Capitolo XXXIII
Una mattina, verso la fine dʼaprile, Bubù trovò un espresso nel vassoio della colazione. La busta, di un viola pallido, profumava vagamente di mughetto. Mi bastò intravedere lʼindirizzo, per riconoscere la calligrafia grossa e infantile di Justine.
Bubù diede unʼocchiata alla busta e la mise da parte, ostentando noncuranza. In realtà, era emozionato. Dal Gianicolo, arrivò la cannonata sorda di mezzogiorno. Quella mattina, dopo essermi alzato tutti i giorni alle otto, per circa due mesi, potevo finalmente starmene a letto, a pigreggiare. Avevo finito giusto il giorno prima di lavorare con Geo Pasquali.
Bubù, taciturno, imburrava accuratamente i suoi panini, dopo averli tagliati a metà. Una volta imburrati, con altrettanta cura, li spalmava di marmellata di albicocca. Lʼespresso era lì, sul comodino, come dimenticato. Per Justine, nellʼindirizzo, la pensione Morfei era diventata Morphei.
«Allora!» feci dopo un poʼ. «Perché non leggi cosa dice?».
«Che fretta cʼè? Lei è stata cinque mesi con le spalle voltate, e io ora dovrei buttarmi sulla sua lettera, come uno che crepa di sete si butta sulla borraccia?».
«Che discorsi! Anche tu lʼhai schienata per cinque mesi. Avete fatto il braccio di ferro. Volevi che fosse lei, la prima a cedere. Ha ceduto. La partita è chiusa».
«Tiens! Sarà chiusa, ma mi resta ancora sullo stomaco la storia del sedere».
«Che sedere?».
«Quando lei mi ha gridato che non potevo fare il cinema, perché avevo un sedere troppo grosso, per farlo stare nello schermo. Una che vuole bene davvero, certi discorsi sul fisico non li tira fuori! Voyons!».
«Ma va là, Bubù! Lascia perdere. Quando due bisticciano, sputano un sacco di cose che non pensano. Dà retta a me. Chiudi la partita e apri lʼespresso!».
Masticò qualche parola incomprensibile, poi prese la lettera dal comodino. La fissò per qualche istante, indeciso. Quindi lʼaprì col manico del cucchiaino. Dentro cʼera soltanto una fotografia. Sul retro, cʼera scritto qualcosa.
«Ti ha mandato la sua foto?» chiesi.
«Tò!» fece lui, passandomi il cartoncino. «Regardes ça!».
Non era la foto di Justine. Era la foto di Kasbà, la canina.
Di Justine si vedeva soltanto la mano che teneva il guinzaglio. Kasbà, accucciata, guardava davanti a sé, la bocca ansimante, la lingua tutta fuori, le lunghe orecchie che toccavano quasi lʼasfalto. Dietro, Justine aveva scritto:
«A son maître inoubliable, avec nostalgie, Kasbà».
«Se lʼè cavata in modo molto carino», dissi. «Non pare anche a te?».
Borbottò qualcosa, allungando la mano per riprendere la foto. Le diede ancora unʼocchiata, rilesse la dedica, la rimise nella busta e la posò sul comodino. Faceva ancora lʼindifferente ma aveva gli occhi un poʼ lucidi.
«Nel pomeriggio, passiamo alla “Cosmoflor” e le facciamo mandare un mazzo di rose», feci. «Passano lʼordine per telefono ai loro corrispondenti di Milano e glielo consegnano entro un paio dʼore».
Si limitò a unʼalzata di spalle. Buttò le gambe fuori dal letto. Andò nel bagno, da dove mi giunse il gorgoglio dei suoi laboriosi gargarismi. Tornò, scelse un vestito nellʼarmadio, si vestì. Tutto senza mezza parola. Soltanto quando fummo per le scale, mi disse:
«Niente rose, mon vieux! Cosa vuoi che se ne faccia delle rose, Kasbà?».
«Cosa cʼentra Kasbà?».
«Come, cosa cʼentra? Nella foto cʼè lei, sì o no?».
«Beʼ, sì. E con ciò?».
«Bon! La dedica, dietro la foto, è firmata da Kasbà, sì o no?».
«Sì».
«E allora se bisogna mandare qualcosa a Milano, è a lei che va mandato. Cʼest clair!».
Così, per pima cosa, passammo da «Tutto per Fido», in Via Condotti, e comprammo un collare dorato, cosparso di cristalli sfavillanti. Sedicimila lire.
«Bisogna attaccarci una medaglietta», spiegò Bubù. «E sulla medaglietta bisogna scriverci “A Kasbà en souvenir de Bubù”».
«Scusi», fece la padrona del negozio, perplessa. «Non capisco bene. Cosʼè? Un cane che manda un collare a un altro cane?».
«Che discorsi sono?» disse Bubù, accigliato. «Sono io, che mando questo collare alla mia cagna! Cosa cʼè da non capire?».
«Niente, niente, per carità», fece la padrona. «Sa! Ho sentito Bubù...».
«Ebbè? Sono io Bubù! Perché? È proibito che uno si chiami Bubù?».
«Ma no! Si figuri! Anzi, è carino».
«Et alors? Anche se non fosse carino, cʼè qualcosa da ridire?».
«Per lʼamor dʼIddio! Scusi tanto!».
Bubù, imbronciato, scarabocchiò in un pezzo di carta lʼindirizzo di Milano. Gettò sul banco due carte da diecimila e agguantò il resto.
«Incroyable!» bofonchiò, quando fummo per la strada. «Uno sgancia sedici sacchi per un collare, senza fare una piega, e si sente anche fare delle storie per via del nome. Quelle espèce de gens!».