Capitolo XLI

Il mio corpo a corpo con la sceneggiatura era duro. Le «Notti di Nerone» erano un polpettone disgustante, messo insieme a forza di luoghi comuni e di situazioni fritte e rifritte. Fra la prima e lʼultima sequenza, sfilavano, in formato economico, tutti i personaggi, le azioni e gli ambienti già sfruttati nei «supercolossi» come Quo vadis?, Fabiola e Gli ultimi giorni di Pompei. Il tutto condito con la besciamella dell’analfabetismo.

La prima didascalia precisava. «Olimpo – Esterno – Giorno». Tutte le volte che appariva Petronio, il nome dellʼArbiter era seguito da una parentesi in cui si leggeva «elegantissimo». Poppea era sempre «semidiscinta». Messalina invariabilmente «vogliosa». Tigellino immancabilmente «subdolo». Verso la metà della storia, tutti erano coinvolti in una specie di baccanale, descritto nel modo seguente:

«Grande triclinio centrale. – Triclinetti laterali. – Grossi cuscini di broccato e damasco sparsi nello spazio centrale. – Al triclinio grande vediamo, mollemente sdraiati, Nerone, Poppea (semidiscinta), Petronio (elegantissimo), Messalina (vogliosa), il centurione Tersilio e la vergine Lucilla, evidentemente affranta per trovarsi fra quegli spietati gaudenti. – Viziosi minori ai triclinetti laterali. – Tribadi, etere, gladiatori e schiavi numidi, muscolosissimi, si contorcono e si aggrovigliano sui grossi cuscini centrali. – Assistiamo al crescendo del baccanale. – Nerone lascia pendere un grappolo dʼuva sulla bocca infocata di Poppea. Poppea, mordendo il grappolo, porge a sua volta un grappolo a Tersilio che ne stacca i chicchi coi denti, mentre per conto proprio preme un grappolo sulla bocca ritrosa della vergine Lucilla. Petronio, con movenze elegantissime, sorride con aria scettica, mentre tiene sospesi due grappoli, che due baccanti, una di qua lʼaltra di là, tentano invano di addentare. Nota comica: un patrizio settantenne, buttandosi sfrenatamente su unʼetera, scivola e si rompe un femore, suscitando lʼilarità dei presenti».

Il tono della sceneggiatura era più o meno questo. Per darle unʼaggiustata, fui costretto a eliminare quintali di grappoli dʼuva, chilometri di triclini e centinaia di personaggi ebbri. Raddrizzai non so quante volte il pollice di Nerone, che non perdeva occasione per essere «verso». Mi sbarazzai di un paio di vergini ed eliminai intere partite di stoffe preziose che al tempo di Nerone nessuno si sognava ancora di tessere: damasco, broccato, raso, amoerre e velluto.

«Ti sei preso una bella gatta da pelare, mon vieux!» sogghignava Bubù, abbiosciato sul letto. Stringeva a due mani lʼultimo fascicolo di Obitor. La faccenda degli acidi, cloridrico e solforico, non lo aveva convinto.

«Il mouriaton sarà quello cloridrico, come dici tu», obiettava. «Però quella volta che Lolotte si prese in faccia una bottiglia di mouriaton da Bebè Cotornese, lo zoppo, il farmacista dei Catalans disse chʼera acide sulfurique! Io ero piccolo, allora. Ma ricordo che disse proprio così. Exactement!».

Una mosca, con ronzio improvviso, si trasferì dalla lampada allo specchio.

«Bon!» concluse Bubù, mettendosi a sedere sulla sponda del letto. «Vitriol o mouriaton, cʼest la même. Lolotte, ai Catalans, perse la vista. Le restò la faccia come una grattugia. Ciao clienti! Ma poteva andarle anche peggio. Poteva crepare sepolta viva, come Liu-Ci-San!».

«Liu-Ci-San? E chi è?».

«Una poule tonchinese che voleva fregare Obitor, in combine con una ghenga! Immaginarsi! Fregare Obitor!».

Ormai, parlava di Obitor, di Diabolik, di Kriminal e compagnia, come se fossero stati ragazzi del suo giro. Ragazzi un poʼ montati, forse. Un poʼ troppo spinti nei metodi, se vogliamo. Ma ben forniti di «kluí», come li chiamano i beduini. Vale a dire di quelle cose strettamente maschili, che per rompersi non hanno bisogno di cadere. Come diceva il vecchio capitano Pfaffer, ufficiale pagatore a Colomb-Béchar.