Capitolo XXXI
Stavamo meno insieme. Ora, tutte le mattine, comprese le domeniche, mi alzavo un poʼ prima delle nove. Nonostante ciò non andavamo mai a letto prima delle tre. Questione dʼabitudine. Così, arraffavo i vestiti dalla sedia, a occhi chiusi, e uscivo dalla pensione col cervello intorpidito. Bubù continuava a ronfare come un compressore, girato sul fianco destro, le braccia sistemate in modo complicato sotto il cuscino. Se dovevo comunicargli qualche cosa, anziché svegliarlo, gli lasciavo un messaggio, bene in vista, sulla mensola di vetro del lavabo. Fra il bottiglione di lavanda e la lozione acidula per drizzare i peli della barba, prima di falciarli col rasoio elettrico. I due armadietti laterali, erano pieni zeppi di flaconi, scatolette, astucci, tubi e fiale. Tutto ciò che Bubù riteneva indispensabile alla toilette di un «ragazzo presentabile».
Verso le nove e mezza, ero alla macchina da scrivere. Accanto a me, ben ravviato col suo blocco dʼappunti e un raccoglitore a molla che si andava riempiendo un poʼ per giorno, sedeva Geo Pasquali. Lavoravamo in una specie di salotto che Tappara aveva messo a nostra disposizione. Gli uffici della «Cinetap» occupavano due piani di una villa stile primo novecento, biancheggiante al centro di un giardino trascurato. Lì di fronte, correva il muro di cinta, rossastro, di Villa Torlonia. Cento metri più in là, vi era la casa dove un tempo aveva abitato Claretta Petacci. Da una di quelle finestre, la vestale del regime littorio aveva spesso contemplato Mussolini, intento a lavori di giardinaggio.
Tutto lʼinsieme, metteva addosso una vaga angoscia. Ricordava le vestaglie trasparenti di Francesca Bertini. I tè malinconici sorseggiati da Pina Menichelli. Le disperazioni mute e i contorcimenti sentimentali sfornati, mezzo secolo fa, dalla «Cines», dalla «Pittaluga» e dalla «Caesar».