si affacciò dall’orlo del letto per sbirciare l’amica inginocchiata vicino alla fessura nel muro.

– Non… non scapperà fuori all’improvviso per saltare sul letto, vero? – domandò.

– No, – rispose Sara, – è molto educato, proprio come un essere umano. Guarda!

Fece un fischio sommesso, cosí basso che si udiva a malapena, e lo ripeté piú volte, tutta assorta. Ermengarda credeva di assistere a un incantesimo. Finalmente, in risposta a quel richiamo, dalla crepa spuntò un musetto aguzzo, con i baffi grigi e piccoli occhi vivaci. Sara aveva in mano qualche briciola; appena le lasciò cadere a terra, Melchisedec si fece avanti con circospezione e le mangiò, poi prese il pezzetto piú grosso e, svelto svelto, se lo portò a casa.

– Vedi, – commentò Sara, – l’ha preso per sua moglie e i suoi cuccioli. È molto premuroso, mangia solo i pezzetti piú piccoli. Quando torna nel nido sento gli squittii di gioia della sua famiglia, e dal tono differente riconosco quelli della signora Melchisedec, dei topini e i suoi.

Ermengarda scoppiò a ridere.

– Oh, Sara, come sei strana! – esclamò. – Ma sei anche buona.

– Lo so che sono strana, – ammise allegramente lei, – e cerco di essere buona –. Si passò una mano sulla fronte, mentre un’ombra tenera e malinconica scendeva sul suo visino. – Il papà mi prendeva sempre in giro per le mie stranezze; pensava che fossi stravagante, ma gli piacevano le storie che inventavo. Non posso fare a meno di fantasticare… altrimenti, credo che non riuscirei a vivere –. S’interruppe, lanciando un’occhiata intorno a sé. – Di certo non potrei vivere qui, – aggiunse a bassa voce.

Come sempre, Ermengarda, la ascoltava interessata.

– Quando racconti le tue favole, sembrano vere, – disse, – e parli a Melchisedec come se fosse una persona.

– Infatti lo è, – replicò Sara. – Ha fame e paura, proprio come noi; è sposato e ha dei figli. E chi ci dice che non abbia i nostri stessi pensieri? I suoi occhi hanno uno sguardo umano, ecco perché gli ho dato un nome.

Sedeva sul pavimento nella sua posizione preferita, con le ginocchia strette fra le braccia.

– E poi, – proseguí, – è un topo della Bastiglia ed è venuto per fare amicizia con me. Riesco sempre a prendere un pezzettino di pane che la cuoca butta via, ed è piú che abbastanza per sfamare lui e la sua famiglia.

– Ancora la Bastiglia? – intervenne Ermengarda con ardore. – Fai sempre finta di essere alla Bastiglia?

– Quasi sempre, – rispose Sara. – Qualche volta provo a immaginare un altro posto, ma la Bastiglia è meglio, specialmente quando fa freddo.

All’improvviso Ermengarda sobbalzò, cadendo quasi dal letto: aveva sentito chiaramente il rumore di due colpetti sul muro.

– Che cos’è? – disse.

Sara si alzò dal pavimento e rispose in tono drammatico: – È la prigioniera della cella accanto.

– Becky! – esclamò Ermengarda estasiata.

– Ascolta… Due colpi significa: «Ci sei, prigioniera?»

In risposta, batté tre volte sul tramezzo, spiegando: – Questo vuol dire: «Sí, ci sono e va tutto bene».

Dall’altra parte del muro si udirono quattro colpi.

– E questo significa: «Allora, compagna di sofferenze, dormiremo tranquille. Buonanotte».

Sul viso di Ermengarda si dipinse un sorriso raggiante.

– Oh, Sara, è come una favola! – sussurrò tutta contenta.

– Ma lo è davvero, – rispose Sara. – Tutto è una favola: tu, io e anche Miss Minchin!

Poi tornò a sedersi per terra e continuò a parlare e raccontare. Ermengarda dimenticò di essere a sua volta una specie di prigioniera evasa, finché Sara le ricordò che non poteva rimanere tutta la notte alla Bastiglia, ma doveva tornare furtivamente di sotto e infilarsi zitta zitta nel letto che aveva abbandonato.