Capitolo XIX

Era uno dei miei sogni più frequenti, quando mi coricavo dopo aver bevuto più del solito. Qualcosa di mezzo fra Freud e Dalì.

Più che sdraiato, stavo incollato su un lucernaio inclinato paurosamente da tutti i lati. Provavo la sensazione logorante di scivolare giù, da un momento allʼaltro. Sotto di me, in trasparenza, una stanza. Al centro di essa, il quadrato verde di un tavolino da gioco. Attorno al tavolino, quattro giocatori intenti a una partita di poker. Giocatori insoliti: una bottiglia, un fiasco, una damigiana e un telefono di tipo antiquato. Massiccio, nero, funereo. Piatto di parola. Due re, come minimo, per aprire. La bottiglia guardò appena le carte e passò. Il fiasco, dopo un istante di perplessità, la imitò. La damigiana, dopo averci pensato su, fece altrettanto. Il telefono, ultimo a parlare, aprì. Avrebbe voluto dire «cip». Invece fece «drin».

E quel drin continuò a squillare. A intervalli regolari. Sempre più insistente e perentorio. Non aveva più niente a che fare col sogno. Era il telefono vero, sul mio comodino, che strillava come un ossesso. Un telefono che non mi era familiare, e che perciò dovevo cercare a lungo, vagando con la mano nel buio. Quanto ad accendere la luce, non tentavo neppure. Neppure un medium avrebbe rintracciato il minuscolo pulsante annidato nella complicata ghirlanda di bronzo che sosteneva lʼabat-jour.

Finalmente, brancolando, incontrai la cornetta. Alla mia destra, nelle tenebre, la segheria di marmi annidata nel gargarozzo di Bubù era in pieno lavoro.

«Pronto?».

«Allò, my bean!».

Mio fagiolo. Era lʼamericana. Come tutti gli altri telefonieri notturni, attaccò subito a parlare, senza prendere fiato. Anche stavolta, andò avanti per un paio di minuti. Afferrai, come al solito, soltanto tre parole. Sempre le stesse: sorry (spiacente), sugar-tongs (mollette per lo zucchero) e penance (penitenza). Chissà come riuscivano a stare assieme.

Lʼamericana chiuse bruscamente. Dopo di che, a intervalli fra il quarto e la mezzʼora, si susseguirono gli altri. La francese, col suo balbettio impastato, da ubriaca. Il tipo con lʼerre moscia, quasi certamente drogato, che recitava versi di Ovidio e di Catullo, scandendoli correttamente. La tizia dalla voce lamentosa, che, perlomeno, aveva un nome. Infatti, ripeteva in continuazione: «Chicco, cattivone, perché trascuri così la tua piccola Lola?».

Eravamo a Roma da tre giorni. Non avevamo ancora preso il ritmo dellʼalba. Al massimo, andavamo a letto verso le tre. Dalle tre e mezza alle cinque, arrivavano, da chissà dove, quelle telefonate fantomatiche. Dirette a uno che non cʼera. Il conte Francesco (Chicco) Durant del Frantore, chʼera partito in comitiva per Positano, mettendoci a disposizione il suo superattico di quattordici vani. Due ore dopo averci conosciuti.

Quelle telefonate allucinanti erano il prezzo dellʼospitalità. Di mia esclusiva pertinenza. Bubù, sprofondato nel suo sonno inaccessibile, continuava a ronfare.