Il pomeriggio seguente, tre membri della Grande Famiglia sedevano nella biblioteca del signore indiano, facendo del loro meglio per rallegrarlo. Li aveva invitati lui perché gli facessero compagnia; in quei giorni, infatti, era sempre molto agitato e ora aspettava con ansia il ritorno del signor Carmichael da Mosca. Il padre della Grande Famiglia si era trattenuto là piú del previsto perché al suo arrivo non era riuscito a rintracciare le persone che cercava; poi, quando le aveva trovate e si era recato a casa loro, aveva saputo che erano partite per un viaggio, aveva tentato invano di raggiungerle e alla fine aveva deciso di attendere il loro ritorno.

Il signor Carrisford era nella solita poltrona; accanto a lui, per terra, sedeva Janet, che era la sua preferita, mentre Nora si era accomodata su uno sgabello. Donald se ne stava sul tappeto di pelle di tigre, a cavalcioni sulla testa, e si divertiva a fingere di galoppare, a dire il vero piuttosto rumorosamente.

– Non fare baccano, Donald, – lo ammoní Janet. – Vicino a un malato non si deve gridare. Facciamo troppa confusione, signor Carrisford, non è vero? – domandò poi, rivolgendosi al padrone di casa.

Lui le diede un colpettino affettuoso su una spalla e rispose: – No, non preoccuparti. Cosí almeno mi distraete dai miei pensieri.

– Ora farò il bravo, – strillò Donald. – Staremo tutti buoni buoni come dei topolini.

– Infatti i topi non fanno tutto questo chiasso, – ribatté Janet.

Donald si fabbricò una briglia con il fazzoletto e riprese a cavalcare la testa della tigre con grande entusiasmo.

– Ma se fossero tanti topolini, sí che lo farebbero. Mille, per esempio! – esclamò allegramente.

– Nemmeno cinquantamila topi riuscirebbero a fare il fracasso che fai tu, – lo sgridò Janet in tono severo. – E noi dobbiamo essere silenziosi come un topo solo.

Il signor Carrisford rise e le diede un’altra pacca affettuosa sulla spalla.

– Il papà arriverà fra poco, – disse lei. – Possiamo parlare un po’ della bambina che non si trova?

– Penso proprio che in questo momento non riuscirei a parlare d’altro, – rispose lui passandosi stancamente una mano sulla fronte.

– Noi le vogliamo tanto bene, – intervenne Nora, – e la chiamiamo «la piccola principessa che non è una fata».

– E perché? – domandò il signor Carrisford. Si divertiva molto ascoltando le fantasie dei bimbi della Grande Famiglia, che riuscivano sempre a fargli dimenticare per un po’ le sue preoccupazioni.

Fu Janet a rispondere.

– Perché, anche se non è proprio una fata, quando l’avremo trovata diventerà ricca come la principessa di una fiaba. Infatti, all’inizio la chiamavamo «la fata principessa», ma poi non ci sembrava il nomignolo piú adatto.

– È vero che il suo papà ha dato tutto il proprio denaro a un amico perché lo mettesse in una miniera di diamanti e che l’amico, credendo di averlo perduto tutto, è fuggito come un ladro? – chiese Nora.

– Ma sai bene che non era un ladro, – si affrettò a precisare Janet.

Il signore indiano le strinse la mano.

– No, non lo era affatto, – disse.

– Mi dispiace tanto per quell’amico, – proseguí Janet. – Non so perché, ma continuo a pensarci. Di sicuro non voleva farlo, e gli si sarà spezzato il cuore.

– Sei una donnina davvero intelligente, Janet, – disse il signor Carrisford, continuando a stringerle la mano.

– Hai raccontato al signor Carrisford, – intervenne Donald strillando, – che la «bambina che non è una mendicante» ha dei bei vestiti nuovi? Forse anche lei era stata perduta e ora qualcuno l’ha ritrovata.

– C’è una carrozza! – esclamò Janet. – Si sta fermando davanti alla porta. È il papà!

I tre bimbi corsero alla finestra.

– Sí, è lui, – confermò Donald. – Ma la bambina non c’è.

Tutti e tre uscirono correndo e si precipitarono all’ingresso per gettarsi fra le braccia del padre, saltellando, battendo le mani e riempiendolo di baci.

Il signor Carrisford tentò di alzarsi ma ricadde pesantemente nella poltrona.

– Non ce la faccio, – mormorò. – Sono ridotto a un rottame!

La voce del signor Carmichael si avvicinava sempre piú.

– No, bambini, – diceva, – potrete entrare dopo che avrò parlato con il signor Carrisford. Andate a giocare con Ram Dass.

Subito dopo la porta si aprí e il padre della Grande Famiglia entrò. Aveva il colorito ancor piú roseo del solito e diffondeva un’aria di freschezza e salute, ma il suo sguardo tradiva la delusione quando incontrò gli occhi del malato, in cui si leggeva una muta, ansiosa domanda. I due uomini si strinsero la mano, poi il signor Carrisford chiese:

– Ci sono novità? Che mi dice della bambina adottata dai russi?

– Non è quella che cerchiamo, – rispose Carmichael, – è molto piú piccola della figlia del capitano Crewe e si chiama Emily Carew. L’ho vista e le ho parlato, e i russi mi hanno dato tutte le informazioni su di lei.

Di colpo, il signor Carrisford parve oppresso da un’infinita stanchezza e lasciò andare la mano dell’amico.

– Allora dovremo ricominciare da capo. Non c’è altro da fare, – disse sconfortato. – La prego, si accomodi.

L’avvocato si sedette. A poco a poco si era affezionato sempre piú a quell’uomo cosí infelice, anche perché, essendo sano, sereno e circondato dall’amore, la solitudine e la tristezza gli sembravano mali insopportabili. Se in quella casa fosse risuonata un’allegra vocina infantile, tutta quella desolazione sarebbe certo svanita. E quel pover’uomo, come poteva continuare a vivere cosí, torturato dal pensiero di avere tradito e abbandonato una bambina?

– Su, su, – riprese, sforzandosi di assumere un tono allegro, – la troveremo!

– Dobbiamo riprendere le ricerche subito, senza perdere tempo, – si agitò Carrisford. – Lei non ha qualche idea, un suggerimento qualsiasi?

Il signor Carmichael parve turbato. Si alzò e si mise a camminare su e giú per la stanza con un’espressione pensosa e inquieta.

– Forse sí, – rispose, – anche se non so quanto possa valere. Ci stavo pensando sul treno, mente venivo qui da Dover.

– La prego, mi dica. Se la bimba è viva, deve pur essere da qualche parte.

– Certamente. Ma dove? Abbiamo setacciato tutte le scuole di Parigi. Ora lasciamo perdere Parigi e proviamo a Londra. Ecco la mia idea: cercare a Londra.

– Ci sono molte scuole a Londra, – disse Carrisford. Poi trasalí a un pensiero che gli era passato per la mente. – Fra l’altro, ce n’è una proprio qui accanto.

– Allora cominceremo da lí, dato che è cosí vicina.

– In questo collegio c’è una bambina che mi interessa, ma non è un’allieva ed è una creaturina misera e derelitta, non ha la piú vaga rassomiglianza con il povero Crewe.

Forse in quel momento la magia, la splendida magia, era di nuovo all’opera. E che cos’altro avrebbe potuto portare Ram Dass nella stanza proprio mentre il suo padrone stava parlando? Il domestico s’inchinò rispettosamente, senza però riuscire a nascondere lo sguardo commosso ed emozionato dei suoi brillanti occhi neri.

– Sahib, – disse, – c’è la bambina, quella per la quale il Sahib ha provato tanta pietà. È venuta a riportare la scimmia, che è di nuovo scappata e si è rifugiata nella sua soffitta. L’ho pregata di aspettare, pensando che il Sahib avrebbe avuto piacere di vederla e di parlarle.

– Chi è? – domandò Carmichael.

– E chi lo sa! – rispose Carrisford. – È quella di cui le stavo parlando, una servetta della scuola –. Fece un cenno con la mano a Ram Dass. – Sí, la vedrò con piacere. Falla entrare. – Poi si rivolse all’avvocato. – Mentre lei era a Mosca mi sentivo disperato, – spiegò. – Le giornate erano cosí lunghe e buie… Ram Dass mi ha descritto la triste condizione di questa bambina e insieme abbiamo escogitato un piano piuttosto avventuroso per aiutarla. Mi rendo conto che è una cosa puerile, ma è servita a distrarmi. Certamente, senza l’aiuto di un orientale agile e silenzioso come Ram Dass non avrei potuto fare niente.

In quel momento Sara entrò tenendo fra le braccia la scimmietta, la quale sembrava non avere la minima intenzione di separarsi da lei e se ne stava aggrappata al suo collo, borbottando. Sara aveva le guance arrossate per l’emozione di trovarsi alla presenza del signore indiano.

– La sua scimmietta è scappata un’altra volta, – disse con la sua vocina dolce. – Ieri sera è venuta a grattare al mio abbaino e io l’ho fatta entrare perché faceva un gran freddo. L’avrei riportata subito, se non fosse stato cosí tardi. So che lei non si sente bene e non volevo disturbarla.

Il signor Carrisford la osservava con curiosità.

– Sei stata molto gentile, – rispose.

Sara guardò Ram Dass, in piedi vicino alla porta.

– Devo consegnarla al lascaro? – domandò Sara.

– Come fai a sapere che è un lascaro? – replicò Carrisford sorridendo.

– Conosco bene i lascari, sono nata in India, – spiegò Sara mentre porgeva a Ram Dass la scimmietta riluttante.

Il signore indiano si raddrizzò cosí bruscamente e con un’agitazione tale che per un attimo Sara si spaventò.

– Davvero sei nata in India? Vieni qui! – esclamò tendendole la mano.

Sara gli porse la sua, poi rimase immobile a fissarlo con i grandi occhi verdi, sconcertata.

– Abiti qui accanto? – le chiese lui.

– Sí, nel collegio di Miss Minchin.

– Ma non sei un’allieva?

Le labbra di Sara s’incresparono in uno strano sorrisetto. Dopo qualche istante di esitazione, rispose: – Non saprei dire con precisione quello che sono.

– E perché?

– Prima ero un’allieva interna, ma ora…

– Eri un’allieva? E ora che cosa sei?

Lo strano, triste sorrisetto aleggiò di nuovo sul visino di Sara.

– Ora dormo nella soffitta, accanto alla sguattera, – spiegò. – Faccio le commissioni per la cuoca… e tutto quello che mi ordinano di fare. E insegno anche il francese alle scolare piú piccole.

– La interroghi lei, Carmichael, – disse Carrisford, afflosciandosi come se avesse perso tutte le forze, – io non ce la faccio.

Il rubizzo padre della Grande Famiglia sapeva come comportarsi con le bambine; Sara se ne rese subito conto quando le parlò con voce dolce e incoraggiante.

– Che cosa intendevi, bimba mia, quando hai detto: «Prima»? – domandò.

– Quando il mio papà mi portò qui.

– E dov’è il tuo papà?

– È morto, – rispose piano Sara. – Aveva perso tutto il suo denaro e non mi ha lasciato nulla. Non c’era nessun altro che potesse occuparsi di me o pagare la retta a Miss Minchin.

– Carmichael! – gridò improvvisamente Carrisford. – Carmichael!

– Non dobbiamo spaventarla, – gli sussurrò subito l’avvocato. Poi si rivolse di nuovo a Sara, a voce alta: – E cosí ti hanno mandata a vivere in soffitta e ti hanno fatto fare la serva, vero?

– Non c’era nessuno che potesse prendersi cura di me, non ho soldi né parenti.

– E tuo padre come ha perso il denaro? – intervenne il signore indiano con voce tremante.

– Non l’ha perso lui, – rispose Sara sempre piú stupita. – Aveva un amico al quale voleva molto bene... proprio tanto bene. È stato quell’amico a prendere i suoi soldi, perché il papà si è fidato troppo di lui.

Il respiro del signor Carrisford si faceva sempre piú affannoso.

– Forse quell’amico non aveva intenzione di fargli del male, – disse. – Forse si è tratto solo di un errore.

Sara non si rese conto del tono implacabile della sua voce, mentre rispondeva, altrimenti avrebbe certamente cercato di addolcirlo, per non turbare il signore indiano.

– Ma il mio papà ha sofferto moltissimo, e quel dolore lo ha ucciso.

– Come si chiamava tuo padre? – chiese Carrisford. – Dimmelo, per favore.

– Ralph Crewe, – fece Sara. – Capitano Crewe. È morto in India.

Il viso smunto di Carrisford si contrasse in una smorfia e subito Ram Dass si precipitò al suo fianco.

– Carmichael… – ansimò il malato, – è la bambina… la bambina!

Per un attimo Sara pensò che l’uomo stesse per morire. Ram Dass afferrò una boccetta, versò in un bicchiere qualche goccia di una medicina e la porse al Sahib. La bimba, intanto, era come pietrificata e guardava Carmichael con aria smarrita.

– Quale bambina sono? – gli domandò balbettando.

– Era lui l’amico del tuo papà –, rispose l’avvocato. – Non avere paura. Sono due anni che ti cerchiamo.

Sara si passò una mano sulla fronte, poi parlò come in sogno, con le labbra che le tremavano: – E per tutto questo tempo io ero da Miss Minchin, – disse in un sussurro, – proprio dall’altra parte del muro.