Capitolo XXVI

In Via Frattina e in Largo Chigi sʼilluminarono gli addobbi natalizi. A parte i soliti piovaschi improvvisi e dispettosi, che coglievano i passanti alla sprovvista e cessavano di colpo, il clima corrispondeva, più o meno, a quello di un buon marzo milanese.

Nel salone centrale della pensione Morfei era comparso un minuscolo abete di plastica, cosparso di lucciole bianche e azzurre, che si accendevano e si spegnevano a rotazione. Il signor Tommasoni, proprietario della pensione, era un cinquantenne, loquace ed attivo, che sapeva fare di tutto. Specialmente in fatto di elettricità. In gioventú, era stato impiegato di banca. Ogni volta che un cliente gli presentava un assegno, lo scrutava, girandolo e rigirandolo da tutte le parti, con una punta di sorriso, come per dire: «Se non è più che regolare, sei cascato bene, bello mio!».

Bubù era nervoso. Dopo la baruffa col bersagliere, in Via Veneto, la bruna Almavera gli aveva dato, sì, tre o quattro appuntamenti serali, ma stando piuttosto sulle sue. Si controllava sul bicchiere. Evitava i balli «touche-touche». Non rientrava in albergo mai più tardi delle due, quando la serata cominciava a riscaldarsi.

«Tu sais!» spiegava Bubù, con unʼalzata di spalle. «Chaque médaille a son revers! Le fa piacere stare con un ragazzo che quando è il momento sa farsi rispettare. Ma è in una posizione delicata. Ha paura di essere mischiata in qualche altra bagarre. Coi tipi che ci sono in giro, qualcosa può sempre capitare!».

Bubù sapeva stare al suo posto con le donne. Ma quando ingranava, non era tipo da accontentarsi di fare lʼ«accompagnateur» platonico. Quindi, era deciso a chiudere la parentesi brasiliana. «Doucement». Come si conviene a uno che sa vivere.

Ma il nervosismo di Bubù, rivelato da brusche insofferenze e da pesanti mutismi, aveva unʼaltra ragion dʼessere. Lui evitava di parlarne, ma era chiaro. Justine non sʼera ancora fatta viva.

Prima di partire da Milano, avevamo incaricato Giulio il Bambino di tenerla dʼocchio, senza che lei mangiasse la foglia. Lui ci doveva mandare due righe, di tanto in tanto, per tenerci al corrente della situazione. A parte le mosse di Justine, gli avevamo raccomandato di riferirci i commenti che avevano fatto seguito alla nostra partenza, nel giro dellʼ«après-minuit», al «Tony» e negli altri covi della notte milanese.

Giulio Fabbiani, detto il Bambino, rispettava la consegna. Ogni quattro o cinque giorni, ci spediva una cartolina postale col suo rapportino. Poche parole. Stile telegrafico, ma chiaro ed esauriente.

«Cari amici. Fronte J. soliti movimenti. Passeggiate con cagna. Sarta. Parrucchiere. Cinema pomeriggio con amica piano sotto. Fatto cambiare colletto pelliccia cappotto. Fronte notte, lʼaltro ieri, allo “Shangai”, Nino il Fulista detto: “Sunt andà a Roma a puliss i scarp della m... chʼhan pistà chi”. La Giusy e la Lory vi pensano e vi mandano molti bacioni. Allegri! Vostro affezionato G.».

«Cari amici. Ieri la J. è andata dal dentista. Guancia un poʼ gonfia. Fastidi al ponte. Andata con lei amica piano sotto. Pomeriggio J. passata da tappezziere Braga (Via Canonica) e chiesto preventivo cambiare carta muri appartamento. Vuole più chiara. Fronte notte, solite balle. Lʼaltra sera, “Marocco”, Franchino Calcina dato sberla Tino del Verziere che sparlava vostre spalle. Franchino sempre in linea! La Renata della “Tavernetta” manda bacione speciale. Allegri! Vostro G.».

Questo, più o meno, era il tono dei bollettini che ci spediva, regolarmente, il nostro informatore. Lʼunico allarmante era stato il primo. Lo avevamo trovato, come dʼaccordo, alle ferme in posta, tre o quattro giorni dopo il nostro arrivo a Roma.

«Cari amici. Eccomi a voi secondo promessa. Ieri mattina J. andata agenzia Alitalia Largo Cairoli e chiesto orario Parigi...».

Evidentemente, Justine pensava sul serio di tornarsene dai suoi, in Francia, come aveva minacciato. Leggendo il laconico messaggio del Bambino, Bubù aveva cercato, inutilmente, di nascondere la propria inquietudine, assumendo unʼespressione mineralizzata, da «dur à cuire».

«Forse, faresti meglio a fare un salto a Milano...» avevo azzardato.

«Coupe court!» era saltato su lui, con troppa precipitazione, per uno veramente tranquillo. «La conosco! Se ne starà a Milano! E poi, se parte, tant pis pour elle! Il mondo è abbastanza grande per tutti e due! Voyons!».

Ma era rimasto sulla corda. Finché i rapporti del Bambino, che non avevano mai più toccato il tasto di Parigi, lo avevano completamente rassicurato. Si trattava soltanto del solito braccio di ferro. Non essere il primo a mollare. Ormai, durava da un mese. Ma nessuno dei due accennava a cedere.

«È lei, che deve abbassare la testa!» ripeteva Bubù, tutte le mattine, mentre vagava, quasi per fare del moto, fra la stanza da bagno e lʼarmoir. Aveva un asciugamani attorno alle reni. E, naturalmente, citava una massima di Tonton Ferrarà appropriata alla situazione.

«Homme incertain, femme rassurée».

Uomo incerto, donna sicura di sé.

Tonton! Ecco uno che non era certamente nato nella prima aiuola dell’orto!