Capitolo XXXVI
Giugno ci arrivò addosso caldissimo e inclemente. In senso finanziario. Le tipiche selci quadrate che stancano i piedi delle turiste, fra Piazza di Spagna e Piazza del Popolo, cominciavano già a scottare sotto le suole. I negozi, nel pomeriggio, non si decidevano mai a riaprire. Alcuni restavano addirittura chiusi. Da pisolini digestivi, le «pennichelle» si trasformavano in dormite sudaticce.
Accanto ai taxi che si arroventavano ai posteggi, apparvero, timidamente, le carrozzelle stagionali. I vetturini ciondolavano a cassetta. I cavalli frugavano col muso nei sacchetti magrissimi. I taxisti, in attesa di caricare, facevano crocchio nelle vicine zone dʼombra.
Dal punto di vista della «grana», eravamo nei guai. I rotoli di diecimila che ci eravamo portati da Milano, erano un ricordo. Quello che avevo guadagnato commentando il documentario sugli italiani di Geo Pasquali, era finito, quasi per intero, nelle tasche di alcuni avvocati che, in quel momento, mi stavano assistendo in tre o quattro cause piuttosto «delicate». Percosse, minacce, un ferimento «derubricato» a lesioni. Tutta roba abbastanza vecchia, che si stava trascinando fra la pretura e la cassazione.
Un certo progetto che io e Pasquali avevamo esposto a Tappara, sfumò proprio sul traguardo. Il documentario di Pasquali, nonostante fosse migliore di tanti altri, andava in giro zoppicando. Era uscito in ritardo. La stagione era fiacca. I critici di sinistra, induriti dal realismo demagogico, lo avevano trovato leggero e petulante. Quelli di destra, offesi da alcune inquadrature crudeli e da certe frustate del commento, lo avevano accusato di volgarità cripto-marxista. Tappara dichiarò che se ne fregava dei critici, ma si fece guardingo. I suoi entusiasmi per Pasquali sbollirono. Pasquali, ricordandosi dʼessere sardo, lo ripagò con un freddo distacco. Lʼaffiatamento a tre, che soltanto due mesi prima sembrava destinato a grandi imprese, si squagliò al primo sole dʼestate.
Io e Pasquali, fieri ma senza lavoro, slittammo improvvisamente allʼindietro, ritrovandoci, di punto in bianco, come agli albori economici della professione. In certi momenti, avevamo la sensazione di non aver mai lavorato e di non aver mai guadagnato una lira in vita nostra. Ritornammo ai panini con la mortadella, dai quali eravamo partiti in giorni lontani. Erano lì, ad aspettarci. Con la sicurezza irritante e misteriosa che, prima o poi, saremmo tornati. Certi giorni, mettendo insieme tutto quello che avevamo, non avevamo nemmeno i soldi per lʼautobus. Ci toccava trascinare i piedi, sotto un sole pesante e beffardo, verso vaghe possibilità di lavoro, sempre più lontane dal centro, sempre meno probabili. Cammin facendo, cercavamo di consolarci masticando invettive contro Roma e i romani. Forse eravamo eccessivi. La durezza del momento ci toglieva il piacere dellʼobiettività. Ma ci rifacevamo con un altro piacere. Quello di ricordare un giudizio feroce di Stendhal: «I romani sono il popolo più allegro del mondo, perché, per essere tristi, occorre almeno un filo di speranza».
Un giorno più disperato del solito, Bubù tornò da Milano e mi portò una somma di per se stessa modestissima, ma ingigantita dalle circostanze.
Bubù era stato via circa una settimana. Sʼera deciso a andare a Milano, dopo molti dubbi e numerosi rinvii, per rappacificarsi definitivamente con Justine. Dopo la foto di Kasbà e lʼinvio del collare dorato, i due avevano ripreso gradualmente i contatti. Cartoline sempre più frequenti, lettere sempre più lunghe, telefonate sempre più costose. Mancava solo il suggello fisico. E Bubù aveva risalito lʼAutostrada del Sole per compiere lʼoperazione. Aveva approfittato della trasferta per incassare, energicamente, alcuni crediti che non eravamo riusciti a riscuotere partendo. Una boccata dʼossigeno che, respirata con giudizio, ci avrebbe permesso di arrivare almeno alla fine di luglio.
Tappara, dopo rare apparizioni, sparì dietro le quinte azzurre delle villeggiature meridionali più ambiziose. La compagnia si assottigliò. La cassiera di «Rosati» cominciò a consegnarci cartoline provenienti da Ischia, Maratea, Positano e Taormina. I più «à la page» si facevano vivi dalle Eolie. Alina Poplaska, chʼera tornata dalla Spagna con un braccio ingessato, si trovava a Panarea, in compagnia del suo amico produttore. Un gruppetto sʼera messo dʼaccordo per affittare una casa calcinata dal sole a Filicudi.
Qualcuno era rimasto in città. Un poʼ per snobismo, un poʼ per questioni di lavoro. Continuammo a trovarci, la sera, col gusto un poʼ amaro dei superstiti. Quelle riunioni a quadri ridotti, nei soggiorni spalancati alla notte e sulle terrazze stordite dal firmamento, veleggiavano attraverso conversazioni blande, che, ogni tanto, avevano unʼimpennata polemica. Qualche volta, le polemiche si accanivano. Sfioravano la «bagarre». In quei casi, lʼalba assisteva a partenze brusche e a rotture di rapporti violente quanto temporanee. Spesso, era Bubù, a provocare quei cambiamenti di atmosfera. La sua umanità carnosa non resisteva al tono salottiero delle conversazioni. Le schermaglie degli intellettuali, le allusioni cifrate e le inesperienze presuntuose, lo provocavano fino a farlo esplodere. Lui, lʼ«enfant de vie», aveva imparato a sopportare un sacco di cose poco allegre. I «passages à tabac» della polizia francese, che quando ci si mette, non scherza. I sergenti prussiani di Colomb-Béchar. La prigione, la dissenteria e le pallottole. Ma nessuno gli aveva mai insegnato a sopportare lo spaventoso vuoto dei discorsi a vuoto.