Capitolo XXXVII

Sempre più caldo. Sempre meno soldi. Il danaro cinematografico era lontano. Stava villeggiando in località nascoste. Remote. Irraggiungibili. Note soltanto a pochi iniziati.

La signora Tommasoni, proprietaria della pensione, non era più quella di prima. Quella che, in primavera, aveva lubrificato, con occhi materni, le natiche di Bubù, scorticate dalla famosa cavalcata a Villa Borghese. I suoi occhi, ora, non solo non avevano più nulla di materno, ma non erano neppure più occhi. Si erano trasformati nelle finestrine di un tassametro. Appena si posavano su di noi, lʼocchio destro segnava le decine di migliaia, quello sinistro, le migliaia e le centinaia. Pagavamo 5.000 lire al giorno, più gli extra. Ogni ora, perciò, nellʼocchio sinistro della signora, scattavano duecento lire. Notte e giorno. Tutte le mattine, incontrandola, le leggevamo nel tassametro, dietro gli occhiali aggiustati con lo spago, 5.000 lire di più. Ed eravamo in arretrato di ben tre settimane! Una certa mattina, lʼocchio destro della signora Tommasoni ebbe alcune palpitazioni luminose. Come il lampeggiatore di unʼauto in sorpasso. Era il segnale che il nostro debito aveva superato le centomila lire.

Bisognava, perciò, darsi da fare. Cercare. Tentare. Buttare qualche amo nelle acque immobili e sonnolente della capitale. Chissà! Nel grande «relax» estivo, qualche assegno, intontito dal caldo, poteva anche abboccare.

Bubù era scettico, a questo proposito. Secondo lui, fino a settembre eravamo «en zéral». Vale a dire, completamente estromessi dal giro del danaro.

«Alors!» bofonchiava il mio compagno di camera. «Faʼ conto che sentiamo bussare alla porta. En avant! diciamo noi. La porta si apre lentamente, ed entra un signore anziano, in pantofole, tutto vestito di bianco. Ha una bottiglia per mano. Ci sorride, poi dice: siccome passavo di qua per caso, mes gars, mi è venuta lʼidea di fare un salto su, a trovare Bubù e Janò. Do unʼocchiata come stanno e intanto gli porto un poʼ di vino di quello buono. Così ci parla Paolo VI, entrando. È possibile che capiti una machine di questo genere?».

«No» dico io.

«Bon! È altrettanto possibile che al tuo amo ci rimanga attaccato un assegno, in questo deserto!».

Era raro, da un paio di settimane, che Bubù parlasse tanto. Passava i tre quarti della sua giornata sdraiato sul letto, in una specie di dormiveglia sudato. Quando non fissava il soffitto, immerso in misteriose meditazioni, si sprofondava nella lettura di certi fumetti orripilanti, acquistati in continuazione. Fra lui e la realtà quotidiana (piuttosto tragica), era calato un sipario di carta stampata, pieno di pugnali, accette, gole squarciate, teste tagliate, criminali mascherati, viscere fumanti, risate agghiaccianti, stragi e amori abominevoli. Bocche crudeli e contorte dallo spasimo, esalavano nuvolette piene di clamori silenziosi e di urli in corsivo. Bubù viveva in un mondo, dove lo strepito delle armi si udiva con gli occhi. «Bang-bang!» (pistolettate), «Ta-ta-ta-ta-ta-ta» (scarica di mitra), «Aaaaaah!» (un pugnale piantato fra le scapole), «Crepa, maledetto!», «Muori, cagna!», «A te carogna!». Lʼosso del collo, spezzandosi come un grissino, faceva «Crak!». Gli annegati, inabissandosi, lasciavano alla superfide un estremo «Glu-glu-glu». E così via. La biblioteca di Bubù, accatastata sul comodino, un poʼ storta come la torre di Pisa, comprendeva titoli tuttʼaltro che rassicuranti: Diabolik, Satanik, Sadik, Kriminal, Teskius, Obutus, Sanguinal...

Bubù, rilassando i lineamenti in una maschera impassibile, visibilmente immedesimata, voltava le pagine in silenzio. Solo le efferatezze più distinte e le atrocità più spaventose riuscivano a strappargli un grugnito di soddisfazione. Il suo personaggio preferito era un tipo dalle zanne sporgenti e dalle manacce pelose, chiamato il Maciullatore. Uno che sistemava i suoi avversari (le donne in particolare) soltanto a colpi di martello. Subito dopo, veniva il professor Obitor. Una specie di scheletro, dal naso a becco, che maneggiava terribili veleni e liquidi ribollenti.

Ogni tanto, Bubù chiudeva il fumetto, tenendoci dentro un dito, e mi rivolgeva domande del genere:

«Dis-donc! Lʼacido solforico è lo stesso che in Francia si chiama mouriaton?».

«No! Il mouriaton è lʼacido cloridrico. Lʼacido solforico, invece, è il vitriol. Perché me lo chiedi?».

«Niente. È una questione di Obitor. Pas mal!».

Quanto al cinema, Bubù se ne era completamente distaccato. Come se la cosa non lʼavesse mai interessato, neppure per un momento. Per lui, ormai, era una partita chiusa. Il nome del «talent-scout» De Leonardis non riaffiorava più, nemmeno per caso, nei suoi discorsi. E avrei scommesso che se oggi o domani si fosse imbattuto in un manifesto del famoso film «Ercole contro Circe», sul quale aveva fatto assegnamento in partenza, lo avrebbe guardato con assoluta indifferenza. Senza fare una piega. Tutte le volte che gli accennavo al mondo del cinema, la sua bocca, fra due pieghe ironiche, emetteva un sordo gorgoglio. E stop.