Capitolo IV

Alla mezza, ecco Bubù. Era in «tenuta da moglie». Doppio petto blu. Quello che nella mala si chiama «tappo montato». Cravatta sangue di bue. Un rettangolo di fazzoletto affacciato al taschino. Largo alone di lavanda. Trentacinque anni. Ottantasei chili. Un metro e ottantasette. Spalle a due piazze. Bubù.

Avanzò a piccoli passi, con un lieve molleggiare delle ginocchia. Torace spalancato. Mani abbandonate sulle cosce. Depositò uno sguardo poco amichevole sullʼentraineuse. Si guardò un momento attorno. Spinse avanti il labbro inferiore, carnoso, in una smorfia di disgusto. Si rilassò nella poltrona alla mia sinistra. Accennò col pollice alla ragazza, strizzò le palpebre e mi soffiò:

«Il y a une affaire particulière».

Aveva qualcosa da dirmi a quattr’occhi. Roba delicata. La ragazza doveva sloggiare.

«Ti dispiace lasciarci soli, figliola?».

«Figurati! Per me...».

Adocchiò furtivamente la bottiglia rimasta a metà.

«Pòrtatela pure via. Finiscila in pace».

Si strinse nelle spalle e si portò il secchiello a un tavolo libero.

«Allora?» feci. «Qualche grana con Justine?».

Negò con un cenno del capo. Poi, senza muovere le labbra, proprio come i «durs» marsigliesi di rue Paradis, spremette dallʼangolo della bocca una sola parola:

«Cassandrà».

«Ah! Cosa le succede? È nei guai?».

Annuì con aria grave, e mi spiegò «la machine». Quattro sere prima, Gino il Meccanico e i soliti «loffi» che gli tenevano mano, avevano incontrato Cassandrà dalle parti di Loreto. La disgraziata andava in giro come una sonnambula. Smaniava. Si torceva le mani. Batteva i denti. Piangeva e rideva. Attaccava bottone con tutti. Balbettava che se qualcuno non le dava subito un pizzico di polvere, andava difilato a buttarsi in una roggia. Non ne poteva più. Era piena di crampi. Insomma, non era mai stata così a terra. Qualsiasi «enfant de vie», veramente tale, avrebbe chiamato unʼautoambulanza per farla ricoverare al «neuro». Bastava una telefonata anonima. Invece, il Meccanico e i suoi compagni sʼerano comportati da quelle «scartine» che erano.

«Bene!» aveva detto il Meccanico, strizzando lʼocchio ai compari. «Se vieni con noi, ti diamo tutta la sniffa che vuoi!».

Lei, poveraccia, aveva abboccato. Non era in condizioni da mettere avanti dei «se» e dei «ma». Così, la portarono in una baracca, fra le ortaglie di Viale Zara. Le rifilarono un poʼ di bicarbonato e stettero a guardare, sghignazzando, con che avidità lo tirava su. Poi, Gino il Meccanico, facendo il muso da boia, le aveva detto:

«Volevi la polvere e lʼhai avuta. Ora, però, te ne stai qua dentro, senza piantar grane, finché vogliamo noi. E fa la brava, con quelli che ti mandiamo! Se non fili dritta, in una roggia ci finisci sul serio. Intesi?».

Da quel momento, non era più uscita. I manutengoli del Meccanico si erano messi a caccia di clienti. Sbarbati di periferia. Terroncelli ancora freschi di Milano e affamati di donne. Militari, mendicanti, barboni. Chiunque avesse cinquecento lire da sganciare, andava bene. Data la tariffa, affari dʼoro. Davanti alla baracca, cʼera la fila. Era un miracolo che Cassandrà, dopo quattro giorni e quattro notti di quella «routine», fosse ancora viva.

«Certo, le donne hanno una resistenza!...».