Capitolo III
Allʼuna meno dieci entrai al «Tony». Essendo un venerdì (la portinaia, allʼora di cena, mi aveva portato su un piatto del suo famoso baccalà alla vicentina) il locale era moscio. Nonostante la fiacca, tutte le entraineuse erano occupate. Ne avanzava soltanto una. Una nuova. Grassoccia. Vestita di crespo stampato a fiori grossi come cavoli. Appollaiata al bar. Sola davanti a una bibita. Per ingannare il tempo, intrecciava cerchi umidi sul banco, col fondo del bicchiere.
Appena mi fui sistemato nel solito angolo, in penombra, dal lato opposto dellʼorchestra, la solitaria si staccò dal banco e venne a sedersi vicino a me.
«Sera».
«Sera».
«Come va?».
«Come può».
Pausa. Il «Quintetto Mambo-boys» stava sonnecchiando sul filo di un tango. Un paio di coppie danzavano, strizzandosi alla disperata.
«È la prima volta che lavoro qua. Mica male!».
«Certo, cʼè di peggio».
«Sei un pessimista?».
«Sono come capita».
«E come cliente, come sei?».
«Champagne per te, whisky per me».
«Ordiniamo?».
«Già fatto».
«Sei uno che non perde tempo!».
«Perdo solo il tempo che gli altri, di solito, non perdono».
Immerse le labbra tumide, rosse geraneo, nella prima coppa. Guardandola con più attenzione, si scopriva chʼera molto più giovane di quanto dimostrava. A prima vista, le si davano trentacinque anni, forse più. Invece, doveva essere sotto la trentina. Ventisette, ventotto. Anche meno. Apparteneva, quindi, alle entraineuse dellʼultima leva. Quelle nate al tempo di Faccetta nera, divenute donne con la guerra in Corea, entrate in circolazione mentre le orchestre suonavano i primi «cia-cia-cia». Ragazze pericolose. Tenevano quasi tutte un diario. Qualcuna scriveva poesie. Mescolavano allo champagne ricordi dʼinfanzia rattristanti. Bombardamenti. Sfollamenti. Padri fascisti fucilati dai partigiani. Padri partigiani giustiziati dai fascisti. E per dimenticare tante brutte cose, bevevano. Molto. Ragazze che contribuivano generosamente alla noia crescente delle nostre notti.
«A Paris» diceva Bubù, «on les mettraient au chiot». A Parigi le metterebbero a guardare i cessi.
Questa, alla seconda bottiglia, anziché tirar fuori i ricordi di unʼinfanzia bombardata, cavò dalla borsetta una fotografia. Un bimbetto di due o tre anni, dallʼespressione spaurita, che si stringeva al cuore un orsacchiotto spelacchiato. Suo figlio.
«Il mio tesoro!» disse. «Indovina come si chiama!».
«Non saprei...».
«Prova!».
«Che so! Michele... Franco... Gianni...».
«No! Gli ho messo nome Vittorio».
«È un bel nome».
«È anche utile, col lavoro che faccio!».
«Perché?».
«Perché, staʼ a sentire. Se mostro la foto a un cliente monarchico, dico che lʼho chiamato così per via di Vittorio Emanuele. Se il cliente mi accorgo chʼè fascista, dico che ho pensato a Vittorio Mussolini. Sʼè uno di sinistra, funziona Giuseppe di Vittorio. Che ne dici?».
Non dissi niente. Sbirciai lʼorologio. La una e venti. Bubù tardava. Chissà! Forse Justine, allʼultimo momento, gli aveva fatto delle storie. «Mi pianti sempre qui, sola... Vai sempre da lui... Magari avete qualche donna...».
Era molto raro che Justine girasse lʼorganetto a Bubù. Ma qualche volta, capitava.