Mancavano poche settimane ad agosto quando ho incontrato un mio compagno del liceo che si chiama… Per proteggere la sua privacy gli darò un nome inventato, diciamo Matteo Manni.
Eravamo amici a scuola. E all’università ancora di piú. Poi la solita storia… il lavoro, le nuove conoscenze, le donne hanno creato un solco, all’inizio quasi impercettibile ma ora, dopo dieci anni, profondo e troppo largo per essere colmato.
Oramai non ci sentiamo quasi piú ma qualche volta giochiamo a calcetto allo stesso circolo sportivo.
Insomma, dopo la promessa mai mantenuta di rivederci al piú presto, dopo le solite chiacchiere, al torneo di calcetto ho chiesto a Matteo che programmi aveva per l’estate.
– Vuoi sapere la novità? – mi fa. – Io credo che alla fine me ne rimarrò a Roma. Per una volta voglio proprio godermela in pace, ’sta città. Il lavoro, il traffico, il casino durante l’anno ti impediscono di vivertela. Ad agosto invece riscopri il piacere della bici, visiti chiese e musei, la sera te ne vai a un concerto, poi una pizza…
Mi stava imbastendo di nuovo la vecchia cazzata che sentivo da troppo tempo, da quando al liceo venivi rimandato e ti convincevi che stare a Roma era una gran paraculata. Secondo me se resti ad agosto a Roma, scava scava, c’è sempre qualcosa che non va. Mancanza di soldi, depressione, problemi scolastici, un’amante, liti con la moglie. Per Matteo mi sembrava assai plausibile quest’ultima ipotesi.
Lui e sua moglie erano la coppia perfetta. O almeno cosí volevano passare agli occhi del mondo. Lui architetto, lei decoratrice di interni. Tutti e due appassionati di cucina e mostre d’arte. Mai un litigio. Perfetti. Avevano scelto di non avere bambini.
«I figli ti strappano via l’esistenza. Vivi per loro e il rapporto di coppia va a farsi benedire. Uccidono l’amore».
Mi ricordo che almeno cento volte negli spogliatoi del circolo aveva ripetuto ’sta storia della coppia perfetta: paragonava lui e la moglie – che chiamerò per convenienza Mara – al famoso duo di canottaggio Le Pont e Vinnes («un grande Due Senza», sempre cosí diceva) che, non so bene quando, aveva vinto tutto il possibile.
«Il segreto per rimanere uniti è la sincronizzazione, l’intesa e soprattutto puntare allo stesso obiettivo».
Quindi, quando ha aggiunto che Mara andava in vacanza con la sorella a Sperlonga, ho avuto la certezza che il Due Senza era finito in una secca.
A farvela breve, pochi giorni fa, ai primi di settembre, al circolo ho incontrato il portiere della squadra. Mi ha detto che Matteo era ricoverato al reparto Ortopedia del policlinico per un incidente domestico alquanto misterioso.
Sono corso subito a trovarlo. Era tutto una benda, corde e contrappesi. La testa fasciata.
Gli occhi assenti.
– Ma che diavolo ti è successo?
All’inizio non voleva parlare, ma poi, nonostante la mascella fratturata, non ha potuto fare a meno di raccontare.
Era rimasto a Roma perché non voleva rompersi le balle a Sperlonga con sua moglie e tutta la famiglia di lei.
Aveva passato l’agosto in grazia di Dio. Chiuso in casa, aria condizionata, Sky, Quattro salti in padella, le Olimpiadi.
Tutto fantastico fino a quando una sera al supermarket non aveva incontrato una certa Angela. Universitaria che stava finendo la tesi in giurisprudenza. Intesa perfetta su surgelati, vino, tattiche domestiche contro l’afa, consigli sui due film in croce che si potevano vedere nelle arene.
– Non sai, – è riuscito a dire, con un improvviso slancio d’energia, – di una bellezza mozzafiato. Un culo incredibile, due tette… Un tipo elegante a vederla per strada.
Vabbè, avete già capito.
Erano finiti a casa di Matteo, si erano fatti fuori due bottiglie di Fiano di Avellino e avevano trombato tutta la notte.
– Una cosa pazzesca, la ragazza piú disinvolta che ho incontrato in vita mia. Una furia umana. Lo abbiamo fatto ovunque. Ci trascinavamo per casa come cani. Basta, non ci posso pensare. Basta.
La mattina dopo Matteo si era svegliato con un palo piantato nel cervello e flash a luci rosse della nottata brava. Angela, la studentessa, non c’era piú. Sul tavolo della cucina un biglietto scritto con calligrafia tondeggiante: «Bravo. Mi sono divertita un sacco. Hai un uccello molto serio. Baci. A».
Matteo, dato che ero scettico, mi ha chiesto di aprire il portafoglio appoggiato sul comodino accanto a una bottiglia d’acqua Fiuggi.
L’ho letto con i miei occhi.
Quella mattina, dopo aver trovato il messaggio, nonostante l’emicrania, Matteo Manni si era gonfiato come un tacchino e aveva riflettuto che incontri del genere ti ricaricano le pile. Ti fanno sentire di nuovo qualcuno. Servono a riprendersi un po’ di quell’autostima mortificata da un rapporto di coppia sicuro e vincente come quello del Due Senza. Si era fatto un caffè, si era seduto e tutto a un tratto gli era venuto un dubbio. Che giorno era? Sua moglie gli aveva detto che una volta sarebbe tornata a Roma per sbrigare degli affari e poi le avrebbe fatto piacere andare a cena fuori, in un nuovo giapponese a Trastevere.
Non è che…
Aveva controllato sull’agenda e aveva scoperto che il giorno era proprio quello.
«Ore 17. Mara a Roma. Prenotare da Hiro Suki».
Cazzo.
Gli rimanevano circa sette ore per far sparire ogni traccia.
Afferrate le lenzuola, stava per buttarle in lavatrice quando si era reso conto che quest’operazione agli occhi di Mara poteva risultare a dir poco sospetta. In vita sua Matteo Manni non aveva mai fatto un bucato e tanto meno cambiato le lenzuola. Lui non chiudeva un cassetto, non lavava i piatti e viveva nella merda felice come un maiale. Se fossero state delle anonime lenzuola bianche avrebbe potuto sostituirle. Ma sfiga voleva che fossero delle lenzuola batik, regalo della zia di Mara dopo un viaggio a Bali. Matteo aveva poggiato il naso sul tessuto e aveva sentito un odore intenso e dolciastro di profumo scadente.
Angela.
A quel punto, nel panico, aveva cercato altre tracce dell’adulterio. In salotto pozzanghere di Fiano. Cicche di sigaretta. Piatti usati. I cuscini sporchi di cenere. Vedendo un paralume contorto come ci fosse passato sopra un camion per poco non gli era venuto un coccolone. E in corridoio i classici del Novecento erano tutti per terra. Paradossalmente, mentre la disperazione e il senso di colpa salivano come colonnine di mercurio, non poteva che compiacersi per la notevole prestazione che non avrebbe sfigurato in Rocco invade la Polonia. Ma che gli era preso? In quei centoquaranta metri di abitazione non c’era un angolo dove non avessero copulato. Non si erano risparmiati nemmeno la dispensa. Doveva subito riordinare il salone, dove c’erano i danni peggiori. Si mise all’opera, poi si fermò a riflettere. Se Mara tornava e trovava la casa tutta in ordine avrebbe capito. Lei, se non avesse fatto la decoratrice di interni, avrebbe potuto lavorare alla Scientifica o al Ris. Nello chalet di Cogne ci avrebbe messo circa tre minuti a scoprire l’assassino, senza neanche il bisogno di apparecchiature sofisticate. Bastava un indizio insignificante. Dal particolare arrivava all’universale. E quell’universale sarebbe stato una roba bruttissima.
Il segreto era riordinare, ma non troppo. Come un grande scenografo, o un archeologo, doveva ricostruire l’ambiente, esattamente come era stato prima del passaggio della furia umana. Cominciò a sistemare i cuscini piú o meno come se ci avesse guardato la televisione. E mentre stava lí a creare fosse e cunette si accorse di un solitario capello biondo posato sullo schienale del divano. Lo tirò su e l’osservò. Era biondo ma la base aveva due bei centimetri neri. La ricrescita. Cosí la furia umana si tingeva i capelli e neppure troppo di frequente. Scrutò con attenzione la fodera azzurra e si accorse che ce n’erano altri. Dovunque. O le aveva strappato i capelli a ciocche oppure lei soffriva di una forma particolarmente acuta e precoce di calvizie. Prese l’aspirapolvere e ne fece sparire un numero incredibile. Erano dappertutto e si mimetizzavano come crotali nella foresta. A un certo punto fu azzannato da un dubbio. Forse stava risucchiando anche i capelli di Mara? Anche lei era bionda. Bionda naturale però. Diabolica com’era, si sarebbe certamente stupita di non trovare piú capelli per casa. Che cazzata stava per fare. Corse in cucina, tolse il sacchetto dell’aspirapolvere, lo tagliò rovesciando il contenuto sul tavolo e diede il via all’ispezione. Separò dalla polvere i capelli con la ricrescita e quelli senza. Un lavoro minuzioso, ma alla fine ne aveva due mucchietti. Sparse quelli di sua moglie nei punti strategici dell’appartamento. Quando finí era mezzogiorno. Ancora cinque ore.
Il vero problema era il letto. Che fare con le lenzuola? L’unica era coprire quel profumo con un odore piú forte. E se accidentalmente gli fosse caduto sul letto qualcosa? Ecco! Tirò fuori dal congelatore dei sofficini al pomodoro e li gettò in padella ripetendosi: «Avevo fame e mi sono fatto dei sofficini e per sbaglio mi sono caduti sulle lenzuola». Quando furono cotti, li versò sul letto con tutto l’olio che si fuse con il rivestimento del materasso di lattice generando un mezzo incendio e una nuvola di fumo nero e tossico, ma eliminando per sempre l’odore di Angela. Mara avrebbe pensato che era un coglione totale, non un fedifrago. Eccellente, si disse compiaciuto.
Il suo sguardo puntò una macchiolina sul muro accanto al letto. Si avvicinò. Era color marroncino, larga come una moneta da cinque centesimi. Indubbiamente di origine organica. Non volle indagare troppo sulla provenienza, tanto andava eliminata all’istante. Ci passò sopra una pezza imbevuta d’acqua. Dopo un quarto d’ora aveva prodotto una patacca larga trenta centimetri, color nocciola, che si era impastata con la vernice bianca. Era veramente nel panico. Il cuore prese a macinare come un treno in corsa. Tirò fuori la cassetta degli attrezzi e con la carta vetrata cominciò un’opera di smeriglio molto accurata. Era lí che aveva quasi fatto sparire la prova quando un bel pezzo di intonaco gli si frantumò tra i piedi. E ora? Sconfortato si buttò sul letto semicarbonizzato. Piú cercava di ricostruire la situazione precedente alla… non sapeva nemmeno come chiamarla… e piú la rendeva evidente. L’entropia stava disgregando il sistema. Poi, di colpo, l’illuminazione. Che culo! La macchia era proprio dove Mara voleva fare una porta per passare dalla stanza da letto allo studio. Non è che la volesse proprio fare, era stata un’idea buttata là una sera. Ma quale sorpresa piú bella può esserci che tornare dalle vacanze e trovare una porta nuova di zecca fatta dal tuo maritino? Doveva solo sfondare la parete e poi con la sega circolare (che avrebbe comprato in una ferramenta aperta ad agosto) tagliare i mattoni dritti.
Trovò nel ripostiglio un grosso martello, superstite dei lavori nel bagno, spostò il comò, prese un bel respiro e diede con tutte le sue forze una mazzata sulla parete. Il muro si sfondò come fosse di cartone (di cui in effetti era fatto). La testa del martello proseguí la sua corsa nella stanza accanto e finí sopra un amplificatore a valvole Musical Fidelity del valore di settemila euro. Pezzi di lamiera e vetro schizzarono ovunque. Corse nello studio. Il dolore fu lancinante. Aveva risparmiato un anno per comprarsi quell’amplificatore esoterico.
Ma non c’era tempo per le tristezze. Andò in bagno a prendere uno straccio e si vide passare nello specchio. Tornò indietro e si osservò. Aveva una faccia da post-elettroshock, ma questo non lo impensierí piú di tanto. Era una macchia sul collo che lo terrorizzò come se fosse un sarcoma di Ruis. Si avvicinò di piú. Un succhiotto! Quella troia puttana gli aveva fatto pure un succhiotto. Scoppiò a piangere e prese a sbattere la testa contro il muro. E ora? Avrebbe dovuto confessare la verità. E dopo? Non riusciva a vedere un dopo. Era solo tenebra e dolore. Per una scopata del cazzo stava buttando via dieci anni di vita coniugale. Frignando si passò dell’Oil of Olaz sul livido sperando che avesse effetti taumaturgici. Non li aveva. Era finito. A meno che… Prese la carta vetrata e cominciò a sfregarsi il collo. Poteva dirle che il letto aveva preso fuoco e che lui era corso per spegnerlo, era inciampato e con la testa aveva sfondato muro e stereo. Ecco! Solo che non bastava quel segnetto rosso sul collo. Le cose andavano fatte bene. Prese il ferro da stiro, chiuse gli occhi, disse «Te lo meriti», e si colpí la mascella. Sentí il cranio, l’encefalo, i denti rimbombargli come se si fosse schiantato contro il granito. Soffocò un urlo, riaprí gli occhi e si guardò allo specchio.
Non ci poteva credere, non si era fatto un cazzo. Impazzito dalla rabbia se ne diede un altro e un altro. Al quarto colpo crollò a terra svenuto. Quando si risvegliò cercò di sollevare le palpebre, ma se ne apriva solo una. Vittoria! Si rialzò a fatica. Aveva il volto mezzo tumefatto, come se Hulk gli avesse dato una pizza. Gli mancava pure un incisivo. Mara non avrebbe potuto dirgli niente! Guardò l’orologio: le tre e mezza. Era rimasto privo di sensi per almeno un’ora. Adesso doveva solo finire di lavare il pavimento e poi, con tutta calma, poteva chiamare un’ambulanza.
Si trascinò per il corridoio. La segreteria lampeggiava. Mentre era privo di sensi doveva aver suonato il telefono. Spinse play e dopo il bip una vocina imbarazzata: «Scusa se ti chiamo! Sono Angela, quella di questa notte… Credo di aver dimenticato un orecchino sul lavandino. Non vale niente, lo puoi buttare. Ma ti volevo avvertire che se tua moglie… Vabbè, hai capito. Ti saluto. Scusa…» La rabbia che fino a quel momento era rimasta compressa sotto il peso dell’angoscia e della colpa esplose con la potenza di uno tsunami. Afferrò la segreteria, la strappò dal muro e la lanciò, distruggendo la litografia di De Chirico. L’orecchino! Pure l’orecchino! Troia!
Tornò in bagno. Era là. Un affarino di rame e perline accanto al rubinetto. Almeno una cosa andava per il verso giusto. Allungò la mano e lo toccò appena. La sensazione sfuggente del metallo contro il polpastrello, e il monile cadde dal bordo e, dopo un paio di aggraziate giravolte, come un tuffatore, sparí nel buco nero del lavandino. Matteo diede un calcio alla vasca. Lo spigolo gli si infilò tra l’alluce e l’altro dito. Dal dolore si vomitò addosso una roba acida e calda che puzzava di Fiano. Accese la luce. Non sperò nemmeno che l’orecchino si fosse fermato nella croce dello scolo. E infatti… Smontò lo scarico e cercò di capire se fosse rimasto in fondo al sifone. C’era di tutto. Tappi di dentifricio, capelli (di chi?) e materia organica, ma niente orecchino. Piangendo istericamente prese a martellate le mattonelle e si mise a tirare fuori le tubature dal muro.
Ruppe un tubo che cominciò a sputare acqua con una pressione attorno ai tremila litri l’ora. Si accucciò nel pantano e scrutò nello scarico con l’unico occhio che ancora si apriva. Niente. Uscí di casa guadando il lago che aveva invaso il corridoio. Scese al piano di sotto e suonò alla Marinetti, una novantenne disabile che era stata lasciata col Salvalavita Beghelli dalla famiglia andata a villeggiare a Borca di Cadore. Ci mise dieci minuti buoni a convincere la vecchia ad aprire. Non si capivano. Con la mascella semiparalizzata, Matteo non riusciva a pronunciare che poche sillabe e la vecchia era convinta che fosse un ladro. Alla fine aprí, lanciò uno strillo e si attaccò al Salvalavita.
Un essere mostruoso, nudo, imbrattato di sangue la stava minacciando con un martello.
Matteo la superò e cominciò a sfondarle il gabinetto.
Quando alle diciassette spaccate arrivò Mara, di fronte al palazzo c’erano due volanti, un’ambulanza e un camion dei pompieri. Il cortile era allagato. Poco dopo le apparve uno che poteva anche essere suo marito, in manette, tra due poliziotti, urlando cose incomprensibili. Da quello che ho potuto capire, Mara era tornata a Roma per affrontare una questione importante con Matteo. Voleva troncare una relazione in cui si era persa ogni complicità.
A Sperlonga aveva conosciuto un insegnante – di filosofia – con cui aveva riscoperto un sacco di gioie sopite.
Prima che me ne andassi dall’ospedale, Matteo mi ha guardato fisso.
Poi ha biascicato: – Comunque, io, praticamente, non l’ho tradita.
(2007)