Capitolo XLIII
Era una serata calda e umida. Gruppetti di turisti, in tutta la gamma del biondo, veleggiavano lungo Via del Babuino e attraccavano in Piazza di Spagna, sostando, estatici, di fronte alla scalinata di Trinità dei Monti. Notammo un tipo grande e grosso, certamente americano, che reggeva sulle braccia, come un poppante, un enorme mazzo di fiori. Certo, per alleggerire anche di quel peso soave la sua «mami», con occhiali e dentiera fluorescente, che se ne stava estasiata due passi avanti.
Vladimir Bianchi abitava in una casona oscura, più vecchia che antica, situata nei paraggi di Piazza Colonna. Una lapide, accanto al portone, testimoniava che proprio lì, nel 1872, aveva preso alloggio Garibaldi. Ciò non impediva che lʼascensore, di tipo antiquato, fosse regolarmente fermo «per manutenzione». Come avvertiva un cartello già ingiallito.
Il produttore, naturalmente, stava al quarto e ultimo piano. Che, dato il mezzanino e lo sviluppo fastoso delle scale, corrispondeva perlomeno al sesto piano di un palazzo moderno. Ci arrampicammo bofonchiando, di cattivo umore.
«Tiens! Pour commencer!». Tanto per cominciare, borbottò Bubù, al secondo pianerottolo.
Comm. Bianchi, stava scritto su una targa di ottone, ovale. Bubù, con gesto meccanico, si raddrizzò la cravatta. Il campanello, di quelli che si girano come le chiavette delle sardine, emise un suono gracidante.
Venne ad aprire una specie di nanerottola smunta, sui quindici anni, che tuttavia era in tenuta di cameriera fine, col grembiulino orlato di pizzo e la crestina bianca sull’occipite.
«Zacomodichizonispettato», recitò, tutto dʼun fiato, abbozzando un pallido sorriso. Traducendo, significava, più o meno: «si accomodino, che sono aspettati».
In un salone, dalle volte altissime e verdoline, trovammo il Bianchi, la moglie grassoccia, senza età, inguainata di nero, e i tre invitati a cena. Un tale dai capelli dʼargento e dai denti in fuori. Un tipo magro come una cannuccia da bibita, la cui fisionomia era continuamente deformata da un complicato gioco di tic. E il signor Feng. Costui, correttamente in blu, giallo come un risotto alla milanese, era talmente piccolo, che i suoi piedi, nonostante sedesse su una poltroncina bassissima, non toccavano il falso «bukara» disteso sul decrepito parquet. In mezzo al gruppo, scintillavano alcune bottiglie semivuote, ammucchiate su un carrello.
Bianchi procedette subito alle presentazioni. Sul finire delle quali, si verificò il malaugurato caso della cravatta. Infatti, quando Bubù strinse la manina del signor Feng, il cinese fissò intensamente la cravatta di Justine ed esplose in una risata da topo, stridula e maligna.
Bubù, aggrottando leggermente le sopracciglia, lasciò correre sul cinese il suo sguardo marrone, poco amichevole.
«Bon!» masticò. «Fatemi capire...».
Il signor Feng, visibilmente allarmato dallʼatteggiamento di quel massiccio giovanotto, cercò di reprimere la sua improvvisa ilarità, si passò il fazzoletto sugli occhi ad asola, quindi si spiegò.
«Molto buffo!» disse. «Ploplio buffettissimo!... Scusi, calo amico, lei sa cosa dice la sclitta su sua clavatta?».
«Beʼ!» fece Bubù, pieno di sospetto. «Me lʼha mandata mia moglie da Milano. Dice che io e lei, anche se siamo lontani, siamo sempre vicini... À la fine, qualcosa del genere!».
«Questo lei clede!» riprese il signor Feng, sussultando ancora un poʼ. «E questo celtamente cledeva anche sua signola, quando complata clavatta! Ma sua signola non conosce cinese! Velo?».
«Già!» fece Bubù, asciutto.
«It is evident! È claro! Sclitta su clavatta non dice cosa di amore! Dice plecisamente così: “non plestate soldi a questo signole che mi polta, pelché lui non lestituisce mai soldi plestati!”. Capito? Questo dice sclitta su clavatta. È uno schelzo che melcanti cinesi semple fanno a clienti che non conoscono lingua cinese! Capito, calo amico?».
«Capito!» gorgogliò Bubù, gonfio di risentimento, sedendosi in un angolo. «Appena torno a Milano, vado da quel cinese di Via Canonica e mi diverto un poʼ!».
«Ma via! Non se la prenda!» intervenne il Bianchi. «Sono cose che capitano a chi non sa il cinese! E qua in Italia sono molti, stia tranquillo!».
La bonarietà del produttore non valse ad ammorbidire Bubù. Mentre il mio amico se ne stava lì zitto, a ruminare la vendetta, la conversazione scivolò su «Cin-cin, Nerone!». Feci ancora osservare, senza speranza, che il nuovo titolo mi sembrava poco pertinente. Anche ammesso che nel film figurasse un balletto cinese, altrettanto opinabile. Tutti, Feng in testa, trovarono che i miei dubbi rivelavano scarsa esperienza, in fatto di pubblico e di mercato.
«Se lo vuol sapere», disse il Bianchi, «a me, questo titolo, mi sembra perfino debole. Se dipendesse soltanto da me, preferirei “O.K., Neron-cino!”, “Nerone contro Mao” o qualcosa di simile. Ma il signor Feng è irremovibile! E sia fatta la sua volontà!».
Il signor Feng, da qualche minuto, pareva piuttosto disinteressato a quanto si andava dicendo lì attorno. Aveva lʼaria di studiare attentamente il silenzioso Bubù.
«Scusi, calo amico!» disse, a un certo punto, il minuscolo cinese, rivolto al mio amico. «Lei ha folse fatto del cinema? Lʼattole, voglio dile».
«Mai, per fortuna!» sputò Bubù, rigido sulla sedia.
«Pelché pel foltuna?» insisté lʼorientale. «Non mi sembla giusto, dile così! Lei ha fisico, esplessione e tempelamento di attole! Io mʼintendo di questo! Io so liconoscele uno che può fale cinema! Lei può fale! Può fale molto benissimo! Pelché non plovale?».
«Pelché io non cledele in cinematoglafo!» fece Bubù, imitando, senza volere, la pronuncia del cinese. Seguì un momento dʼimbarazzo generale, poi Bubù, peggiorando le cose, si scusò.
«Mi peldoni, ero distlatto...».
«Lasci collele!» tagliò il signor Feng. «Questo non ha impoltanza! Impolta invece che lei fale cinema! Anche in nostlo film! Con suo fisico, lei potele fale benissimo quel centulione lomano... Come chiamale quel centulione?».
«Tersilio!» intervenni io.
«Lui! Ploplio! Telsilio! Glande, glosso, molto cludele! Lei può fale lui, calo amico! E lei falà! Lei falà! Palola di Feng-Ciu-Ciang».
«Assez!» soffiò Bubù. «Io, per mio conto...».
«Lei falà! Lei falà celtamente!» continuò a pigolare il cinese, facendo sfarfallare le manine. «Io volio lei fale Telsilio! Io non sentile lagioni!».
Era chiaro. La faccenda della cravatta aveva messo Bubù in stato dʼinferiorità, di fronte al signor Feng, fin dal primo momento. Così, nonostante tutti i suoi fieri propositi anticinematografici, diede segno di cedimento, mormorando un:
«Vedremo...».