Capitolo XXIII

Le scritte pubblicitarie e le insegne splendevano, come grandi gioielli, ai due lati di Via Veneto. Scivolai giù, verso il Tritone. Mi sentivo leggero. Assaporavo il piacere di andarmene, così, da solo, per i fatti miei. Dopo tutto, i pensieri che potevo dividere con Bubù, non erano i soli che avessi.

Natale si stava avvicinando. Molto diverso da quello di Milano. Più caldo, ma meno caloroso. Meno importante, nella storia dellʼanno. Con meno cappotti, ma anche meno favole.

Mi soffermai davanti a una vetrina incandescente, piena di giocattoli. Diedi unʼocchiata alle ultime novità. Mi colpirono le armi. Mitra che sembravano veri. Pistole di tutti i tipi. Riprodotte con sorprendente fedeltà, fino ai minimi particolari. Con uno di quei «ribattini» di plastica, un tipo dalla grinta convincente avrebbe potuto benissimo fare una rapina. Per associazione dʼidee, mi venne in mente la spedizione alla Mocolosa, la notte di Cassandrà. Rividi la faccia pietrificata di Gino il Meccanico e gli occhi traboccanti di paura dei suoi soci. Sembrava già una storia lontanissima. Sospesa fra il sogno e la realtà.

Poi, lo sguardo mi cadde su una Colt 38, a tamburo, modello corto. Una «bulldog». Il vetrinista, forse intenzionalmente, per giocare sul contrasto, lʼaveva sistemata fra le gambotte rosee di una bambola dallʼaria spaventata. Lʼaccostamento, bambola-Colt, sovrappose, di colpo, al ricordo della Mocolosa, unʼavventura giovanile di Bubù. Quando, a diciotto anni scarsi, sentendosi nella tasca posteriore dei pantaloni il peso eccitante della prima Colt, sʼera imbarcato sul decrepito misto «marchandises e passegers» delle Messageries Maritimes, in servizio fra Marsiglia e Tunisi. Insieme a lui, che aveva un vistoso lutto al risvolto della giacca, sʼera imbarcata una giovane donna in gramaglie, dolente e silenziosa, la quale si stringeva al seno, con gelosia quasi feroce, un orfanello di pochi mesi, tutto occhi. Una finta vedova, con un finto orfanello, noleggiato in un angiporto della Corderie, che fingeva di tornare dai suoi, accompagnata da un finto fratello minore. Bubù. Un terzetto commovente e insospettabile: che, tuttavia, appena sbarcato a Tunisi, filò diritto a fare la «consigne». Due chili di «polvere». Zero-zero. Roba extra. «Made in Germany». Sarebbe bastato che un «flic» di dogana intingesse la punta dellʼindice nella grossa scatola di borotalco «Délice du bebé», e poi si fosse dato una linguatina sulla punta del dito...

«Pas possible!» diceva Bubù, a chiusura del racconto. «Se i “pied-plats” non rispettano più le vedove e gli orfani, dove andiamo a finire! Voyons!».

Tirai dritto, di buon passo, giù per Via del Tritone. Lʼaria sʼera fatta più pungente. Camminando, tendevo lʼorecchio a un confuso clamore, che mi arrivava da chissà dove. Voci, canti stonati, rulli di tamburo, squilli di tromba.

Che roba era? Poi, improvvisamente, ricordai di aver visto, appiccicati sui muri, qua e là, i manifesti che annunciavano il Raduno Nazionale dei Bersaglieri in Congedo. Non potevano essere che loro. A chiusura del convegno, stavano facendo unʼultima galoppata per le vie della città. Giovani, anziani, vecchi, qualche vegliardo che si lasciava sostenere a malincuore. Tutti a passo di corsa. Piume al vento. Cameratesco passamano di fiaschi, per le bevute volanti. Fanfara in testa. Qualcosa del genere, doveva essere capitato, certamente, anche la sera del 20 settembre 1860. Per festeggiare la Breccia di Porta Pia e l’imbronciata resa di Pio IX.

Entrai nella vecchia birreria, alle spalle di Piazza Colonna, dove quel tale che cercavo era solito cenare sul tardi, da una ventina d’anni. Caso strano, non c’era. S’era visto la sera prima.

«Provi alle “Grotte del Piccione”, dottò!» mi consigliò un chitarrista dal naso paonazzo fra gli occhi spenti. «Polʼesse che stà lì».

Non lo trovai neppure alle «Grotte del Piccione».

«Peccato!» fece la guardarobiera. «Era qui mezzʼora fa. Sʼè affacciato un momento alla sala e se nʼè andato. Può darsi che ricapiti più tardi. Lui è fatto così. Va e viene. Altrimenti, faccia un salto alla farmacia notturna di Piazza San Silvestro. So che il commendatore va a misurarsi la pressione quasi tutte le sere...».

Niente, neppure in farmacia. Già che cʼero, la pressione me la misurai io. 150. Regolare. Per quanto l’apparecchio, per essere sinceri, avesse bisogno di una controllata.

Lʼorologio pubblicitario del cachet «Calmamal» faceva le undici e mezza.

«Va un poʼ avanti», mʼinformò, onestamente, il farmacista.

Rinunciai alle ricerche. Presi un taxi e mi feci portare in Via Veneto.