Capitolo XLII
Mentre io lavoravo alla pensione Morfei, il produttore Bianchi passava da una vicissitudine allʼaltra. Prima era entrato nella «SOCIAN» un certo Bruscantini, apportatore di un mazzo di cambiali scontabili. E così il Bianchi non era più amministratore unico della società. Poi, non si sa bene per che motivo, il Bruscantini fu arrestato. Al suo posto, entrò nella combinazione un tale Scroccardi, che fino a quel momento aveva prodotto soltanto documentari di tipo turistico. Infatti, era fiero di certi trofei che gli erano stati assegnati sotto il patrocinio di alcune aziende di cura e di soggiorno. Le «Ciliegie dʼOro» di Crevalcore, la «Pannocchia dʼArgento» di Massafra, la «Triglia dʼOro» di Quercianella, il «Fegato dʼOro» di Chianciano, le «Scarpette dʼArgento» di Vigevano e altri ancora. Sembrava che la coppia Bianchi-Scroccardi dovesse arrivare felicemente in porto, quando lo Scroccardi, mentre stava lustrando tranquillamente lʼ«Anguilla dʼOro» di Comacchio, si ammosciò sul pavimento, fulminato da un infarto.
«Mi dispiace sinceramente per lui», mi disse il Bianchi, quando finalmente gli portai la sceneggiatura, ridotta a un volume solo e rabberciata alla meglio. «Dʼaltra parte, non tutto il male viene per nuocere. La disgrazia capitata a Scroccardi ha fatto sì che conoscessi lʼuomo della situazione. Il signor Feng. Un distinto cinese di Formosa, chʼè venuto a Roma proprio per investire dollari nel cinema.
Lʼho incontrato ai funerali del povero Scroccardi. Ci siamo messi dʼaccordo cammin facendo, da San Giovanni al cimitero. Io ho soprattutto bisogno di respiro, come le ho già detto. I capitali di Feng, anche se non sono una gran pacchia, mi permettono di sistemare diverse rogne. Naturalmente, la società non si chiama più «SOCIAN». Ha già preso il nome di «ROMAFORM», Roma-Formosa. Lui voleva chiamarla «FORMAROMA». Ma io sono italiano, ho fatto la guerra e non sento storie. O mettiamo avanti Roma, o niente da fare, gli ho detto. E lui ha ceduto. Però, vuole che nel film, durante unʼorgia qualsiasi, compaiano delle ballerine cinesi e che il titolo diventi “Cin-cin, Nerone!”».
«Ma ai tempi di Nerone, cinesi da queste parti non ce nʼerano!» obiettai. «E gli antichi romani, quando brindavano, non dicevano cin-cin!».
«E chi se frega?» tagliò Bianchi. «Queste raffinatezze storiche possono magari preoccupare lei! Ma il pubblico, quando vede una bella orgia, tira via. Dia retta a me, che me ne intendo!».
Poi mi ringraziò, mi strinse in un abbraccio poderoso e mi ficcò nel taschino un assegno. A titolo di seconda rata. La terza, al primo giro di manovella.
Mentre stavo uscendo, mi disse:
«A proposito! Domani sera ho a cena il signor Feng e un paio di conoscenti. Perché non viene a prendere il caffè?».
«Volontieri», feci. «Anzi, se permette, porto con me un caro amico. Quel Bubù di cui le ho già parlato...».
«Come no! Sarà un piacere! Gli amici dei miei amici sono miei amici».
Appena in fondo alle scale, diedi una sbirciata allʼassegno. Lire quattrocentomila. Quanto al suo aspetto, questo assegno era molto più serio e rassicurante del primo. Intanto era grigio, anziché lilla. E poi era staccato su una banca assai più nota e solida del «Credito Caseario del Coceano». Cʼera da stare più tranquilli, insomma. Anche se era postdatato di giorni dieci. Infatti, alla scadenza, risultò perfettamente scoperto. Scoperto con serietà. Come uno che si scopre al passaggio di un funerale.
Ma lʼindomani, quando parlai a Bubù dellʼinvito di Bianchi per il dopocena, lʼassegno sembrava ancora rispettabile. Perfino agli occhi del mio diffidentissimo amico. Con tutto ciò, lʼidea di andare a prendere il caffè dal produttore, rimescolandosi ancora, in qualche modo, alle faccende del mondo cinematografico, incontrò la resistenza di Bubù.
«Nisbà!» disse, staccando lentamente gli occhi dallʼultima, allucinante avventura di «Satanik». «Ne ho già avuto abbastanza di quel De Leopardis ».
«De Leonardis», corressi.
«Me ne frego di come si chiama! Bon! Non sono cascato giù con lʼultima pioggia! Dopo la storia di quel fessone di Ercole con quella sudiciona di Circe, mon enfant, voglio restare alla larga dal tuo cinema! Sei tu, che hai degli interessi, con questo Bianchi. Donc, a prendere il caffè vacci tu! Io me ne resto qua, a leggere le mie vaccate!».
Restai un momento in silenzio, poi mi limitai a mormorare, in tono di amara sorpresa:
«Alors! Tu me fais la malle...».
«Fair la malle», nel giro della mala marsigliese, significa andarsene alla chetichella, lasciando un amico nei guai. Il che, a giudizio dei «durs», è decisamente disonorevole. Bubù, come avevo previsto, accusò il colpo.
«La malle, la malle!» saltò su, quasi strillando. «Lo sapevo, che lʼavresti messa così! Lo sai bene, sacré Janò, che non ho mai lasciato nella cacca nessuno! Ma se io non vengo, stasera, non ti lascio nella cacca. Au contraire! Ti lascio dove vuoi stare. In mezzo a quelli del cinema! Che per me sono mafisce! Niente e meno di niente! Voyons!».
Dopo la sparata, si ributtò giù, ingrugnito, con gli occhi piantati duramente nel fumetto. Lasciai perdere per un poʼ, secondo la tattica migliore, quindi, quasi recitando un monologo, tornai alla carica.
«Come vuoi!» attaccai. «Però, se fossi in te, non mollerei così facilmente, col cinema. Cosa pretendevi, enfin! Di fare centro al primo colpo? Mi sembra ingenuo, per uno navigato come te! E poi, non dimenticare Justine! Vuoi proprio dimostrarle che aveva ragione, quando disse che avresti fatto cilecca per via del sederone?».
Bubù, alla parola sederone, emise un ringhio sordo, da tigre sofferente.
«Mi dispiace, ricordarti una cosa tanto spiacevole!» incalzai. «Ma è così! En somme, sembra che tu abbia paura di questi cinematografari da strapazzo! Gente che uno appena un poʼ duro, se vuole, se li mangia come un mazzo di rapanelli!».
Altro ringhio. Ancora più cupo e minaccioso.
«Senza contare», conclusi, «che stasera, in casa di Bianchi, cʼè anche il suo socio. Quel certo Feng. Siccome si tratta di un cinese, sarebbe lʼoccasione buona per far colpo con la cravatta che ti ha mandato Justine!».
Questʼultimo, era lʼargomento decisivo. La stoccata del matador, al toro già indebolito dalle «banderillas». Bubù non aprì più bocca per tutto il pomeriggio. Ma verso le nove di sera, cominciò a prepararsi. Fece unʼaccurata toilette, si vestì con calma, davanti allo specchio, si annodò sulla camicia avorio la famosa cravatta. Alle dieci era pronto.