Galileo Galilei è stato tante cose insieme: uno studioso, uno scienziato, un pensatore, un letterato. Ma è stato prima di tutto un cultore della verità. Il concetto di verità non aveva per lui nulla di metafisico o di astratto, come avveniva ancora – per certi versi – con i filosofi rinascimentali. Galileo è interessato alla verità fattuale, vale a dire alla realtà delle cose.
Questa ricerca ha rappresentato l’obiettivo principale della sua vita. Nessuna autorità, laica o ecclesiastica che fosse, è riuscita a sopprimere o a conculcare in lui questo anelito alla verità. In tale chiave, la sua opera può essere letta come un importante anello di congiunzione tra scienza, tecnica e umanesimo, ma anche come un passaggio fondamentale dell’epistemologia moderna, il che conferisce al pensiero galileiano un indiscutibile spessore filosofico.
Lo si vede chiaramente già in un’opera del 1610, il Sidereus Nuncius (“Messaggero celeste”), un breve trattato in lingua latina in cui Galileo dà notizia delle prime ma già rivoluzionarie scoperte astronomiche fatte grazie all’uso del cannocchiale, destando enorme scalpore nel mondo scientifico, religioso e culturale dell’epoca. E anche nel Saggiatore, un’opera pubblicata nel 1623 sotto forma di epistola in volgare, l’autore entra in una disputa in merito alla natura delle comete, ma, al di là dell’argomento specifico, il testo è importante soprattutto per la polemica metodologica nei confronti della scienza tradizionale, volta com’era a ribadire concetti sui quali non c’era alcuna certezza empirica.
Tale studio della verità appare anche nelle Lettere copernicane (1612-1615) un impegno costante, essendo Galileo convinto – come si esprime nella lettera A madama Cristina di Lorena Granduchessa di Toscana, un testo in cui il vocabolo «verità» viene ripetuto molte volte – che «la moltitudine de’ veri concorre all’investigazione, accrescimento e stabilimento delle discipline, e non alla diminuzione o destruzione». Vale a dire: la verità non deve mai farci paura e il vero scienziato non la teme, ma deve piuttosto aborrire le false opinioni. Il rispetto della verità impone – come ammoniva sant’Agostino (non casualmente citato nella stessa lettera) – di essere molto cauti nel momento di compiere affermazioni di assoluta certezza in merito a cose oscure e difficili da capire.
Lo strumento fondamentale per giungere alla conoscenza della realtà – e dunque a una verità che, per quanto inconoscibile nella sua totalità, pure esiste e può essere avvicinabile – è per Galileo la ricerca scientifica condotta attraverso il metodo sperimentale, cioè attraverso l’esperienza.
Rispetto all’intellettuale medievale che ancorava le proprie credenze alle affermazioni delle auctoritates (cioè i grandi autori del passato, in primis il filosofo greco Aristotele), lo scienziato moderno si fida soltanto di sé stesso e dei propri sensi. Per lui non ha alcun senso continuare a ripetere concetti pseudoscientifici (non dimostrati né dimostrabili) o riproporre tesi razionalmente infondate, magari accreditandole attraverso citazioni erudite. La natura, invece, è un libro che può essere letto fedelmente attraverso gli strumenti della matematica e della geometria.
In questo, Galileo è il grande fondatore del moderno metodo sperimentale, o, se vogliamo, della scienza moderna tout court. I risultati del progresso scientifico devono essere oggettivi, affidabili, verificabili e condivisibili. Come si esprime ancora nella lettera A madama Cristina di Lorena Granduchessa di Toscana, le «sensate esperienze» portano a «dimostrazioni necessarie»: gli esperimenti e le constatazioni empiriche conducono a conclusioni consequenziali.
Con Galileo si passa cioè dal metodo deduttivo (dedurre le concezioni della realtà da principi astratti) a quello induttivo (ricavare la regola generale dalla concreta sperimentazione di situazioni reali). In base al metodo scientifico, le ipotesi relative ai fenomeni naturali, formulate dopo la raccolta dei dati empirici, vanno sottoposte a procedure di verifica sperimentale, che servono a confermarle (trasformandole in leggi scientifiche) o a confutarle (qualora si rivelassero erronee o fallaci).
Da questa moderna concezione della scienza deriva un nuovo modo di guardare alle Sacre Scritture, e in particolare a quei passi dell’Antico Testamento che venivano chiamati a supporto di teorie scientifiche ormai smentite dall’esperienza. Fin dove arrivano la ragione e l’esperienza, non serve, anzi è fuorviante, chiamare in causa la Bibbia, la cui autorevolezza si applica invece alle verità teologiche e morali che non avrebbero potuto essere trasmesse agli uomini per altra via se non attraverso quella della “rivelazione positiva”: «Io crederei che l’autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell’istesso Spirito Santo» (A don Benedetto Castelli in Pisa). Se è stato Dio a dotarci di sensi capaci di orientarci all’interno della realtà, sarebbe ben strano che quello stesso Dio ci chiedesse poi di non utilizzarli per affidarci invece alle immagini poetiche dei testi sacri quasi come a una fonte di verità scientifica: «Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una minima particella e in conclusione divise se ne legge nella Scrittura». Tanto più che l’astronomia – questo è l’oggetto del contendere – non trova nella Bibbia una trattazione completa e sistematica, non essendo quella l’intenzione dei suoi autori, seppure divinamente ispirati.
Intenzione dello Spirito Santo che ha guidato la mano degli autori dei libri biblici era infatti quella «d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo» (A madama Cristina di Lorena Granduchessa di Toscana). In altre parole, la Bibbia non insegna come si muovano i corpi celesti ma come si possa salvare la propria anima. Tra dettato scritturistico e scienza non ci può e non ci deve essere alcun contrasto, poiché sono diversi i loro ambiti d’azione e di interesse: il primo mira a definire questioni teologiche e morali, la seconda le regole matematiche del reale. Quando i testi sacri accennano a fenomeni astronomici o naturali, non hanno la pretesa di avere validità scientifica. Se tra “libro sacro” e “libro della natura” talora pare di scorgere qualche contraddizione, essa è soltanto apparente, giacché riguarda – per così dire – le diverse modalità espressive dei due “libri”, più che la realtà in sé. Galileo ribadisce a più riprese nei suoi scritti l’assenza di una tale contraddizione, anche perché se avesse parlato diversamente – mettendo cioè in contrapposizione le “due verità” – sarebbe potuta scattare con molta facilità l’accusa di eresia, cosa che fino all’ultimo egli volle evitare.
Spiega invece che nel trattare le questioni naturali, gli autori della Bibbia hanno adottato il punto di vista del volgo, «assai rozzo e indisciplinato». Perciò i riferimenti naturalistici presenti nella Bibbia non vanno intesi per forza di cose in senso reale, ma possono avere un significato simbolico, dovendo essere semplici e alla portata di tutti. Quando essa parla del movimento del Sole, ciò non significa necessariamente che il Sole si muova, ma tale espressione deriva dalla volontà, da parte di chi l’ha utilizzata, di accordarsi alla visione della realtà propria dell’uomo comune, che in tal modo vi avrebbe trovato una descrizione del reale confacente al suo punto di vista.
È interessante notare che lo stesso argomento era stato utilizzato già una ventina d’anni prima dal filosofo Giordano Bruno (1548-1600) nel dialogo La cena de le ceneri (1584), che però Galileo non cita mai: Bruno era stato infatti condannato per eresia e bruciato sul rogo dall’Inquisizione romana.
Galileo è un uomo di fede, è un cristiano, un cattolico, un credente. Per questo l’ostilità manifestata nei confronti dei suoi studi e della sua stessa persona da parte di alcuni autorevoli settori della Chiesa del tempo lo amareggia profondamente, ponendolo in uno stato di frustrazione psicologica molto duro da sopportare. Se per il fedele la Chiesa è madre, come può un figlio accettare l’ingiusta durezza di chi invece dovrebbe amarlo e sostenerlo?
Per questo egli rivendica, di fronte alla Chiesa, la piena cattolicità propria e di chi l’ha preceduto sulla via della ricerca scientifica: «Niccolò Copernico fu uomo non pur cattolico, ma religioso e canonico» (A monsignor Piero Dini in Roma, 16 febbraio 1615). La sua fede non entra in crisi per gli errori dei teologi, che magari leggono male i testi sacri. Il più grave di tutti è l’interpretazione puramente letterale (tipica di fondamentalismi di ieri e di oggi), prassi contro la quale Galileo argomenta la necessità di una sapiente ermeneutica tesa a leggere il testo nelle sue diverse dimensioni (figurate, simboliche, allegoriche ecc.): se ci fermassimo «nel puro significato delle parole […] vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, e anco talvolta l’obblivione delle cose passate e l’ignoranza delle future» (A don Benedetto Castelli in Pisa). È perciò «necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e n’additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati profferiti». In tal modo fede e scienza – ancora una volta – non possono trovarsi in reciproca contraddizione. E a ben guardare, afferma Galileo, si troverà «molto più zelo verso Santa Chiesa e la dignità delle Sacre Lettere» in lui che nei suoi «persecutori» (A monsignor Piero Dini in Roma, 16 febbraio 1615).
La grande scoperta galileiana è, come è noto, quella del moto della Terra. A difendere questo risultato delle sue osservazioni e delle sue ricerche lo scienziato pisano dedica diversi scritti, in particolare il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), ma anche diverse lettere, come queste Lettere copernicane, scritte tra il 1613 e il 1615, nelle quali Galileo cerca di convincere alcuni esponenti del mondo scientifico, politico ed ecclesiastico della validità delle proprie teorie e della loro conciliabilità con le verità di fede.
Al paradigma tolemaico (dal nome dell’astronomo egiziano Claudio Tolomeo, vissuto nel II secolo d.C.), Galileo sostituisce quello copernicano: nel 1543 l’astronomo polacco Niccolò Copernico aveva pubblicato a Norimberga il De revolutionibus orbium celestium libri VI (“Sei libri sulle rivoluzioni dei corpi celesti”). In base a quest’opera non erano più – come nella visione tradizionale – i pianeti a girare intorno alla Terra, ma erano i pianeti a ruotare attorno al Sole (Terra inclusa). Copernico basava queste sue conclusioni su calcoli matematici, mentre Galileo ne dimostra la validità con «sensate esperienze» e «dimostrazioni necessarie».
Si trattava di una scoperta rivoluzionaria, perché minava la secolare concezione cristiana della Terra e dunque degli esseri umani come posti al centro dell’universo. Il passaggio dal modello geocentrico a quello eliocentrico privava l’uomo dell’idea di una condizione di privilegio alla quale si faceva fatica a rinunciare. Da qui derivò l’ostilità della Chiesa a una siffatta prospettiva, anche perché la Bibbia – che era il testo di riferimento per la cultura del tempo, non solo sul piano religioso ma anche su quello scientifico – in un passo del Libro di Giosuè (X, 12-14) accennava al movimento del Sole intorno alla Terra: per la preghiera di Giosuè (il condottiero ebraico, successore di Mosè, che guidò le dodici tribù di Israele attraverso il Giordano a occupare la terra promessa) Dio fermò il Sole – cioè prolungò la durata del giorno e ritardò l’inizio della notte – finché gli Israeliti riuscirono a sconfiggere gli Amorrei loro nemici. Ma appellarsi alla Bibbia era forse più che altro un pretesto, pur di non accogliere una visione del mondo che metteva in crisi l’assodata concezione di una centralità dell’umano nel cosmo.
Da qui, da questa straordinaria scoperta galileiana, comincia la crisi non semplicemente di una visione religiosa ma, in fondo, dello stesso pensiero occidentale. «Maledetto sia Copernico!» dirà, all’inizio del XIX secolo, il protagonista del Fu Mattia Pascal (1904) di Luigi Pirandello: «Copernico […] ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai le nostre».
Insomma, la responsabilità dell’astronomo polacco è chiara e imperdonabile: è per colpa sua e della sua teoria che l’uomo ha perso la propria dignità, le proprie sicurezze, la fiducia incrollabile che dava senso alle sue imprese. E la “colpa” di Galileo, anch’essa imperdonabile, è stata quella di dimostrare inequivocabilmente che Copernico aveva ragione: «la mobilità della Terra» è «sicurissima, verissima, irrefragabile» (A monsignor Piero Dini in Roma, 23 marzo 1615).
Con diverse sue opere – non ultime le Lettere copernicane – Galileo occupa un posto di rilievo nella storia della letteratura italiana per essere stato praticamente il primo a scrivere in volgare di scienza.
Rispetto al lessico ereditato dagli scrittori precedenti, il suo bel fiorentino di matrice cinquecentesca presenta un numero non eccessivo di innovazioni, ma è ammirevole la duttilità grazie alla quale lo scrittore riesce a piegare quella lingua a significare nuove cose e nuovi concetti. Per questo, il volgare galileiano rappresenta una tappa importantissima nello sviluppo storico della lingua italiana. Si tratta, ovviamente, di un italiano in parte diverso dal nostro, essendo trascorsi alcuni secoli da allora: da qui la scelta, per la presente edizione, di fornire, a fronte del testo originale, una versione in lingua corrente (in alternativa alla soluzione di aggiungere una serie di note esplicative, che avrebbero però rischiato di rendere più faticosa la lettura).
Mentre nella sua epoca i testi scientifici continuavano a essere redatti in latino, Galileo opta per il volgare, convinto com’è che la scienza debba essere alla portata di tutti. Non si tratta, dunque, di una semplice opzione estetica, ma piuttosto di un aspetto decisivo della sua “politica culturale”.
Il genere epistolare – come d’altra parte quello dialogico – appare particolarmente congeniale allo spirito di Galileo, poiché è quello più adatto al confronto di idee, al loro scambio, alla loro condivisione. Comunicare i risultati della propria ricerca è un’attività altrettanto importante della ricerca stessa, è un aspetto imprescindibile dell’attività scientifica e intellettuale. La ricerca astronomica e la riflessione intellettuale hanno un senso, sono in grado di ottenere risultati concreti e di determinare conseguenze importanti nella misura in cui è presente un “altro”, un destinatario al quale rivolgersi, con cui trovare punti di consonanza o anche, in qualche caso, entrare in conflitto. Di fatto, come per tutti i grandi epistolari (da quello di Cicerone in poi), indirizzare lettere a specifici destinatari è una forma di comunicazione solo formalmente privata, essendo destinata – potenzialmente e in ultima istanza – a una successiva più ampia diffusione. Inoltre, rinunciando allo stile dogmatico e impersonale del trattato in senso stretto e scegliendo il genere epistolare, Galileo può proporre testi che, configurandosi come privati, non necessitano di autorizzazione ecclesiastica.
Proprio perché tale modo di comunicare deve essere immediato, diretto, privo di fronzoli, non ingessato in forme retoriche o stereotipate, Galileo opta per il volgare: per parlare della realtà bisogna utilizzare la lingua della realtà (e non quella dell’accademia). Così nelle Lettere copernicane troviamo riferiti, nella lingua di tutti i giorni, i progressi intellettuali, le conquiste scientifiche, ma anche le invidie e le gelosie che spesso rischiavano di fare terra bruciata attorno allo scienziato pisano, dunque i suoi stati d’animo di delusione, preoccupazione, ansia: sentimenti, a ripercorrere le tappe della sua vita tormentata, tutt’altro che immotivati.
Il fatto è che i principali detrattori di Galileo mostravano una grande ignoranza nei confronti delle conoscenze scientifiche. Si tratta di coloro che «negano senza fondamento nessuno tutto quello che e’ non intendono» (A monsignor Piero Dini in Roma, 23 marzo 1615).
Per questo lo studioso pisano fa appello a chi, all’interno dell’istituzione ecclesiastica, potesse valutare, in scienza oltre che in coscienza, i risultati delle sue ricerche: «Non mancano nella cristianità uomini intendentissimi della professione, il parer de’ quali circa la verità o falsità della dottrina non doverà esser posposto all’arbitrio di chi non è punto informato e che pur troppo chiaro si conosce essere da qualche parziale affetto alterato» (A monsignor Piero Dini in Roma, 16 febbraio 1615).
Gli uomini maggiormente pericolosi – allora come oggi – sono gli ignoranti, ancor più quando si aggiungano il fanatismo, la partigianeria e l’ipocrisia: quando, cioè, alla «malignità ed ignoranza» si somma una «fraude che va in volta sotto il manto di zelo e di carità». La battaglia di Galileo per la verità coincide con una lotta senza quartiere all’ignoranza e alla malafede.
Abbiamo accennato prima all’orrenda fine di Giordano Bruno, il cui monumento di bronzo a Campo de’ Fiori (la piazza romana dove fu arso vivo) ricorda i tempi bui in cui il fanatismo religioso condusse, nell’Europa cristiana, ad azioni terribili ed efferate. Galileo dovette avere spesso davanti a sé il monito di quelle fiamme, un’immagine mentale che probabilmente contribuì a educarlo a una costante prudenza nella manifestazione del suo pensiero e nella conduzione dei rapporti interpersonali.
Prudente era stato del resto lo stesso Copernico: il testo del De revolutionibus era stato stampato con una premessa nella quale si affermava che i calcoli e le conclusioni dell’opera andavano considerate come semplici ipotesi matematiche. Ciò inevitabilmente depotenziò il contenuto rivoluzionario del trattato copernicano. In realtà, se inizialmente si credette che autore della premessa fosse stato lo stesso Copernico, qualche decennio più tardi l’astronomo tedesco Giovanni Keplero (1571-1630) scoprirà che a scriverla era stato il teologo protestante tedesco Andreas Osiander, il quale aveva inteso così rendere meno “pericolosi” i contenuti del lavoro di Copernico.
Anche le Lettere copernicane di Galileo abbondano di prudenti dichiarazioni di ossequio e di obbedienza nei confronti degli alti prelati ai quali si rapporta. Egli afferma di intendere «solamente di riverire e ammirare le cognizioni tanto sublimi, e obbedire a i cenni de’ […] superiori, ed all’arbitrio loro sottoporre ogni […] fatica» (A monsignor Piero Dini in Roma, 23 marzo 1615) e di parlare «sempre con quella umiltà e reverenza che devo a Santa Chiesa e a tutti i suoi dottissimi Padri, da me riveriti e osservati ed al giudizio de’ quali sottopongo me ed ogni mio pensiero», fino a dichiarare di sottomettersi «totalmente al giudizio de’ […] superiori».
Giunge persino a scrivere: «Prima che contravvenire a’ miei superiori, quando non potessi far altro, e che quello che ora mi pare di credere e toccar con mano mi avesse ad essere di pregiudizio all’anima, eruerem oculum meum ne me scandalizaret [“mi strapperei gli occhi piuttosto che trarne motivo di scandalo”]» (A monsignor Piero Dini in Roma, 16 febbraio 1615). Non si fatica a intuire la lacerazione interiore determinata in Galileo dal contrasto tra l’ossequio alla Chiesa (ossequio – crediamo – non solo formale) e il richiamo di una verità che la Chiesa non era disposta ad accettare.
Nonostante tutta la prudenza di cui Galileo dette prova, le sue tesi astronomiche vennero comunque considerate eretiche. Nel 1632 lo scienziato pubblica a Firenze il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, in cui mette a confronto la visione tolemaica (geocentrica) con quella copernicana (eliocentrica): nonostante la forma dialogica – che nelle intenzioni dell’autore doveva servire, oltre che a rendere più efficace il confronto delle idee, anche a eludere la censura, ponendo una sorta di formale equidistanza dai due sistemi cosmologici – l’opera desta l’attenzione della Chiesa. Viene dunque istruito un processo e il 22 giugno 1633 Galileo si presenta, a Roma, di fronte ai giudici del Santo Uffizio, radunati nella grande sala del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, non lontano dal Pantheon. Due erano i capi di imputazione che gli venivano mossi: aver attribuito validità scientifica ai calcoli di Copernico e non aver rispettato il divieto, emanato nel 1616, di sostenere le tesi copernicane.
A quegli studi Galileo aveva dedicato tutta la propria esistenza. Ora però di fronte al tribunale dell’Inquisizione decide di abiurare. Perché lo fece? Per paura della tortura e della morte? Già questa sarebbe una spiegazione. Oppure si risolvette a piegarsi formalmente all’autorità ecclesiastica per poter poi continuare le proprie ricerche come in effetti fece, seppure non più in campo astronomico, giungendo in seguito a pubblicare, in Olanda nel 1638, la sua ultima grande opera, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze?
Non lo sappiamo, e con certezza non lo sapremo mai. Ciò che è certo è che uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi si inginocchia, all’età di settant’anni, di fronte agli inquisitori e rinnega «la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova» (Abiura), pronunciando la seguente abiura: «Con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et heresie, e generalmente ogni et qualunque altro errore, heresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simile sospitione; ma se conoscerò alcun heretico o che sia sospetto d’heresia lo denontiarò a questo S. Offitio».
È interessante notare che ampi settori della storiografia moderna hanno sostenuto che il processo a Galileo fu, di fatto, un processo irregolare, non solo per tutta una serie di inesattezze formali che contraddissero la procedura ben codificata a cui normalmente l’Inquisizione si atteneva (situazione ampiamente documentata in particolare dagli studiosi tedeschi), ma perché – come lo storico Vittorio Frajese ha argomentato in modo convincente nel saggio Il processo a Galileo Galilei (Morcelliana, Brescia 2010) – alla sentenza di condanna mancarono le minime basi canoniche. Infatti, a parte una diffusa e generica ostilità alle prospettive disegnate dalla nuova scienza, non era mai stato emanato da parte dell’autorità ecclesiastica un decreto di condanna dell’astronomia copernicana come dottrina eretica e contraria alle Sacre Scritture né tanto meno un decreto di censura teologica dell’eliocentrismo. In altre parole, non sussistevano le premesse giuridiche per una sentenza di condanna che – al di là del merito, fermandoci per un momento solo al piano tecnico – stando così le cose risulterebbe illegittima.
«Eppur si muove!»: questa sarebbe stata la frase pronunciata da Galileo, battendo la terra con un piede, all’uscita dalla sessione del tribunale ecclesiastico nel corso della quale aveva abiurato. Non esiste alcun documento ufficiale che confermi questo aneddoto, ma soltanto una tradizione popolare che lo vuole veritiero. Possiamo dire che il fatto, se non è vero, è comunque verosimile. Galileo subisce la condanna e pronuncia l’abiura, eppure non rinuncia alla verità – la parola chiave da cui, non a caso, siamo partiti – che continuerà a ricercare negli anni che gli rimarranno da vivere.
La sconfitta giudiziaria non sarà infatti la sconfitta della scienza. Se sulle prime il fatto desta grande scalpore e determina sofferenza e frustrazione in chi aveva sperato in un rinnovamento della cultura e della Chiesa stessa, la rete di discepoli e seguaci di Galileo manterrà vivi i contatti e gli scambi. Le ricerche iniziate dal maestro continueranno e daranno nuovi frutti.
Una piena riabilitazione di Galileo da parte dell’istituzione ecclesiastica si è avuta soltanto in anni relativamente recenti, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Nel 1981 il papa polacco istituisce una commissione che il 31 ottobre 1992 rende noti i risultati dei suoi lavori, sulla cui base Karol Wojtyla ammetterà che la Chiesa aveva commesso, nel caso Galileo, un «errore soggettivo di giudizio». Così la sentenza “definitiva” – per così dire – è stata pronunciata dal Vaticano a quasi 360 anni da quella “di primo grado”.