Il caldo era arrivato all’improvviso con un mese e mezzo di anticipo. Roma era stretta in una morsa di afa e gli acquazzoni violenti non davano sollievo ma soltanto disagio ai romani. Emma si girava e rigirava nel letto insonne. Andò in cucina per accendere il bollitore e farsi una tisana, poi cambiò idea. Afferrò la bottiglia di vino bianco gelato, un bicchiere, una scatola di biscotti e si piazzò sul letto, davanti alla televisione. Ai primi fotogrammi di Come eravamo, capì che avrebbe fatto le ore piccole. L’aveva visto cento volte ma non resisteva quando lo incrociava in tv. Le piaceva la coerenza del personaggio femminile interpretato da Barbra Streisand-Katie. Quando Robert Redford-Hubbell guardando l’intransigente compagna le dice: “Tu non molli mai”, Emma scoppiò a piangere. Lei con Pietro aveva mollato su tutta la linea. Nel pomeriggio aveva firmato la fine del loro matrimonio.
Erano andati insieme dall’avvocato per fare una consensuale. A dispetto dei propositi bellicosi coltivati negli ultimi mesi, alla fine aveva ceduto alla realtà dei fatti. Con l’aiuto dell’analista aveva capito di non volere togliere la pelle al marito, perché in fondo non le piaceva essere una mantenuta nullafacente a vita. Si erano così rivisti nella sala d’attesa del legale, la prima volta dopo il disastroso incontro al MAXXI di febbraio. Fino ad allora avevano comunicato attraverso mail sempre più civili. Poiché Pietro non l’amava più, tanto valeva restituirgli la libertà. Trattenerlo non aveva senso, né aveva senso metterlo in fuga aggredendolo, tanto più che in tutti quei mesi, Pietro, divorato dai sensi di colpa, a ogni problema aveva reagito con due parole: “pago io”.
Quando Emma era entrata (in ritardo) nella sala d’aspetto dell’avvocato, il marito, scattato prontamente in piedi, aveva accennato goffamente a sfiorarle la guancia, ma lei si era sottratta. Il quarto d’ora d’attesa prima di essere ricevuti era stato una tortura. Sembrava non avessero nulla da dirsi ed entrambi si erano tuffati nei rispettivi cellulari. Quando finalmente si erano accomodati, l’avvocato aveva letto le condizioni proposte da Pietro.
Il marito avrebbe provveduto al totale mantenimento di Giulia, e proponeva un assegno di cinquemila euro al mese, due e mezzo per la figlia, due e mezzo per Emma, esclusi tutti gli extra che riguardavano Giulia, come il master in giornalismo alla Luiss post laurea. Emma aveva firmato come un automa. Raggelata dalla paura di essere inghiottita dal vuoto abissale che scavava sotto i suoi piedi firmando quelle carte. Anche Pietro era turbato, depresso, forse triste. Oppresso dal peso della responsabilità di mettere fine al loro matrimonio. Usciti dal portone, lui l’aveva salutata con un sorriso mesto.
«Allora ci vedremo all’udienza.»
«Non ricordo se l’avvocato ha detto quando sarà.»
«Presto, prima della chiusura estiva del tribunale. E se tutto procede senza intoppi, dopo sei mesi potremo divorziare.»
«Quando saremo divorziati vorrei vendere la casa e con i soldi comprarne una più piccola, tanto Giulia presto andrà a vivere per conto suo. Quello che avanzerà ce lo divideremo equamente.»
«Ma non devi sentirti obbligata. Per me puoi rimanerci tutta la vita. Quella casa è tua.»
«Grazie ma lo faccio per me. Voglio sentirmi libera da qualsiasi legame col passato.»
Pietro non aveva reagito. Si erano salutati con una stretta di mano ed erano andati in direzioni opposte. Emma si era chiusa in un cinema per nascondersi in una sala buia. Da lì aveva mandato un messaggio alla figlia: “È fatta! Tanta tristezza, molti rimpianti. Ma terrò la barra dritta e non affonderò. Ti voglio bene”.
Aveva visto due film di seguito senza capire le storie né i personaggi. Piangeva mentre tutto il cinema rideva. L’importante era lasciare il telefono staccato per qualche ora. Non voleva parlare con nessuno, almeno fino al giorno successivo.
Tornata a casa, aveva saltato la cena e si era buttata a letto, lottando con se stessa per non farsi divorare dalla nostalgia. Non provava più rabbia, soltanto un’immensa tristezza. E Come eravamo non aveva migliorato il suo umore.
Quando la mattina seguente accese il cellulare trovò dodici messaggi del piccolo gruppo impaziente di sapere come fosse andata.
Per una settimana non volle vedere nessuno, saltò anche la cena del mercoledì. Lucetta le diede il tormento, ma lei non cedette. Federica e Anna, più discrete, le lasciarono il tempo di metabolizzare.
Lavorò molto alla presentazione di David Grossman, mangiò poco e si astenne dall’alcol. Voleva cominciare una vita nuova. In palestra non andava più da mesi. L’idea di incontrare le compagne di corso e raccontare la sua crisi matrimoniale l’aveva spinta a rinunciare. Pazienza per i soldi buttati, tanto erano di Pietro.
Attraversando un pomeriggio il Ponte Margherita, si incantò a guardare dei vogatori sfrecciare sul Tevere. Erano perfettamente coordinati e immergevano i remi senza alzare una goccia d’acqua. Sembravano liberi e felici. Le venne voglia di trovarsi in una di quelle canoe e guardare Roma dal basso, come Venezia da una gondola. Proprio sotto il ponte della riva sinistra erano ormeggiati dei barconi. In uno, privo di insegne, stava attraccando una canoa. Un uomo con i capelli bianchi aiutava il vogatore a tirare su la barca per metterla sopra due cavalletti. Ecco da dove partire per un nuovo inizio! Come Venere dalle onde di Zacinto, lei sarebbe risorta a nuova vita dalle acque del Tevere. L’idea la galvanizzò. Tornò indietro e scese sulla banchina. Raggiunse il barcone e salì su una passerella traballante. Tre persone sedute al sole bevevano caffè in bicchierini di plastica. Salutò e si addentrò nella pancia del battello dove erano appese una quindicina di canoe di varie dimensioni, alcune perfino al soffitto. Uscì dalla parte opposta e si avvicinò al signore con i capelli bianchi che sciacquava la canoa appena issata.
«Buongiorno, volevo un’informazione. Bisogna essere iscritti a un circolo per imparare a vogare?»
«No, c’è da pagare una rata mensile di cinquanta euro e poi la singola lezione, a seconda se vuole farla in gruppo o individuale.»
«Individuale quanto costa?»
«Venti euro mezz’ora.»
«Potrei essere interessata, ma lei pensa che alla mia età sia una buona idea?»
L’uomo la squadrò continuando a lavare la canoa. «Questo è uno sport che si può fare a tutte le età.»
«Bene, allora sono interessata.»
«Venga domani, troverà Davide, il mio socio, e potrà iscriversi. Le dico subito che prima di scendere in acqua dovrà imparare la tecnica in vasca» e indicò con un cenno del mento un capannone con una vasca munita di remi mozzati e un sedile che correva lungo un binario.
Emma si sentì delusa ma accettò. L’uomo intanto aveva chiuso l’acqua e stava riavvolgendo la pompa.
«La teoria invece la imparerà in palestra» e indicò una struttura di legno con il tetto di lamiere alle loro spalle. Emma si affacciò e le venne il buon umore. Era una baracca umida e spartana ma attrezzata di vogatore, spalliera, pesi, macchinari per fortificare tricipiti e bicipiti.
«C’è anche uno spogliatoio?» chiese Emma scettica.
«Certamente, venga.»
L’uomo la riportò dove erano parcheggiate le canoe. A sinistra si apriva la porta dello spogliatoio con armadietti e perfino una doccia.
«Ma è per tutti?»
«No» rispose stupito Mario. Così si chiamava l’uomo che sarebbe diventato il suo istruttore. «Quella dei maschi è dal lato opposto.»
«Cosa bisogna indossare?»
«Un pantalone aderente impermeabile, una maglietta, dei guanti, perché c’è da farsi i calli sui remi e due paia di calzini nel caso se ne bagnasse uno.»
«Quando posso cominciare?»
«Deve prendere appuntamento con Davide. Torni domattina.»
Emma scese dalla scaletta eccitata. Sì, la canoa l’avrebbe riavvicinata alla natura, fortificato gli addominali e tirato su il seno. In fondo alla prova costume mancava pochissimo. Doveva mettersi in forma, alla faccia del suo futuro ex marito.
I primi giorni di allenamento furono una vera noia. La palestra puzzava di legno umido e la vasca era un forno all’ora di pranzo quando Emma si presentava. La cosa più difficile era l’impugnatura dei remi che variava a seconda se scendevano o salivano dall’acqua. Un continuo gioco di polso per alzarli perfettamente verticali, metterli di piatto sul pelo dell’acqua per poi rimmergerli di lama per prendere l’acqua con tutta la superfice delle pale. Il problema era non far scivolare il remo dallo scalmo, e non darsi delle botte alle ginocchia nel continuo avanti e indietro del sedile.
Dopo due settimane ci fu finalmente il battesimo dell’acqua. Emma si era presentata in total black: cappellino, shorts, maglietta e guanti tecnici.
«Oggi ti ho fatto trovare la canoa già in acqua, ma dovrai imparare a metterla giù e riportarla su insieme a me.»
«Ma pesa un accidenti!»
«Quella biposto è un fuscello, vedrai.»
Mario non mentiva. Quando Emma posò il primo piede sulla barca, quella oscillò malamente e lei dovette aggrapparsi al braccio dell’istruttore spaventata. Infilò i piedi nelle fibbie per tenerli fermi, come aveva imparato in vasca, e controllò la distanza del sedile. Tutto quello che sulla terraferma le sembrava facile, sull’acqua le faceva paura. Mario prese posto dietro di lei.
«Quando dico remo giù, farai come ti ho insegnato. Se dico stop, alzi immediatamente i remi e li metti di piatto sul pelo dell’acqua. Diede una spinta alla barca che si allontanò dalla banchina. Remarono contro corrente risalendo il fiume verso il Ponte della Musica tenendo la destra come in auto. Il Tevere era color verde bottiglia, cupo, denso. Ogni tanto Mario, con colpi più vigorosi, spingeva la canoa vicino alla riva sfiorando rovi e rami. Pezzi di ferro spuntavano qua e là dall’acqua, forse carcasse di barche affondate. Emma riconobbe distintamente le ruote di un carrello del supermercato rovesciato e la ruota di quella che un tempo era stata una bicicletta. Meglio non approfondire, pensò. Sapeva che nel fiume veniva gettato di tutto e quando si gonfiava per le piogge, l’acqua invadeva gli argini e si trascinava dietro tutto quello che trovava, compresi i materassi e le vettovaglie dei barboni che vivevano sotto i ponti. Sfilarono davanti ai loro occhi tutti i circoli di Roma, ma anche bottiglie di plastica e pezzi di legno, mentre dagli alberi pendevano sacchetti di plastica portati dalle piene del fiume. Dal ponte sembrava tutto magnifico, non così dal Tevere. Quando Emma vide una pantegana risalire sulla riva cominciò ad agitarsi.
«Ti è mai capitato di cadere in acqua?» domandò tremebonda.
«Scherzi!? Si cade spesso in acqua. È normale in questo sport.»
Emma si girò di scatto dimenticandosi di alzare i remi. La canoa fece una piroetta inclinandosi pericolosamente. Uno schizzo di acqua fetida le arrivò sulla guancia.
«Attenta! Devi seguire i miei comandi» la rimproverò Mario.
Ma Emma non lo ascoltava più, era inorridita. Non poteva asciugarsi la faccia per non lasciare i remi e immaginava che la pelle le si stesse corrodendo.
«Alza i remi se no ci cappottiamo!»
«Ma è radioattivo!» gridò.
La canoa oscillò nuovamente.
«Ubbidisci, alza quei benedetti remi!» le intimò Mario. «Non è radioattivo, è inquinato, ma questo lo sapevi» aggiunse per tranquillizzarla.
«Sì, ma durante il corso nessuno mi ha detto che ci si può cadere dentro.»
«In barca succede. Il problema se ti rovesci non è tanto l’inquinamento ma riuscire a rigirare la canoa quando si ribalta.»
«Rigirarla?»
«Eh sì, altrimenti come fai?»
«Come faccio?»
«Puoi salire sul guscio e farti portare dalla corrente, ma se nessuno ti intercetta, arrivi alle rapide dell’isola Tiberina e a quel punto un problema serio lo puoi anche avere.»
«Mario, per favore fammi scendere!»
«Qui, sotto al Ponte della Musica?»
«Non mi puoi accostare e io scendo? Torno a piedi tranquillamente.»
«Ma questo non è mica un taxi. No, non si può!»
«Ma è un’emergenza. Mi fa un male cane la schiena, ti prego, fammi scendere prima che mi venga una crisi di panico!» gemette.
Il brav’uomo non si scompose. «Appoggia i remi nella barca e stai tranquilla» le disse col tono con cui si parla a un bambino.
Emma ubbidì. Mario girò la canoa e vogò di tutta lena. Il legno volava trascinato dalla corrente favorevole. Quando arrivarono all’attracco, Emma schizzò fuori dalla canoa fregandosene del rituale imparato nelle due settimane di corso. Si sentiva addosso un odore di fiume marcio. Aveva voglia di vomitare. Come le era venuta in mente un’idea tanto balzana? Per tonificare seno e addominali? Meglio essere flaccida che radioattiva o morta di leptospirosi.
«Scusa, scusa» disse all’istruttore allibito e scappò senza voltarsi indietro.
«Emma, domani sera vorrei che venissi a cena da me. Ci saranno alcuni amici intimi a cui vorrei presentare Matteo.» Federica fece una breve pausa, poi proseguì «Abbiamo deciso di vivere insieme. Da una settimana si è trasferito a casa mia.»
«Complimenti! Hai fatto una scelta davvero coraggiosa.»
«Già, ma si vive una volta sola, ti pare?»
«Te l’ha consigliato la tua veggente?»
«La Martelli non dà consigli.»
«Vede amore e disamore dove le pare, e distribuisce perle di saggezza con sicumera irritante.»
«Con te non è andata bene perché ti sei messa di punta, ti assicuro che è bravissima. A me per esempio…»
«Fede, scusa ma non ho voglia di litigare. Parlami invece della tua storica decisione. I tuoi figli come l’hanno presa?»
«Bene. Da quando hanno capito che Matteo mi ama davvero, mi hanno dato la loro benedizione.»
«Beata te! I maschi sono più facili delle femmine.»
«Mi hanno visto per troppo tempo sola e adesso non gli pare vero di essersi scrollati di dosso la responsabilità della mamma single. Li ha aiutati molto la reconnective.»
«Ah, certo, domani lo racconto a Lucetta che è tutto merito della reconnective e te la scaglio contro.»
«Non potrai, perché non l’ho invitata.»
«Davvero?»
«È troppo negativa. Metterebbe a disagio Matteo e anche me.»
«E chi verrà?»
«Stefania e Luigi, li hai visti mille volte, poi una coppia di amici gay pugliesi che conosco da sempre e un mio vicino di casa simpaticissimo.»
«Anna non viene?»
«No.»
«Del nostro piccolo gruppo ci sarò soltanto io?»
«Sì. Ho deciso di fare delle serate mirate e preferisco cominciare con persone con cui ho un rapporto collaudato.»
«E il tuo vicino di casa è un amico di vecchia data?»
«No, lui si è trasferito nel mio palazzo da sei mesi. Dopo la separazione dalla moglie.»
«Perché ho la sgradevole sensazione che tu mi voglia combinare un incontro?»
«Ma figurati! Era per non essere dispari a tavola. Farò un soufflé di…»
«Federica stai tramando qualcosa alle mie spalle?»
«Ti dico di no, ma comunque che cosa ci sarebbe di male? Magari Enzo ti piace… Basterebbe che facessi cadere il campo quantico e…»
«Non vengo!»
«Non puoi farmi questo. Ti assicuro che Enzo è molto attraente. È un po’ più giovane di noi.»
«Non mi va. Come posso farvelo capire. Quando sarò pronta ve lo dirò e magari sarò capace di trovarmi da sola un fesso a cui piacere.»
«Ti chiedo scusa, ma non darmi buca. Se vuoi, potrai non rivolgergli la parola per tutta la serata, ma ti prego, vieni.»
Emma alla fine cedette ma non andò dal parrucchiere, né indossò i tacchi otto. Si presentò con un pantalone nero e una camicia bianca monacale per chiarire che non apprezzava l’iniziativa dell’amica. Arrivò ovviamente ultima mentre tutti prendevano l’aperitivo in terrazza. Il marito di Stefania si alzò per andarle incontro.
«Emma, la sofferenza ti dona. Stai benissimo!» disse galante.
«Perché non soffro più e incomincio a provare piacere a stare da sola» rispose sorridendo; in realtà non le piaceva il tono mellifluo dell’uomo.
La moglie aveva seguito a ruota il marito e lo strattonò. «Perdonalo, è un gaffeur nato. Ma cosa è successo? Federica non mi aveva detto niente, soltanto ieri mi ha accennato…»
«Quello che succede a molti matrimoni, ti auguro non al tuo.»
L’attenzione della donna, in realtà, nascondeva una preoccupazione. Emma, secondo i canoni, adesso era una donna a caccia e le mogli la guardavano con sospetto. Fu tentata di dire a Stefania: “tuo marito non me lo prenderei nemmeno se fossimo soli su un’isola deserta”, ma si morse la lingua.
Federica le venne in soccorso e la condusse in terrazza. Matteo, il suo giovane amante, si alzò e le riempì un bicchiere di champagne da perfetto padrone di casa. Era di una bellezza disturbante. Aveva occhi di gatto e si muoveva come un felino. Emma ebbe il dubbio che fosse gay, ma subito si sentì in colpa. Un uomo bello e giovane poteva scegliere di stare con una donna di trent’anni più vecchia soltanto se era un mezzo uomo? Gli sorrise. Le stava simpatico. Federica le presentò Enzo che da gran cafone rimase seduto a ingozzarsi di guacamole e pizzette fritte da un tavolo basso coperto di deliziosi stuzzichini. Emma prese una tartina di baccalà mantecato con salsa tartufata e andò a sedersi sulla sedia più lontana, ma accettò di buon grado un rabbocco dello champagne portato da Enzo. Lei si era presentata a mani vuote. La coppia gay era molto carina, entrambi architetti, minuti, con i capelli tagliati cortissimi. Si assomigliavano. Le dissero i loro nomi che lei dimenticò un istante dopo.
Stavano parlando di cinema ma Emma non riuscì a seguire la conversazione. Si guardava dall’esterno. Seduta rigida sul pizzo della sedia, imbronciata: ecco la donna abbandonata in attesa di rifarsi una vita. Quante serate come queste l’aspettavano? L’immagine la depresse. Perché aveva ceduto alle insistenze di Federica? Cominciò a osservare silenziosa Matteo. Stava accendendosi una sigaretta. Notò i polsi magrissimi da adolescente che gli uscivano dalla giacca, perché era l’unico maschio a indossare una giacca. Le luci delle candele gli scavavano il viso. Era bellissimo. Sembrava uscito da un libro di Françoise Sagan.
Federica, per coinvolgerla nella conversazione, le chiese del canottaggio, argomento neutrale.
«L’ho lasciato. L’idea di cadere nel Tevere mi ha terrorizzata. Sono letteralmente fuggita.»
«Pare che sia gelido anche d’estate» intervenne pronto Enzo.
«La temperatura dell’acqua sarebbe il meno, il fiume è infestato di pantegane: alla prima che ho visto ho capito che non era uno sport per me.»
«Infatti, quando me lo hai raccontato non ti ho contraddetta ma mi sembrava un’idea assurda. Sai cosa dovremmo provare insieme?»
«No Federica, non lo so e non credo di volerlo sapere.» Ecco, aveva alzato la guardia e diventava antipatica.
«Sai cosa è lo yoga anti gravity?»
«Che cos’è?» chiese incuriosita Stefania.
«L’ha inventato un ballerino di Broadway. È la nuova frontiera del fitness.»
«Fico!» disse battendo le mani uno degli architetti.
Emma scrollò il capo scettica ma Federica non si fece scoraggiare.
«Mescola pratiche acrobatiche allo yoga. Vieni sospeso in aria con delle funi. Ora vi mostro.»
Andò in salotto a recuperare l’Ipad e fece scorrere delle immagini raccapriccianti. Ragazze a testa in giù, in posizioni improbabili, sospese a venti centimetri dal suolo con i capelli penzoloni che strusciavano sul pavimento. Sembravano tante scimmiette.
«Bisogna rilassare completamente il corpo per scaricare lo stress.»
«E non rischi di intorcinarti nelle corde o di cadere?» chiese Enzo. Aveva una marcata cadenza romanesca che infastidì Emma, e da quel momento rimase muta per il resto della serata.
Guardava Matteo, poi Enzo, Luigi. Non sarebbe andata a letto con nessuno dei tre. Da mesi col piccolo gruppo non facevano che parlare di uomini. L’uomo perfetto. L’uomo sbagliato. L’uomo traditore. Che noia! Doveva assolutamente interrompere quelle cene.
Quando i commensali si alzarono da tavola per continuare la serata sulle poltrone, Emma si congedò. Sotto al portone chiamò un taxi. Dopo dieci minuti di attesa, decise di avviarsi a piedi. L’aria era finalmente respirabile e voleva liberarsi dalle scorie di una serata da dimenticare.