1.

Nonna Flaminia a ottantasei anni teneva ancora botta. Le avevano portato via un paio di metri d’intestino, ma resisteva in quel letto del policlinico, attaccata alla vita come una zecca.

Suo nipote, Fabietto Ricotti, le era seduto accanto. In mano stringeva un libro ingiallito dall’uso. – Nonna, allora, vuoi che ti leggo una favola?

La donna con le braccia lungo i fianchi respirava a fatica nella maschera a ossigeno.

Fabietto spostò lo sgabello e si fece piú vicino.

Aveva gli occhi socchiusi e non si capiva se fosse sveglia o stesse dormendo.

Il padre a Fabietto l’aveva detto: «Tua nonna è una Ricotti. Ricordati che al tuo bisnonno sul Grappa gli hanno sparato in petto, è tornato a casa e ha fatto sei figli. Noi siamo duri a crepare».

– Nonna, sei sveglia?

L’avevano imbottita di morfina e chissà se capiva qualcosa.

Vabbè, io gliela leggo, almeno passa il tempo… si disse Fabietto e attaccò a leggere.

Tutti i giorni dopo la scuola i bambini andavano a giocare nel giardino del gigante. Era un giardino grande e bello coperto di tenera erbetta. Qua e là spuntavano fiori simili a stelle. Gli uccelli si posavano sugli alberi e cantavano con tanta dolcezza che i bambini smettevano di giocare per ascoltarli.

– Quanto siamo felici qui! – si dicevano.

Un giorno il gigante ritornò. Era stato a far visita al suo amico, il mago di Cornovaglia, una visita che era durata sette anni.

– Che fate voi qui? – domandò con voce burbera e cosí i bambini scapparono.

– Il mio giardino è solo mio! – disse il gigante. – Lo sanno tutti: nessuno, all’infuori di me, può giocare qui dentro.

Cosí costruí un muro tutto’intorno e vi affisse un avviso:

GLI INTRUSI SARANNO PUNITI

Era un gigante molto egoista.

I poveri bambini non sapevano piú dove giocare. Cercarono di giocare in strada, ma era polverosa e piena di sassi. Dopo la scuola giravano attorno all’alto muro e parlavano del giardino.

– Com’eravamo felici! – si dicevano.

Poi venne la primavera, e dovunque, nella campagna, v’erano fiori e uccellini.

Solo nel giardino del gigante regnava ancora l’inverno. Gli uccellini non si curavano di cantare perché non c’erano bambini e gli alberi si scordarono di fiorire.

Soltanto la neve e il ghiaccio erano soddisfatti. – La primavera ha dimenticato questo giardino! – esclamarono. – Perciò noi abiteremo qui tutto l’anno.

Invitarono il vento del Nord. Esso arrivò, avvolto in una pesante pelliccia, e tutto il giorno fischiava per il giardino e abbatteva i camini.

– È un luogo delizioso, – disse. – Dobbiamo invitare anche la grandine.

E la grandine arrivò. Tre ore al giorno essa picchiava sul tetto del castello finché ruppe le tegole.

– Non capisco perché la primavera tardi tanto a venire, – diceva il gigante egoista guardando dalla finestra il suo giardino gelato e bianco. – Mi auguro che il tempo cambi.

Fabietto sbuffando chiuse il libro.

Troppo caldo. Magari la neve e il ghiaccio venissero ad abitare al policlinico.

Nonna Flaminia russava. E pensare che nemmeno quindici anni prima era lei a leggergli le favole d’estate nell’appartamento vicino alla pineta di Torvajanica.

Proprio da questo libro qua. Lo poggiò sul tavolino e guardò l’orologio. Mancavano ancora tre ore prima che sua sorella Lisa gli desse il cambio.

Raccattò da terra «Quattroruote». Sfogliò per la centesima volta la maxiprova dei Suv.

Non c’era storia, il Cayenne dava in culo a tutti.

Solo che il Cayenne gli albanesi te lo inculano che è una bellezza e te lo ritrovi a Tirana carico di cipolle. Mi potrei fare il Rav4 della Toyota. Ha un ottimo rapporto qualità prezzo.

Erano pensieri in libertà. Le condizioni economiche di Fabietto Ricotti sfioravano l’indigenza. Non era nemmeno riuscito a rimediare cinquecento euro per farsi una settimana a Creta con la fidanzata Alexia.

Prese il cellulare e cercò sulla rubrica il numero di Alexia, ma rimase a lungo con il dito sul tasto di chiamata e poi rinunciò.

Costava troppo e quella cretina non aveva attivato nemmeno l’offerta Summer Passport.

Ma un sms però potrei mandarglielo.

Era partita da tre giorni e non era riuscito ancora a parlarci. Le aveva spedito una decina di sms senza ricevere uno straccio di risposta.

Forse a Creta non c’è campo. O forse li legge e non risponde.

Al pensiero di essere ignorato, gli risalí un gas acido dallo stomaco.

I cornetti mi fanno venire la gastrite, perché continuo a mangiarli?

La verità era che gli mancava da morire la sua puffetta e questa cosa gli procurava la colite nervosa.

Io non sono mai stato male per una donna in vita mia, che è ’sta novità?

Era sempre stato un sostenitore accanito della coppia aperta.

«Alexia, ascoltami, se stiamo sempre appiccicati ci stufiamo subito. Se uno vuole farsi un viaggio da solo, o uscire due volte a settimana con gli amici, è una cosa normale. Se uno si fida dell’altro che problema c’è?» le aveva detto quando si erano fidanzati sei mesi prima.

Il problema invece c’era.

Alexia aveva preso un po’ troppo alla lettera questo discorso. Si faceva i cazzi suoi alla grande, talmente alla grande che a Fabietto cominciavano a girare le palle.

Questa impostazione moderna al rapporto, Fabietto l’aveva data pensando di farsi l’estate a Minsk con gli amici a rimorchiare le bielorusse e che Alexia sarebbe andata come sempre a Soverato dai nonni.

Ma il destino aveva scompigliato tutti i suoi progetti.

Lei se n’era andata con quelle della palestra in Grecia, e lui era inchiodato al capezzale di sua nonna senza una lira.

Topolone, un amico che la sapeva lunga, lo aveva avvertito. «A Fabie’, ma che stai a fare? Se te alle donne gli dai la libertà, quelle se la prendono e non le rivedi piú».

La prova che Topolone aveva ragione era che Alexia non rispondeva ai messaggini. E che a Creta non c’era campo era una stronzata, quelli del punto Tim di piazza Bologna gli avevano detto che l’isola era coperta.

Se la vedeva Alexia insieme a Lalla e Loredana con le tette all’aria sulla spiaggia di Xanià a fare le idiote coi turisti tedeschi.

Si mise una mano sulla fronte.

Che cazzata che ho fatto!

Devo raggiungerla. Cosí non posso andare avanti. Le faccio una bella sorpresa. Sai come ci rimane contenta Alexia?

Il problema però era che i soldi per andare in Grecia pure con il piú sfigato dei charter non li avrebbe mai trovati. Li aveva chiesti in prestito a Lisa, ma quella stava messa peggio di lui.

Non gli restava che friggere e guardare sua nonna che moriva.

Se almeno mi facessi una storiella estiva con una rizzacazzi qualsiasi.

Ma Roberta era a Riccione e Giovanna era partita per la Spagna. Aveva conosciuto lí al reparto un’infermiera, una biondina di Ceccano che forse ci stava, ma era andata in ferie pure lei.

Fabietto si passò le mani nei capelli. Erano bagnati. C’era un’umidità in quel posto che ci crescevano i licheni sulle pareti. Aveva letto da qualche parte che con l’umidità il calore si moltiplica per tre, una cosa del genere.

Questa è la sanità italiana. Bravi. E noi ancora che paghiamo le tasse.

Si alzò e cercò di regolare il condizionatore d’aria. Era scassato. Faceva il rumore di un’impastatrice di cemento.

– Flavio! Flavio! Il cane non deve stare sul letto.

Fabietto fece un salto per lo spavento.

La mummia nel letto accanto a sua nonna era resuscitata.

– Flavio! Ti prego, fai scendere il cane, – continuò la donna.

Fabietto si avvicinò a osservarla. La faccia era un teschio con un po’ di pelle sopra. Due tubi le uscivano dal naso e le labbra erano risucchiate nella bocca sdentata.

Sta delirando.

– Flavio…?

Fabietto si grattò la nuca. – Signo’, non c’è nessun Flavio!

– Ah… bravo… Flavio… gioca gioca… il cane, Flavio.

Fabietto alzò il volume della voce. – No signora, nun so’ Flavio e il cane non c’è! Lei sta in ospedale!

La donna sembrò per un attimo aver inteso qualcosa, si azzittí, ma sollevò la mano livida e deforme e se la portò alla faccia cercando di strapparsi i tubi dal naso.

Fabietto le bloccò la mano. – No signo’, bona con quelle mani… lasci stare i tubicini!

La vecchia si calmò. Stese le braccia lungo il corpo e cominciò a russare. Fabietto stava per tornare da sua nonna quando un urlo attraversò la corsia: – Iolanda!

Era ancora la vecchia.

Fabietto si poggiò la mano sul petto e si girò rabbioso verso la vecchia: – E che cazzo signora! Cosí mi fa veni’ un ictus!

– Iolandaaa! – urlò ancora piú forte la donna.

– Nun ce sta Iolanda! Lo vuole capire?

– Flavio! Flavio!

Oramai si strillavano addosso.

– Mannaggia a te! Nun ce sta Flavio, nun ce sta Iolanda! Nun c’è sta ’n infermiere, nun ce sta nessuno, porco due!

La vecchia gridava come se stesse subendo un giro di ruota della santa inquisizione.

Fabietto cominciò a strillare impazzito verso la porta della corsia: – Infermieraaa!

All’improvviso la vecchia si azzittí e rimase immobile con gli occhi sbarrati.

Il tracciato dell’elettrocardiogramma sul monitor accanto al letto era una linea orizzontale.

– Oh! Signora… nun me faccia brutti scherzi, eh? – Le prese una mano. La scosse, ma non successe niente. Mollò il braccio che ricadde senza vita sul materasso.

Fabietto si mise le mani sulla testa. – Mannaggia signo’… mi dispiace… – Premette il pulsante per chiamare l’infermiera. – Te ne sei andata sola come un cane… che brutta morte –. Si aggiustò i bermuda a vita bassa e si mise a camminare per la stanza scuotendo la testa. Poi allungò il braccio verso il corridoio. – Guarda te se viene qualcuno! ’Sti medici di merda! Non ci si crede… – Si andò ad affacciare al corridoio. Deserto.

Stava per mettersi a sedere, quando vide lo sportello del comodino accanto alla morta aperto. Dentro c’era una borsa di Vuitton.

Lascia perdere… Mo’ arriva pure l’infermiera.

Si alzò e andò alla finestra. Fuori non c’era un’anima viva. Il piazzale dell’ospedale bolliva e le cicale urlavano sui pini rinsecchiti.

Si avvicinò circospetto al comodino con le mani in tasca. Si guardò intorno.

Tanto a te… non ti servono piú, no?

Prese la borsa. Dentro c’era un’agenda, un mazzo di chiavi e il portafoglio. Lo aprí. Cinquanta euro. Li intascò rapido.

Nel portafoglio c’era la carta d’identità. La foto era vecchia, almeno di una ventina di anni. Una signora elegante. Guardò il nome. Letizia Tombolino Scanziani.

Ha il doppio cognome. È una nobile. Questa ha i soldi.

Guardò l’indirizzo. Via Gramsci 39.

Parioli.

E quelle lí dovevano essere le chiavi di casa.

2.

Il quartiere Parioli sembrava evacuato per un virus letale. Nelle gabbie dello zoo gli animali se ne stavano in silenzio, rimbambiti dal caldo. Perfino i licaoni e gli avvoltoi si erano azzittiti.

Fabietto Ricotti in sella al suo scooter Kymco 125 si aggirava per le strade deserte. La testa, nel casco, gli pulsava come in un forno a microonde. Salí via Monti Parioli e scese per via Gramsci. Inchiodò davanti al civico 39.

La strada era sgombra di macchine e non passava nessuno.

Si tolse il casco, smontò e poggiò l’infradito sull’asfalto. Il sandalo gli affondò nel manto stradale mollo. Si accese una sigaretta. Cacciò fuori una boccata di fumo e osservò il palazzo di Letizia Tombolino Scanziani.

Tutte le finestre avevano le serrande abbassate.

Si mise una mano in tasca e strinse il mazzo di chiavi. Gettò la sigaretta e con passo disinvolto si avvicinò al portone. Guardò i nomi sul citofono. Portiere. Int. 2, De Marzio. Int. 3, Avv. Vitiello. Int. 4, Clodia cinematografica Srl… Int. 18, Tombolino Scanziani.

Allungò l’indice e suonò all’interno 18.

Bzzzzz.

Attese. Se qualcuno avesse risposto, era pronto a darsela a gambe, come da bambino quando faceva gli scherzi nel condominio di Tor Marancia.

Suonò di nuovo.

Bzzzzzzzzzzzzzzz.

Niente.

Fabietto sorrise e tirò fuori il mazzo di chiavi. Ce n’erano tre piccole e una lunga. Cominciò infilando la piú piccola. Non girava. Passò alla seconda, ma neanche entrava nella toppa.

Ecco la sfiga, queste non sono le chiavi.

Infilò l’ultima e il grosso portone si aprí silenziosamente e una folata di aria fresca gli accarezzò la faccia sudata.

L’androne era in penombra. Marmo a terra e appesa a una parete un’enorme litografia del Colosseo. Sulla sinistra c’era la guardiola. Dentro, su un tavolino di fòrmica, c’erano pile di riviste e della posta. In un angolo un piccolo televisore in bianco e nero acceso e senz’audio.

Da qualche parte, nel palazzo, doveva esserci il portiere.

Fabietto si avvicinò alle scale che si avvolgevano a spirale intorno alla gabbia dell’ascensore. Stava per premere il pulsante di chiamata, quando si accorse che le corde si muovevano.

Qualcuno sta scendendo!

Prese le scale e cominciò a salire i gradini cercando di non far rumore, ma le infradito schioccavano sul marmo. Se le sfilò e proseguí a piedi nudi.

Arrivato al primo piano si schiacciò contro il muro. Cigolando la cabina di vetro gli passò davanti. Dentro c’era un uomo smilzo, sulla sessantina, con una divisa scura e un annaffiatoio in mano.

Il portiere…

Fabietto ricominciò a salire. Al sesto piano sopra una porta massiccia con le maniglie d’ottone annerite dal tempo, c’era una targa con inciso «18».

Prese la chiave piú lunga e la infilò nella toppa.

Hmm… E se c’è l’antifurto?

Il portiere l’avrebbe sentito sicuro, ma era vecchio e sarebbe salito su con l’ascensore e lui avrebbe avuto tutto il tempo per darsi alla fuga giú per le scale.

La serratura era dura e girava a fatica.

Dopo tre mandate finalmente la porta blindata si schiuse sull’appartamento della contessa Letizia Tombolino Scanziani.

3.

All’interno era buio e si schiattava di caldo.

La vecchia doveva aver chiuso tutte le finestre prima di ricoverarsi. C’era silenzio, solo il rumore di una pendola batteva il tempo nell’aria viziata.

Un odore di lucido per mobili e di polvere si mischiava a un puzzo acre e dolciastro, come di carne andata a male.

Che schifo, la vecchia avrà dimenticato il polpettone fuori dal frigo…

Fabietto tastò il muro e trovò l’interruttore.

Le applique di ceramica illuminarono un corridoio coperto da una carta da parati a fiori stinti. Appesi ai muri c’erano dei quadri a olio, ma il tempo e la polvere avevano tolto tutta la lucentezza ai colori. Macchie nere da dove spuntavano occhi, mani e denti.

Poggiò le chiavi sulla consolle di mogano.

Ma da quanto tempo non entra qualcuno qua dentro?

La prima cosa era trovare una borsa per metterci dentro la refurtiva.

Aprí una porta del corridoio ed entrò in un salone. Le serrande erano abbassate e dai fori tra le stecche s’infilavano dei raggi di luce in cui danzava la polvere. Un divano capitonné e tre poltrone damascate lise stavano davanti a un Saba a colori degli anni Ottanta.

Vedi che cacata ’sto televisore.

In fondo al salone c’era una vetrinetta che proteggeva una collezione di piatti di ceramica dipinti. Su un carrellino di bambú tarlato erano posate decine di bottiglie impolverate. Rosolio, Mistrà Pallini e Batida de Côco.

L’eccitazione del primo momento stava passando.

Ripensandoci, perché una impaccata di soldi schiattava all’ospedale pubblico e non in una bella clinica privata? La vecchia puzzona doveva essere una di quelle contesse decadute senza lo straccio di una lira.

Fabietto tornò in corridoio. ’Sta mondezza manco alle bancarelle dei russi a Porta Portese!

Spalancò un’altra porta e si ritrovò nella stanza da letto. Il letto matrimoniale con una lugubre testiera di legno nero scolpito era proprio al centro. Sulla rete erano impilati tre materassi di lana coperti da una trapunta all’uncinetto. Due file di cuscini alti e duri si appoggiavano alla testiera. Sopra il letto pendeva un cordoncino elettrico con la peretta di marmo. Fabietto la spinse. Un lampadario di vetro di murano si illuminò. In un angolo vide uno scrittoio con uno specchio opaco e sul piano di marmo, in ordine perfetto, limette, forbicine, pinzette, matite da trucco, vasetti di crema e pennelli coperti di polvere.

I cassetti erano pieni di scatoline di velluto. Ne prese una e la aprí.

Una collana di perle.

– Porco due! – se la infilò in tasca.

Cominciò ad aprirle tutte. Anelli, braccialetti, spille di diamanti, orecchini. Fabietto si infilava tutte le gioie nei tasconi laterali dei bermuda. Quando aprí l’armadio e ci trovò una collezione di monete d’oro, dovette sedersi sul letto e riprendere fiato. Gli tremavano le mani.

Quanto poteva valere quella roba?

Abbastanza per andare a Creta.

Doveva esprimere la sua gioia.

Chiamò Topolone.

– Ciao secco.

Fabietto mise una mano sul microfono. – A Topolo’, non puoi capire…

– Non ti sento. Che è successo? Nonna è morta?

– No, macché. Ma dove cazzo stai? Sento un casino!

– Sto a Ostia. Ai cancelli.

– Topolone, ti devo dire una cosa… Sto in un appartamento. Ho inculato le chiavi a una morta in ospedale. Non sai la roba che ci ho trovato!

Topolone s’era eccitato. – Noooo… Ma che te stai a fa’ ’n appartamento? Sei un grande! Massimo rispetto –. Poi ci fu una pausa. – Ahò, però mi raccomando Fabie’. Se ti beccano, coi precedenti che hai, due anni a Rebibbia non te li leva nessuno!

Fabietto, circa un anno prima, per la festa dei suoi diciannove anni aveva ricevuto un bel tocchetto di fumo da suo cugino Brando. Mentre tornava a casa, a piazza Risorgimento, s’era incuneato come un aratro con la ruota anteriore del Kymco nelle rotaie del 30 barrato. Era scivolato sui sampietrini e s’era stampato contro la macchina della stradale ferma al semaforo. Gli avevano beccato il fumo e l’avevano processato per direttissima. Non avendo precedenti penali se l’era cavata, ma s’era macchiato la fedina.

– Tranquillo Topolo’. Frate’, però me devi dare una mano a smerciare i gioielli.

– Be’… ci sarebbero Bresaola e Pitbull, ma quelli si pigliano solo gli stereo e i cellulari. Non lo so se trattano pure i gioielli…

– Vabbè, ci organizziamo. Se beccamo stasera al pub, va bene?

– Certo. Ahò, ma ci scappa qualcosa pure per me?

– Tranquillo Topolo’, gli amici non se scordano. Ti porto a Creta con me.

– Grazie fratello!

Fabietto tornò in corridoio sfregandosi le mani. – Certo pure ’sti tappeti sarebbero da portarseli via… solo che cazzo… sto in motorino… – Aprí il cassetto del trumò di mogano. C’erano delle agende, penne, e un pacco di bollette unite con una graffetta a tre banconote da cento euro. – E vai cosí… contessa Strozzi Capozzi de ’sto par de cazzi, – sghignazzò soddisfatto per il battutone.

La puzza era diventata asfissiante, e man mano che avanzava nel corridoio, diventava piú forte.

– Aria…! – Tirò su la serranda di una portafinestra e apparvero centocinquanta metri quadrati di terrazzo. Nei vasi le piante erano tutte morte. Un tempo doveva essere stato un vero e proprio giardino pensile. Adesso rose, buganvillee, glicini, ibiscus erano sterpi gialli e rinsecchiti.

Uscí a prendere una boccata d’aria.

Il sole s’era nascosto dietro i palazzi dei Parioli e un soffio di ponentino lo accarezzò.

Gli vibrò il cellulare.

Topolone!

Ma sul display c’era scritto «Alexia».

Cercò di calmarsi, di iperventilare e di non rispondere subito, ma al quinto squillo non ce la fece piú… – Ale!?

– Pronto Fabio… Come stai? Mi senti?

– Sí ti sento amore, ti sento benissimo. Ma quanto stai a spendere? Vuoi che ti richiamo?

– Non ti preoccupare, tranquillo.

– Allora come va? Ti stai divertendo?

– Sí, sí… tantissimo. Ci manchi solo tu. Che peccato…

Un sorriso si disegnò sulla bocca di Fabietto. – Alexia ti devo dire una cosa bellissima.

– Cosa? Nonna sta meglio?

– No, nonna sta sempre male… Ma arrivo!

– Dove? – Alexia non capiva.

– A Creta. Ho rimediato i soldi! – le disse col petto gonfio d’orgoglio.

– Che soldi?

– Mo’ non ti posso spiegare, ma vengo –. Fabietto si sedette su una sedia di ferro battuto e poggiò i piedi su un tavolo maiolicato, come se stesse a casa sua. – Ma com’è Creta? È bello l’albergo?

Silenzio.

Fabietto alzò il volume della voce. – Ale, mi senti? Ci sei ancora?

– Lo sai chi c’è qua?

– No. Chi c’è?

– Memmo Biancongino.

– E chi è?

– Memmo… Ma come? Mi ha detto che giocava con te a calcio!

Fabietto si diede un colpo sulla fronte. – Ah, come no! Certo. Memmo! Mortacci sua. È un fratello. Passamelo subito…!

– No… ora non può, sta in acqua.

– Vabbè, salutamelo tu. Tanto arrivo domani. Mi sa che viene pure Topolone. Non sai quanto mi sei mancata. Ma non li leggi gli sms?

– Sí, li ho letti. Solo che… – Alexia tirò un respiro. – Ascolta, non ti voglio prendere in giro, ti voglio troppo bene…

Fabietto tolse i piedi dal tavolo. Alexia aveva un tono di voce che non gli piaceva. – Cosa?

– Ce lo siamo sempre detti…!

– Che ci siamo sempre detti?

– Che poteva succedere…

– Che poteva succedere cosa?

– Dài, lo sai pure tu che ultimamente il nostro rapporto era scivolato nella routine.

– Ma quale routine?! – Fabietto avrebbe voluto aggiungere «Di che cazzo stai parlando?» ma gli si materializzò davanti l’immagine di quel pezzo di merda di Memmo Biancongino che si ingroppava la sua donna in un bungalow di Creta.

Intanto Alexia continuava a parlare, a spiegare: – … dobbiamo essere maturi, – ma Fabietto non sentiva piú. La rabbia lo stava soffocando. Cominciò a dondolare la testa guardando il cielo. E poi dalle viscere gli uscí un ringhio. – Puttana! Sei una puttana! E di’ a quel fijo de ’na mignotta de Memmo che vengo là e gli spezzo le ossa una a una!

– Fabio, te prego, non la devi pija’ cosí, – piagnucolò Alexia.

– E come la devo pija’! – Strizzò il cellulare nella mano e poi lo fracassò sul tavolo. – Ner culo la devo pija’! – e continuò a martellare il telefonino fino a quando non gli rimasero conficcati nella mano chip, tasti e sim. Si guardò il palmo sanguinante e rientrò nell’appartamento urlando: – Io vi ammazzo a tutti e due, quant’è vero iddio vi anniento a tutti e due. Cominciate a scappare –. Andò alla porta, afferrò la maniglia e la girò, ma non si aprí. – E mo’ perché non s’apre? – Poi si ricordò. Prese le chiavi dalla consolle di mogano. Era talmente teso che le vene gli guizzavano come serpi scure sull’avambraccio. Affondò la chiave nella serratura come fosse lo stomaco di Biancongino e girò.

Mezza chiave gli rimase in mano.

4.

Accasciato sul divano della contessa Tombolino Scanziani, Fabietto Ricotti osservava con un sorriso ebete un dipinto di una caccia al cinghiale appeso sul camino. In mano stringeva una mezza bottiglia di Batida de Côco.

– Che quadro di merda, – disse e ruttò.

Il cinghialone era stato chiuso da una muta di cani contro le rocce.

Quello sta come me.

Fabietto era da circa mezz’ora che cercava di fare mente locale.

L’unica cosa chiara era di essere intrappolato. Aveva provato a estrarre il mozzicone di chiave incastrato nella serratura senza riuscirci. Aveva preso a calci la porta, ma era blindata.

E giusto perché la vita gli sorrideva, l’appartamento era al sesto piano.

Quindi di uscire dalla finestra non se ne parlava.

Ho pure sfondato il cellulare, che testa di cazzo! Mo’ m’affaccio alla finestra e urlo. Magari qualche stronzo mi sente.

Ma la saggia voce di Topolone lo riportò alla realtà: «Ahò, però mi raccomando Fabie’. Se ti beccano, coi precedenti che hai, due anni a Rebibbia non te li leva nessuno!»

Si alzò di scatto e per poco non cadde a terra. Si aggrappò alla vetrinetta e si guardò intorno. Su un comodino era posato un telefono di marmo con la cornetta dorata circondato da una collezione di piccoli gatti di ceramica.

Prese la mira, si staccò dalla vetrina e ondeggiando raggiunse l’apparecchio.

Afferrò la cornetta e si accorse che il telefono era muto. Si chinò e seguí il filo fino alla presa a parete. La spina era inserita.

La vecchia stava in arretrato con la Telecom.

Tornò nel corridoio senza sapere piú che fare. Aprí un armadio a muro pieno di lenzuola e coperte. Spalancò una porta e una zaffata di carne marcia lo avvolse. Dovette mettersi una mano sulla bocca per non vomitare.

In cucina nugoli di mosche avvolgevano una roba scura sotto il frigorifero.

Cos’era? Sembrava… Un cane?

Sí. Era un cane.

Stava a zampe spalancate, steso sulla schiena in una pozzanghera di un liquido denso e nero. Il povero animale aveva il ventre squarciato e gli intestini gonfi e ricoperti da un tappeto brulicante di larve bianche che fuoriuscivano come un gigantesco bruco.

La testa si era rattrappita e da un lato della bocca gli usciva una lingua gonfia e viola.

Una volta doveva essere stato un cocker o un breton spaniel.

Fabietto si ricordò dei deliri della vecchia in ospedale.

Forse quello era il cagnolino che non doveva salire sul letto.

Richiuse la porta. Non riusciva a capire. Probabilmente la contessa aveva collassato in casa, e quando era arrivata l’ambulanza avevano lasciato là il cane. E la bestia senza bere e senza mangiare era morta. Fino a qua tutto tornava. Ma non si muore cosí di sete. Quel cane sembrava finito sotto un intercity.

Tornò sul terrazzo.

Il sole era tramontato e tra le cime dei pini brillavano le luci di qualche appartamento.

Fabietto si sedette e guardò i pezzi del cellulare sparsi sulle mattonelle. Su una parete c’era una fontanella di marmo. Aprí il rubinetto e dopo qualche borbottio, l’acqua cominciò a uscire. Aspettò che si raffreddasse e bevve. Ci mise la testa sotto e gli parve di rinascere. Si affacciò alla balaustra.

Al piano di sotto c’era un terrazzino.

Ma come ci arrivo? E poi una volta là sopra era punto e a capo. Si grattò la testa e vide che su una parete del terrazzo si arrampicava il tronco di un glicine rinsecchito. Sul tetto spuntavano antenne e parabole. Qualcuno ce l’aveva messe, quindi doveva esserci un terrazzo condominiale.

E una porta…

Scosse il glicine. Una pioggia di foglie secche gli cadde addosso.

Sembrava tenere.

Si tolse le infradito e se le infilò nella cinta, afferrò il tronco, puntò i piedi sul muro e cominciò la scalata.

I primi due metri se li fece tranquillo. Poi si rese conto di un problema. Alla fine della parete il tetto sporgeva di un mezzo metro. Avrebbe dovuto mollare il tronco e attaccarsi alla grondaia. E poi solo con l’aiuto delle braccia issarsi sul tetto.

All’istituto tecnico industriale «Enrico Fermi» Fabietto passava in mezzo ai buchi del quadro svedese senza nean­che toccarlo con le mani, usando solo gli addominali e le gambe. Lo chiamavano «l’Anaconda».

Arrivò alla fine del glicine stretto al tronco e poi con uno scatto di reni s’aggrappò alla grondaia penzolando sopra il terrazzo.

Doveva fare in fretta. Le staffe che reggevano la grondaia si stavano lentamente piegando. Doveva mollare la presa e attaccarsi alle tegole del tetto.

Lo fece.

Come se avesse afferrato due libri poggiati su una credenza, le tegole si sfilarono e gli rimasero in mano. Ebbe solo il tempo di bestemmiare poi la gravità lo porto giú, e lo schiantò a terra tra un vaso di cemento e il tavolo.

Steso sul pavimento guardava il cielo a bocca aperta. Le stelle pulsavano nella volta celeste e gli sembrava di essere finito su un pianeta privo di ossigeno, perché continuava a succhiare aria senza riuscirci. Finalmente un colpo di tosse gli liberò la trachea e dalla bocca con uno spruzzo gli uscí tutta l’acqua che s’era bevuto. In cambio ricevette una boccata d’ossigeno. A braccia aperte come un Cristo in croce, la bocca spalancata e la testa poggiata sulle mattonelle ancora roventi, riprese a respirare.

Sono vivo. Poi un’onda di sofferenza gli risalí dai piedi su per le caviglie, gli attraversò i polpacci, le ginocchia, le cosce, gli rattrappí le viscere, gli strizzò il diaframma e gli esplose tra le tempie. Come la mamma premurosa copre il figlioletto dai rigori dell’inverno con una coltre, cosí la sorte bastarda coprí Fabietto Ricotti con un sudario di dolore.

Si guardò la mano destra. Ordinò alle dita di chiudersi e quelle obbedirono.

Almeno non era paralizzato, ma aveva paura a guardare in basso.

Lí, dove il dolore aveva la sua sorgente.

Tirò su la testa.

Guardò.

Svenne.

5.

La ventola del condizionatore sbatteva ritmicamente e un bip come quello di una sveglia gli faceva da contrappunto. Ogni tanto la finestra di fronte scricchiolava spinta dal vento. La sinfonia di rumori era intervallata dal suo respiro, cupo e regolare, nella maschera a ossigeno.

Aveva un ago infilato nel braccio sinistro.

Sono in ospedale.

Cercò di ricordarsi chi ce lo aveva portato, ma si ricordava solo che steso sul terrazzo si guardava…

Un lenzuolo bianco lo ricopriva fino al petto. Sotto il tessuto la cassa toracica si gonfiava e si sgonfiava al ritmo del respiro e sullo stomaco c’era una scritta in azzurro: «Policlinico Umberto I». Le cosce, parallele, erano allungate sul materasso, ma all’altezza delle ginocchia improvvisamente il lenzuolo si appiattiva sul letto.

Le mie gambe?!

Cominciò ad agitarsi, a tastare il comodino alla ricerca del campanello dell’infermiera.

Si strappò la maschera dal volto. – Aiuto!!!

Una mano gli accarezzò il braccio. – Calmo, stai calmo. È tutto a posto.

Fabietto si accorse che accanto a lui c’era nonna Flaminia.

Le afferrò il polso e annaspando frignò. – Nonna, le gambe! Mi hanno tagliato le gambe!

– No Fabio, non te l’hanno tagliate. Guarda! – e sollevò il lenzuolo.

Erano lí. Tutte e due. E pure i piedi.

– Oddio nonna che spavento.

– Ora tu devi fare la ninna… il tuo corpo ha bisogno di riposare –. Nonna Flaminia gli accarezzò la testa.

– Ma tu stai bene allora!?

Nonna Flaminia annuí sorridendo. – Ricordati che noi Ricotti siamo duri a morire! Adesso ti racconto la tua fiaba preferita…

– Quella del gigante egoista?

– Certo, stellina –. Prese dal comodino il libro delle favole, lo aprí e disse: – Dove eravamo rimasti?

– A quando nel giardino del gigante non veniva piú la primavera…

Nonna Flaminia sfogliò il libro, trovò la pagina, la lisciò e cominciò a raccontare.

Ma la primavera non venne mai e nemmeno l’estate. L’autunno diede frutti d’oro a tutti i giardini, ma neanche uno a quello del gigante. Era sempre inverno laggiú e il vento del Nord, la grandine, il gelo e la neve danzavano tra gli alberi.

Una mattina il gigante sentí una dolce musica dal suo letto, risuonava tanto dolce che pensò fossero i musicanti del re. Era solo un merlo che cantava fuori dalla finestra, ma non sentiva cantare un uccellino nel suo giardino da cosí tanto tempo che gli sembrò la musica piú bella del mondo.

La grandine smise di danzare sulla sua testa, il vento del Nord di fischiare, e un profumo delizioso giunse attraverso la finestra aperta.

– Credo che finalmente la primavera sia venuta, – disse il gigante e guardò fuori.

Attraverso un’apertura del muro erano entrati i bambini e sedevano sui rami degli alberi. Gli alberi, felici di riaverli, s’erano ricoperti di fiori e gentilmente dondolavano i rami sulle loro testoline.

In un angolo soltanto regnava ancora l’inverno. Era l’angolo piú remoto del giardino, e c’era un bambinetto. Era tanto piccolo che non riusciva a raggiungere il ramo dell’albero e piangeva disperato girandoci intorno. Il povero albero era ancora ricoperto dal gelo e dalla neve e il vento del Nord gli fischiava addosso.

– Arrampicati piccolo, – disse l’albero piegando i suoi rami quanto piú poté: ma il bimbetto era troppo piccino.

A quella vista il cuore del gigante si intenerí.

– Come sono stato egoista! – disse. – Ora ho capito perché la primavera non voleva venire. Metterò quel bambino in cima all’albero, poi butterò giú il muro e il mio giardino sarà, per sempre, il campo di giochi dei bambini.

Scese lentamente le scale e aprí la porta d’ingresso. Ma quando i bambini lo videro, si spaventarono tanto che scapparono, e nel giardino tornò a regnare l’inverno. Soltanto il bambinetto non scappò. I suoi occhi erano cosí ricolmi di lacrime che non vide il gigante avvicinarsi.

Cosí il gigante arrivò di soppiatto dietro di lui, lo prese delicatamente nella sua mano e lo mise sull’albero.

6.

Fabietto Ricotti aprí un occhio, si riparò con la mano e si guardò intorno.

Non c’erano alberi ricoperti di neve, e lui non stava su un ramo, ma sul pavimento bollente del terrazzo della contessa Tombolino Scanziani. Sopra, in alto, volteggiava uno stormo di gabbiani. Il cielo era opaco. Al centro la macchia stinta del sole. Fabietto aveva la testa bollente ma tremava di freddo. La lingua gli si era gonfiata e non gli stava piú in bocca. Le gambe erano intorpidite e un dolore sordo pulsava al ritmo del battito cardiaco.

Devo bere.

Prima però bisognava capire che gli era successo alle gambe.

Provò a sollevare la testa, ma gli pesava come un blocco di cemento. Forse non era ancora il momento di alzarsi. Doveva dormire un altro po’. Tornare nel giardino incantato del gigante egoista.

Il capo gli scivolò sulla spalla e si accorse che i passeri sugli alberi cinguettavano disperati, e da qualche parte, lontano, si sentiva una radio accesa.

«… oggi l’emergenza caldo si fa piú pressante. La temperatura dovrebbe salire ancora di qualche grado quindi consigliamo, soprattutto per chi è rimasto in città, di tenere le persiane abbassate e di non uscire nelle ore piú calde. Il consiglio vale ancora di piú per le persone anziane e i bambini. Mi raccomando, bevete, e non esponetevi a correnti di aria fredda. Esiste un numero verde da chiamare in caso di necessità… una raccomandazione speciale per quelli che sono caduti sui terrazzi: mettetevi all’ombra e bevete Rocchetta, Sprite, chinotto, Bacardi Cola, ma con tanto ghiaccio mi raccomando… e chiamate subito Topolone!»

– Ahhh, – si lamentò Fabietto toccandosi le labbra secche. Con uno sforzo sovrumano si sollevò e il quartiere Parioli coi suoi palazzi residenziali cominciò a girare. Quando la giostra si fermò, decise di dare un’occhiata alle sue gambe.

L’osso della tibia destra spuntava come una zanna affilata dallo stinco della gamba. Lo squarcio era lungo una ventina di centimetri, intorno il sangue si era rappreso e sembrava marmellata di visciole. Il piede era gonfio e viola e le dita dei salsicciotti giallastri.

Fabietto scoppiò a piangere. – Noo, vi prego, aiutatemi… aiutatemi…

Rimase cosí fino a quando la sete non divenne insopportabile. Doveva raggiungere la fontanella.

Sulle maioliche del terrazzo c’era una lunga scia di sangue. Partiva da sotto il glicine, dove era caduto, e arrivava fino a lui, come se…

Qualcuno mi ha trascinato vicino alla finestra…

Ma chi? La casa era vuota. E se anche ci fosse stato qualcuno, perché tirarlo fino a lí e non portarlo dentro?

Forse di notte era strisciato verso l’appartamento e non se lo ricordava piú.

Urlando di dolore, facendosi forza sulle braccia, si avvicinò al rubinetto. Allungò una mano ma la vasca era troppo alta. Proprio sotto la fontanella c’era un vecchio mortaio di marmo pieno d’acqua giallastra. Dentro galleggiavano insetti morti e larve di zanzara. Ci infilò la testa e bevve fino a quando si sentí scoppiare. Poi si lasciò andare sul pavimento.

Doveva organizzare un piano per uscire da quell’incubo pariolino.

Il cellulare era sparso per il terrazzo. Il telefono di casa era isolato, e nella porta d’ingresso c’era la chiave spezzata.

Gli rimanevano due alternative: o scendeva giú il Padreterno e se lo caricava, oppure doveva cominciare a urlare e chiedere aiuto. L’avrebbero trovato e sbattuto a Rebibbia. Ma qualunque cosa era meglio che morire lí.

Si coricò su un lato e iniziò a spingere con la gamba buona verso la ringhiera. A ogni spinta, una lama rovente gli pugnalava l’arto rotto lasciandolo inebetito. Non immaginava che il corpo umano potesse produrre una tale quantità di dolore.

Finalmente raggiunse la balaustra e si aggrappò alle colonnine di cemento. Guardò in strada. Macchine non ne passavano e nemmeno pedoni. C’era un negozio, La boutique del cane, ma aveva la serranda abbassata.

Il sole era già alto nel cielo, quindi dovevano essere come minimo le undici. Con la coda dell’occhio, notò un movimento proprio sotto il palazzo.

Un uomo scopava il marciapiede.

Il portiere.

Fabietto infilò un braccio fra le colonnine e mosse la mano. – Ahhhhòòò!

Non aveva voce. Prese fiato e ci riprovò. – Ohhhhhhh… – Ma gli uscí un rantolo svuotato.

Il portiere finí di ramazzare e rientrò nel palazzo.

Fabietto, accasciato ai piedi della ringhiera, rimase intontito a contemplare via Gramsci deserta.

A settembre avrebbero ritrovato le sue ossa spolpate da corvi e gabbiani.

Da una parte la prospettiva non gli dispiaceva. In fondo non sarebbe mancato a nessuno. A suo padre certamente no. Sua madre, sotto litio da anni, non se ne sarebbe nemmeno accorta. E Alexia avrebbe potuto continuare a trombare serena con quel bastardo di Memmo Biancongino.

No, questo è troppo.

L’idea di sfondare la testa contro un muro a quel giuda gli diede la forza di reagire.

Lentamente, si trascinò di nuovo alla fontanella. A terra trovò una molletta per i panni. La strinse tra i denti. Accanto ai gerani c’era il tubo per innaffiare arrotolato. Lo afferrò. La plastica era calda e morbida. Cominciò ad avvolgersi il tubo intorno alla gamba rotta mordendo la molletta per non svenire dal dolore. Quando lo passò sullo spunzone d’osso che gli usciva dallo stinco, cacciò un urlo bestiale, e per poco non si ingoiò la molletta. Riprese fiato, finí di stringere il tubo intorno alla gamba, si aggrappò alla fontanella e si tirò su.

– Sííííí! – grugní sollevando la testa verso il cielo.

Da un vaso spuntava una canna. La prese e la usò come un bastone.

Sicuro la vecchia qualche medicina ce l’ha… un’Aspirina, un Momentact…

Qualcosa che placasse un po’ il dolore.

7.

Nell’ombra dell’appartamento si stava meglio.

Il gabinetto era una stanza lunga con delle mattonelle a rombi. La vasca di lato con la tendina di plastica ammuffita. Un odore chimico di medicine si mischiava a quello dell’acqua del water marrone di ruggine. Sopra degli scaffali di cristallo era posata un’intera farmacia. Scatole, scatolette, flaconi ingialliti e coperti di polvere. Lasonil. Maalox. Ananase. Fave di fuca. Guttalax. Aspirina.

– Eccola…

Tirò fuori le compresse dall’astuccio e cominciò a cacciarsele in bocca.

Mentre sentiva il sapore amaro e benefico dell’acido acetilsalicilico, seppe come andarsene da quel posto.

Come aveva fatto a non pensarci prima?

Era cosí semplice.

Doveva prendere dei vasi e gettarli giú in strada fino a quando qualcuno non si sarebbe accorto di lui.

Contento girò il rubinetto e cominciò a bere a occhi chiusi. Poi infilò la testa sotto l’acqua fresca gemendo di piacere. Gli sembrava addirittura di sentire delle mani che gli massaggiavano il cuoio capelluto. Come da bambino quando suo padre gli faceva lo shampoo in negozio. Chiuse il rubinetto. Afferrò un asciugamano e se lo passò sulla faccia. Si guardò allo specchio.

Alle sue spalle c’erano due braccia grosse e pelose come prosciutti di cinghiale che gli incombevano sulla testa.

– Dov’è nonna? – gli domandò una voce cavernosa.

Fabietto Ricotti cominciò a urlare.

8.

Beppone russava nel grande giardino e sul suo nasone volò un moscerino. Il vento suonava un bel valzerino cosí il moscerino si mise a ballar. Ullallà ullallà ullallà là questo è il valzer del moscerino! Questo è il valzer che fa là llà llà! Beppone rus… Beppone rus… Beppone rus…

Il disco cominciò a saltare.

Dove sono finito?

Fabietto Ricotti provò ad aprire gli occhi ma non ci riuscí. Aveva le palpebre incollate. Il sangue gli impastava la bocca e si accorse che gli mancavano due incisivi.

Cercò di calmarsi e radunare i pensieri.

Ero in bagno e avevo la testa sotto il rubinetto dell’acqua, ho guardato lo specchio e poi… ho visto…

Qualcuno gli aveva sbattuto la faccia contro il lavandino.

– Beppone rus… Beppone rus… Beppone rus…

Improvvisamente il disco ripartí gracchiando.

– … un petalo rosa caduto dal ciel ullallà ullallà… questo è il valzer del moscerino… questo è il valzer che fa là llà llà!

Tastando con le mani si accorse di essere steso su un letto. Alzò un braccio, che sembrava ripieno di piombo, e si portò la mano agli occhi. Li stropicciò e finalmente le palpebre incrostate di sangue si aprirono. C’erano decine di stelline fosforescenti attaccate su un soffitto blu notte.

– … ma un gatto birbone…

Sul muro di fronte, ricoperto da una carta da parati con degli aeroplanini disegnati, erano appesi un poster di Heidi che correva con Peter e le caprette e quello della famiglia Barbapapà. Su una libreria era ordinata la collezione dei Quindici, un mappamondo illuminato e il Grande libro della natura. Giornaletti di Topolino e Tex riempivano il resto degli scaffali.

Lentamente Fabietto si girò.

Al centro della stanza, a terra, era seduto un uomo di spalle. Era enorme. Doveva pesare minimo minimo duecento chili. Non aveva il collo. La testa, al contrario di tutto il resto, era piccola e calva, incassata nelle spalle spioventi. E la schiena era larga come una botte di Sangiovese. Indossava un paio di calzoncini da tennis Sergio Tacchini e una vecchia maglia della Lazio stinta e sformata dai rotoli di ciccia, con lo stemma della squadra e la scritta «1974 Campioni d’Italia». Ai piedi un paio di mocassini college. Accanto un mangiadischi continuava a suonare la canzoncina dello Zecchino d’Oro.

Quando il Valzer del moscerino terminò, l’orco si girò verso il mangiadischi. Poggiò a terra dei pezzetti di Lego insanguinati e con un dito che pareva un würstel tirò fuori il 45 giri. Lo rimise nella copertina e ne afferrò un altro. Lo infilò e una voce femminile cominciò a cantare:

… a mille ce n’è, nel mio cuore di fiabe da narrar… venite con me nel mio mondo fatato per sognaaar… – Una voce maschile attaccò: – Tutti i giorni dopo la scuola i bambini andavano a giocare nel giardino del gigante.

No, la favola del gigante egoista! Che stava succedendo?

… Cosí il gigante arrivò di soppiatto dietro di lui, lo prese delicatamente nella sua mano e lo mise sull’albero. E l’albero fiorí e gli uccellini vennero a cantare. Il bambino allungò le braccine, si avvicinò al collo del gigante e lo baciò. Non appena gli altri bambini videro che il gigante non era piú cattivo, ritornarono di corsa e con essi venne la primavera.

– Bambini, ora questo è il vostro giardino, – disse il gigante e con un grande martello buttò giú il muro. La gente che andava al mercato notava il gigante giocare con i bambini nel giardino piú bello che avessero mai visto.

– Dov’è il vostro piccolo amico? – chiese il gigante. – Il bambino che ho messo sull’albero?

Il gigante lo amava piú di tutti perché lo aveva baciato.

– Non lo sappiamo, – risposero i bambini.

– Dovete dirgli che domani deve assolutamente venire, – disse il gigante.

Ma i bambini risposero che non sapevano dove abitasse e che non l’avevano mai visto prima, allora il gigante si sentí molto triste.

Ogni pomeriggio, dopo la scuola, i bambini venivano a giocare con il gigante. Ma il bambinetto non si vide piú. Il gigante era molto buono con tutti, ma rivoleva il suo piccolo amico.

Gli anni passarono, e il gigante diventò vecchio e debole.

L’essere girò la testa ovoidale verso Fabietto e gli domandò triste: – Perché il gigante diventa vecchio e debole?

Da piccolo Fabietto aveva visto un film in bianco e nero di cui non ricordava il titolo ma era la storia di un circo in cui vivevano tutti scherzi della natura. Nani con la capoccia a cono, gemelli siamesi, donne con la barba.

Quel film di merda non l’aveva fatto dormire per mesi.

Ma adesso ne aveva uno davanti al cui confronto quelli dei film erano modelli di Armani. Aveva due guance paffute e una bocca larga da cui spuntavano una chiostra di denti piccoli, aguzzi e distanti tra loro. Appena sopra, un naso rincagnato divideva gli occhi piccoli e neri come due liquirizie sormontati da un unico sopracciglio. A occhio e croce doveva aver passato i quaranta.

– Allora, perché diventa vecchio e debole? Non lo capisco.

Fabietto usò un tono il piú rassicurante possibile. – Perché passa il tempo… e uno diventa vecchio. È la vita.

L’orco si accigliò e poi gli chiese: – Dov’è nonna?

Nooo. Questo è il nipote della vecchia. Quello che non doveva far salire il cane sul letto. Aspetta, come si chiamava… Flavio! – … Flavio? – provò.

Il mostro si batté il petto contento. – Io sono Flavio. Te?

– Io… Fabio.

Flavio inclinò la testa di lato, come fanno certe volte i cani quando prestano attenzione al padrone: – Giochiamo?

Fabietto guardò i pezzi di Lego insanguinati sulla moquette. – Certo. Come no? Adesso zio Fabio va un attimo al bagno, poi torna. Tu stai qua, buono –. Lentamente si alzò. Era cosí terrorizzato che non sentiva nemmeno il dolore alla gamba. Senza perdere d’occhio l’omone si avvicinò alla porta.

Il gigante lo osservava in silenzio mentre un rivolo di bava gli colava dall’angolo della bocca.

Fabietto afferrò la maniglia della porta. – Mo’ torno eh. E poi giochiamo.

All’improvviso la creatura urlò: – Nonna!? Nonna dov’è andata?! Quando torna?

Confessare a Flavione che nonnina era schiattata non gli sembrava un’idea brillante. – Mo’ arriva. Tranquillo. Tu sta’ buono qui. Va bene?

Il gigante alzò un dito e indicò la gamba maciullata di Fabietto. – Bua? Fatto bua?

– No, no. Non è niente. Mo’ però stai buono.

Flavione fece segno di sí con la testa.

Forse lo scherzo della natura non era cosí pericoloso.

Trascinandosi la gamba Fabietto uscí dalla stanza. Si poggiò sul muro e riprese fiato.

– Madre de Dios… madre de Dios…

A terra, stesa in una pozza di sangue, c’era una colf peruviana sventrata come un galletto alla diavola. A differenza del cocker in cucina, la sudamericana era ancora viva.

– Ayuda me… te prego… – si lamentava e muoveva lentamente le mani stringendo l’aria. Dal ventre le fuoriuscivano metri di intestino violaceo, il fegato, il pancreas e altre frattaglie. – Ahy… dolor… punzada muy, muy forte… ayuda me per pietà de Dios y de lo Espiritu Santo!

Fabietto non sapeva che cazzo fare e allora vomitò.

– Ma che cazzo…? Ma che cazzo? – Si avvicinò alla cameriera. Le piante dei piedi gli si incollavano al sangue caldo e denso della poveretta. – Chi è stato?

La donna roteò gli occhi spiritati e sussurrò: – Flaviooo…

– Cativa! Lei cativa forte forte!

Flavio era alle sue spalle. La testa quasi sfiorava il soffitto. Immenso e peloso indicava la colf. – Iolanda non gioca con me.

Fabietto si coprí il capo con le braccia.

– Io gioco. Io sono buono. Lei cativa forte forte –. Allungò uno dei suoi braccioni e afferrò un’ansa di intestino della sudamericana e cominciò a tirare, come fosse una rete da pesca.

– Ahhhhhhh… Madre de Dioooosssss! Che doloorr! – si dibatteva la peruviana come un cefalo di fiume appena pescato.

Fabietto si alzò e scappò. Mentre scivolava nella pozza di sangue vide Flavione che mordeva le interiora della donna. – Fame! Voglio il Pinguí! Dov’è nonna!? Cativa! – urlava sputando tocchi di carne sanguinolenta sul parquet.

Fabietto chiuse la porta della stanza della domestica e urlando si trascinò fino al balcone. Serrò le grate. Infilò il braccio fra le sbarre e girò la chiave. La tolse dalla serratura e se la intascò. – Tie’! Flavione gioca su ’sto cazzo!

Poi reggendosi la gamba rotta si aggrappò alla balaustra e cominciò a urlare: – Aiutoooo! Aiutoooo! Ve pregooo! – Afferrò un vaso e lo scagliò di sotto. Esplose sul parabrezza di un’Audi A4. Il rumore rimbombò per tutta via Gramsci. Dal portone uscí il custode che guardò subito in alto.

– Portiere! Aiutami! Aiutami mi ammazzanooo! Corri! Corri!

L’uomo si mise le mani intorno alla bocca: – Che succede?

– Sono chiuso qua fuori… Veloce, dentro c’è un pazzo!

Il custode se ne stava imbambolato sul marciapiede.

– Ahòò! Aiutami, fa’ qualcosa! Questo m’ammazza!

Finalmente il portiere uscí dal torpore. – Ho le chiavi. Arrivo.

– Nooooo. Non puoi aprire. La serratura è rotta!

Il portiere allargò le braccia impotente. – Che devo fare?

– E che ne so? Sei tu il portiere.

– Passo dal tetto?

– Bravo. Corri.

Il portiere sparí nel palazzo.

Fabietto fece un bel respiro, prese il bastone dell’ombrellone e lo impugnò come fosse una mazza da baseball.

– A George Clooney. Vie’ a gioca’, vie’, che te do ’na randellata che ti mando sotto spirito all’università!

9.

Erano passati cinque minuti.

George Clooney non s’era fatto vivo. E nemmeno il portiere.

Fabietto col tubo dell’acqua arrotolato intorno alla gamba e il bastone dell’ombrellone fra le mani sembrava Teseo che aspettava il Minotauro nell’ultima stanza del labirinto.

– Eccomi!

Fabietto alzò gli occhi e sul tetto, sopra il terrazzo, si stagliò l’esile figura dell’anziano portiere.

– Che cosa succede?

– Dentro c’è Flavio che s’è magnato la spagnola!

Il portiere lo guardò perplesso. – Flavio? Chi è Flavio?

– È il nipote della contessa.

– Ma la contessa sta in ospedale. Quale nipote?

– A portie’ tirami fuori che poi te spiego. Sbrigati.

Il portiere annuí. – Aspetti. Mi procuro una corda e sono da lei!

Fabietto imprecò. – Veloce, cazzo!

– Giochiamo?

Flavione era dietro le sbarre della grata. Nella destra stringeva la colonna vertebrale a cui era appeso il busto della sudamericana.

Fabietto guardò in su. – Daje portie’! Sbrigati!

– Giochiamo? – fece il mostro sollevando i poveri resti della colf. – Guarda che ho!

Fabietto strinse la mazza tra le mani sudate mentre l’intonaco intorno ai cardini dell’inferriata si sbriciolava sotto gli scossoni del gigante.

– Figliolo! – Sul tetto era riapparso il portiere. – Eccomi. Tieni! – e gettò una corda sul terrazzo. – Aggrappati!

Fabietto mollò il bastone e zoppicò verso la fune che penzolava accanto alla fontanella.

Stava per afferrarla quando ci fu uno schianto terribile. La grata era a terra.

Flavio irruppe sul terrazzo come un gorilla che sbuca dal folto della giungla urlando e agitando le braccia.

– Oddio, ma cos’è?! – Il custode da sopra il tetto non credeva ai suoi occhi.

Fabietto stava per aggrapparsi alla corda quando Flavione gli si parò davanti. Allora si coprí il volto con le braccia pronto a rendere l’anima al Padreterno.

– Giochiamo!

Fabietto si fece ancora piú piccolo e poi gli uscí: – Uno, due, tre, stella! – e contemporaneamente si tolse le mani dalla faccia.

Flavione rimase un attimo perplesso, poi s’immobilizzò con la lingua fra i denti e le mani tese in avanti.

– Forza giovanotto aggrappati! – gridò da sopra il portiere.

Fabietto si girò e afferrò la corda, ma Flavione riprese vita urlando: – Stella! – E come un frate campanaro acchiappò la corda e con uno strattone tirò giú il portiere.

L’anziano dipendente del condominio si schiantò sul terrazzo con un rumore di ossa spezzate. – Ahhhhhhh!

Flavio Tombolino Scanziani si avvicinò, gli puntò un dito contro e gli disse: – Nonna dice che tu non pulisci le scale!

Poi, con la stessa facilità con cui una persona normale solleva una bambola, lo sollevò e lo scagliò oltre la balaustra.

– Nooooo! – urlò Fabietto mentre il portiere volava giú e si frantumava sul tetto di una Volvo facendo esplodere il lunotto posteriore in una fontana di cristallo e sangue.

– Pezzo di merdaaaaa! – Fabietto raccolse da terra il bastone dell’ombrellone. – T’ammazzo!

La mazza fendette l’aria con un sibilo e colpí la tempia destra del gigante. Il bastone gli tremava fra le mani. Flavione sulle prime sembrò non avesse sentito nulla. Poi si portò la mano alla testa e si intristí: – Ahia. Bua.

Fabietto sollevò l’arma e con tutta la forza che aveva gliela mollò di nuovo sulla tempia.

L’energumeno barcollò incredulo e abbassò le braccia: – Basta!

Fabietto stava per dargli la mazzata finale, ma Flavio lo disarmò afferrando il bastone e gettandolo di sotto, e poi lo guardò negli occhi: – Cativo. Lo dico a nonna…

Il mostro con un’agilità inaspettata fece un salto e afferrò il polso di Ricotti. Dette uno strattone. Il braccio di Fabietto si staccò dal tronco con un colpo secco.

Il ragazzo si guardò la spalla. Quella che spuntava fra i tendini e i muscoli e i pezzi di cartilagine doveva essere la sua clavicola. Lo scheletro umano lo conosceva bene, perché l’avevano rimandato in scienze per tre anni di seguito.

Che sensazione singolare, continuava a sentire il braccio al solito posto, addirittura gli pareva di poter stringere le dita eppure il gigante lo brandiva come una clava.

Che ci vuole fare?

La risposta gli arrivò subito quando venne colpito in faccia dal suo stesso bicipite per tre volte di seguito. Il primo colpo gli sfondò lo zigomo, il secondo gli fece esplodere un timpano e il terzo gli portò via il resto dei denti.

Fabietto Ricotti andò al tappeto.

10.

… Una mattina d’inverno, mentre si vestiva, il vecchio gigante guardò fuori dalla finestra. Ora non odiava piú l’inverno perché sapeva che era soltanto la primavera addormentata quando i fiori si riposano.

A un tratto si fregò gli occhi stupito. Nell’angolo piú remoto del giardino c’era un albero interamente ricoperto di fiori bianchi. Dai rami d’oro pendevano frutti d’argento e sotto stava il bambinetto che aveva amato.

Fabietto Ricotti era accasciato fra pezzi di Lego e macchinine della Mattel. Flavio era seduto per terra accanto a lui. Il busto poggiato sul letto, gli dava le spalle e teneva in una mano il mangiadischi.

Fabietto si sentiva come se si stesse sciogliendo, un tocco di burro su una padella. Provava a tenere gli occhi aperti, ma non ci riusciva. Era cosí stanco…

Si guardò. Sembrava che l’avessero immerso in una piscina piena di sangue. Il suo braccio se ne stava appoggiato sulla pista Polistil sotto la finestra.

Non riusciva a tenere la testa dritta. Non avrebbe mai pensato di morire prima di nonna Flaminia. Non ci sentiva quasi piú. Anche il suo respiro era lontano e il mangiadischi sembrava soffocato da mille coperte.

… Il gigante scese di corsa e, sprizzante di gioia, uscí nel giardino e s’avvicinò al bambino. Quando gli fu vicino avvampò di collera e disse:

– Chi ha osato ferirti? – perché il bambino aveva il segno dei chiodi sul palmo delle mani e sui piedi.

– Chi ha osato ferirti? – ripeté il gigante. – Dimmelo e io prenderò la mia grossa spada e lo ucciderò.

– No, – rispose il bambino. – Queste sono solo le ferite dell’amore.

– Chi sei? – chiese il gigante. Uno strano stupore s’impossessò di lui e s’inginocchiò davanti al bambino.

Il bambino gli sorrise e disse:

– Un giorno mi lasciasti giocare nel tuo giardino, oggi verrai a giocare nel mio giardino, che è il Paradiso.

Quando nel pomeriggio i bambini entrarono di corsa nel giardino trovarono il gigante morto, ai piedi dell’albero tutto ricoperto di candidi fiori.

Flavio si girò verso Fabietto. Aveva un occhio iniettato di sangue e una lacrima rossa gli scorreva sulla guancia. – Io lo so tu chi sei.

Con uno sforzo sovrumano Fabietto riuscí a dire: – Chi… sono?

Il gigante sorrise appena. Aveva i denti impiastricciati di sangue. – Sei il bambinetto –. Con fatica sollevò la mano e indicò il moncherino – … e quelle sono le ferite dell’amore. Ora mi porti in Paradiso, vero?

– Sí… tranquillo… – Fabietto richiuse gli occhi e si abbandonò sulla moquette. La testa del gigante gli si poggiò sul grembo.

– Ho paura… – disse Flavione con un filo di voce, mentre il sangue gli usciva dalla bocca insieme a bollicine d’aria. – Non… ci vedo… piú.

– Non ti preoccupare Flavio. È un attimo.

– Finisce cosí, questa favola breve se ne va… il disco fa clic e vedrete fra un po’ si fermerà… ma aspettate e un’altra ne avrete. C’era una volta il cantafiabe dirà e un’altra favola comincerà… comincerà… comincerà…

(2008)





La favola del Gigante egoista è di Oscar Wilde.
Il valzer del moscerino (L. Zanin / A. Della Giustina), 1968, Cervino Edizioni Musicali.