Se Angela Milano, studentessa al terzo anno in odontoiatria, avesse fatto un pompino a Robbi Cafagna tutta questa triste vicenda non sarebbe mai avvenuta e io non starei qui a raccontarvela.

Ma una sorte amara volle che proprio quel pomeriggio Angela, dopo una lunga discussione con l’amica del cuore Verdiana Ceccherini, decise di cessare, almeno per un po’, quest’antica pratica orale che, a suo giudizio, rischiava di definirla solo per una delle sue innumerevoli qualità…

A quei tempi Angela divideva l’affitto di un appartamentino uso foresteria (2 camere salottino angolo cottura bagno terrazzino calpestabile zona romanica no stranieri no agenzie) con la sua compaesana Verdiana Ceccherini.

Verdiana era rientrata a casa tutta trafelata, aveva gettato la borsa con i libri sul divano e aveva avvertito l’amica che una voce antipatica si era diffusa per tutta la facoltà.

«Cosa dicono?» aveva chiesto Angela levando il naso dal saggio Confidenza emotiva di Gael Lindenfield (imparare a conoscere i sentimenti per controllare il proprio temperamento).

«Be’… Dicono che…»

«Allora?»

Verdiana aveva preso una bella boccata e aveva detto: «Che fai i pompini a chiunque ti porti a cena fuori».

Sulle prime Angela si era scandalizzata, ma, consultando l’agenda, aveva dovuto ammettere che negli ultimi due mesi, praticamente tutte le sere, tranne quando tornava dai suoi a Frosinone, era uscita a cena fuori con un ragazzo diverso. E si era resa conto che dopo mangiato, immancabilmente, gli aveva fatto una pompa.

«Ma perché?»

Angela ci aveva pensato un po’ sopra. «Ma cosí… Mi offrono la cena… Mi viene spontaneo… Per ringraziarli, ecco».

La voce si doveva essere sparsa, come un virus, per la facoltà, e infatti, le aveva fatto notare Verdiana, la segreteria telefonica era piú intasata di quella di un dentista. Inviti al ristorante, al pub, in pizzeria, a cinesi e trattorie per i prossimi sei mesi. E, crudele, aveva aggiunto che al corso di biochimica le avevano dato pure un soprannome: Idrovora.

«Idrovora?»

«Sí, cosí ti chiamano».

«E che vuol dire?»

Avevano dovuto consultare il dizionario Zanichelli.

Atto ad assorbire o smaltire rapidamente masse d’acqua. Pompa I. (o assol. Idrovora s.f.).

Angela era diventata tutta rossa, si era messa una mano sulla bocca e aveva cominciato a singhiozzare.

Verdiana aveva consigliato ad Angela di seguire almeno due regoline.

Numero 1: Mai pompini al primo incontro.

Numero 2: Una pizza e una rosa dell’indiano non valgono un pompino.

Quella sera Robbi Cafagna pagò le conseguenze delle nuove norme proibizionistiche in materia di fellatio di Angela Milano.

A mezzanotte meno un quarto Robbi Cafagna stava seduto al volante della Micra di sua madre e riaccompagnava a casa Angela Milano.

Era felice. Era vicino alla meta e il cervello gli volava a quando finalmente l’Idrovora glielo avrebbe preso in bocca e avrebbe cominciato a suggere.

Angela trafficava da cinque minuti nel cassettino del cruscotto.

Queste erano le classiche cose che gli facevano girare i coglioni. Ma che è la macchina tua?

Robbi sbuffò e poi le domandò zuccheroso: – Che cerchi?

– Un po’ di musica. Tu non parli. Sei cosí silenzioso, – Angela trovò una cassetta nera. – Che non ti piace la musica?

– Sí, ma non quella che piace a mia madre.

– Che musica piace a tua madre?

– Che ne so… Roba vecchia.

– Sentiamo –. Angela infilò la cassetta nell’autoradio. I Supertramp cominciarono a cantare Breakfast in America.

– I Supertramp! Li adoro! – Angela iniziò ad agitarsi come se avesse il Parkinson.

– Che merda! – gli uscí a Robbi.

– Sono bravissimi, perché non ti piacciono? Piacciono a tutti. E a te no. Tu devi fare il diverso. Ora voglio una spiegazione logica del perché non ti piacciono.

La detestava, aveva un tono da prima della classe, da so tutto io. Non fosse stato per il pompino l’avrebbe scaraventata fuori dalla macchina.

– Non mi piacciono. Non mi piace la loro musica.

Lei scosse la testa. – Questa non è una risposta intelligente. Ritenta e sarai piú fortunato.

Lui sbottò, non ce la faceva piú. Stava esagerando. – Perché sono una manica di frocioni. Con quelle vocine che sembra che li hanno castrati da piccoli e quel sassofono del cazzo. È musica per vecchi culattoni nostalgici.

Lei lo guardò di traverso. – Che hai qualcosa contro gli omosessuali?

Stai calmo, si ripeté. Ricordati che tra poco ti deve fare un pompino.

– Allora, che hai contro gli omosessuali, si può sapere?

Non mollava.

– Niente. Assolutamente niente –. Quanto avrebbe voluto invece dirle: «I froci mi fanno schifo. È gente malata che si sente pure ’sto cazzo e si credono artisti solo perché lo prendono in culo».

Meno male che erano arrivati.

Robbi posteggiò davanti a casa di Angela, in posizione strategica, spense il motore, si accese una sigaretta, si schiarí la voce, si fece coraggio e chiese: – Che faccio? Salgo?

Come a dire: preferisci farmelo qui o sopra?

Gli avevano raccontato che l’Idrovora era imprevedibile, a volte ti faceva salire su, a volte te lo faceva in macchina, il risultato comunque non cambiava: faceva pompini superiori, si applicava con una maestria e una sensibilità da artigiano fiorentino.

Angela accennò un sorriso, aprí la portiera della macchina e sussurrò un: – No. Meglio di no. Vado a dormire.

– Cosa?

– Vado a dormire.

– Non ho capito.

– Vado a dormire.

Allora aveva capito bene.

Come andava a dormire? Dove aveva sbagliato? Aveva fatto tutto preciso: si era lavato, si era cambiato le mutande, era andato a prenderla a casa, l’aveva portata al ristorante, le aveva pure offerto un gelato con la cialda al palazzo del ghiaccio.

Con la voce di un bambino a cui hanno proibito il giro sulle giostre le chiese: – E perché?

Angela allungò una gamba fuori dallo sportello. – Stasera non mi va.

Fermala, se ne sta andando.

Ebbe l’impulso di afferrarla per i capelli e di rimetterla seduta, ma invece smozzicò: – Non te ne puoi andare cosí, non vale. Ti ho por… – … tata al ristorante. Qualcosa gli impedí di finire la frase. Rimediò con un: – Dài, rimani altri cinque minuti, a chiacchierare.

Angela rimise la gamba dentro e incrociò le braccia.

– Che hai? Sei arrabbiata per la questione dei froci? – le domandò.

Angela rispose imbronciata: – No, non è per quello. Io lo so perché non vuoi che me ne vado.

– Perché?

– Perché vuoi quello.

Fece il finto tonto. – Quello che?

Angela fece una smorfia e abbassò lo sguardo. – Non fare lo scemo. Lo sai benissimo cosa.

L’unica cosa che Robbi Cafagna sapeva con certezza era che aveva speso centoventi carte per una cena di merda e che le aveva pure offerto il gelato. Né Andrea Sabatini né Pierpaolo Pennacchini le avevano offerto il gelato. E quindi era molto piú in regola degli altri. Quel dannato pompino se lo meritava piú di loro.

– Te lo giuro che non voglio niente. Voglio solo parlare.

Lei lo guardò per un’infinità e poi disse: – Veramente? Non mi prendi in giro?

– Veramente –. Nel buio dell’abitacolo non riusciva a vederla bene, ma aveva l’impressione che avesse gli occhi lucidi.

– E allora perché mi hai chiesto di uscire con te? – lo incalzò lei.

Ora che le raccontava?

– Che fai? Non sai che rispondere?

Robbi prese una boccata di sigaretta. – No, assolutamente… – balbettò. – È che… È difficile dire certe cose.

Lei era sospettosa. – In che senso?

– In che senso? – si buttò. – Ecco, con te mi sento bene, a posto, insomma… Sai quando stai in grazia di Dio? Cosí –. Prese un respiro. – Proprio cosí.

– Ti piace stare con me?

– … Sí. Abbastanza –. In che ginepraio si stava cacciando?

– Vuoi dire che vorresti stare con me?

Disse bye-bye al pompino. – No… Intendo come amico.

– Ah! – Angela piegò la testa sul petto e fece un sospirone. – Be’ forse è meglio cosí, anche tu non sei il mio tipo ideale. Però possiamo essere amici. È la prima volta che un maschio vuole essermi amico, – sorrise. I denti bianchi le splendettero nel buio. – Allora siamo amici?

– Certo, – rispose affranto.

Rimasero in silenzio, imbarazzati, poi lei se ne uscí con: – Tu lo sai come mi chiamano in facoltà?

Idrovora. Lo aveva inventato lui quel soprannome dopo aver sentito i racconti di Sabatini. Fece un tiro di sigaretta. – No, come ti chiamano?

Angela strizzando i manici della borsetta mormorò: – Idrovora.

– E perché? – lo disse con la naturalezza e lo stupore del grande attore.

Lei sollevò la testa e lo guardò sorpresa. – Che non lo sai?

Si mise la mano sul cuore. – Parola.

– Vedi che quella cretina di Verdiana dice le stronzate per farmi stare male –. Lo sussurrò appena, come se lo stesse dicendo a se stessa.

Una spia verde gli si riaccese nel cervello. – Perché ti chiamano cosí?

Lei prese fiato e sembrò rianimarsi. – No, non mi va di dirtelo…

– A questo punto me lo devi dire –. Quella era la direzione giusta. Vedeva una luce in fondo al tunnel.

Angela ci rifletté un attimo. – Te lo dico, ma tu giuri di non dirlo a nessuno?

– Te lo giuro –. Sentí il cazzo smuoversi nelle mutande.

– Perché dicono che mi piace fare i pompini.

Per poco Robbi non si strozzò. – Ed è vero?

Angela fece segno di no con la testa. – No, è che… – Gettò un’occhiata a Robbi e poi guardò oltre il finestrino nel buio della strada. – Perché devo dirti le bugie? Siamo amici, no? Io adoro fare i pompini. Ma che c’è di male? Mica ammazzo qualcuno?

– Scherzi? Non c’è niente di male, assolutamente niente di male, anzi perché… – Robbi si impedí di continuare. Ora l’uccello gli pulsava dolorosamente. Fece un bel respiro, allungò una mano e gliela poggiò sulla coscia.

Lei non sembrò nemmeno accorgersene. – Verdiana dice che li faccio solo perché non credo in me stessa. Per farmi accettare. A me piace proprio farli. Che ne so… Mi piace tutto, il sapore dello sperma. Io credevo che fosse normale… Forse no, forse sono… Come si dice? C’è una parola…

– Ninfomane? – le suggerí Robbi facendole risalire la mano verso il seno.

Lei gliela prese e la rimise a posto. – Esatto.

– Guarda che è normale. Alla nostra età… – ragliò Robbi affondando le mani nella poltrona della Micra. Se quella puttana non la smetteva immediatamente di farlo arrapare come un babbuino la stuprava là per là.

– No, mi devo trattenere. Verdiana mi ha detto che se voglio far risalire l’autostima a un livello, diciamo, normale, non posso piú continuare cosí. È una cosa che faccio, in qualche modo, per compensazione. Come… Come quando pesti a piedi nudi una puntina da disegno, ti viene da toccarti il piede.

– Guarda che è normale –. Robbi si era fissato sul concetto di normalità.

– E allora perché Verdiana non fa come me?

Lui sollevò le mani al cielo. – Perché nessuno vorrebbe farselo prendere in bocca da una che ha tutta quella ferramenta attaccata ai denti. Può essere pericoloso, che cazzo.

Angela sbuffò. – Non offendere Verdiana, per favore.

Robbi si accalorò. – Scusami, ma tu non hai nessun problema –. Si batté il petto. – Lasciatelo dire da me, tu sei sanissima. Non devi starla a sentire –. E poi non ce la fece piú. – E dài, fammi salire. Che ti costa?

Angela non gli rispose nemmeno e cominciò a tirare su col naso e a stropicciarsi gli occhi.

– Che fai? Ti metti a piangere?

Iniziò a singhiozzare disperata.

Robbi tirò fuori dal cassettino del cruscotto dei fazzoletti di carta. – Tieni.

Lei li prese e si soffiò il naso. – Capisci come sto? Mi metto a piangere per qualsiasi cosa –. Cercò di ricomporsi. – Grazie Robbi. È stata una serata bellissima… Grazie, veramente –. Aprí la portiera della macchina. – È la prima volta che parlo con un ragazzo dopo essere andata a cena fuori. Sei una persona eccezionale –. Allungò il collo per baciarlo, Robbi provò a baciarla sulla bocca, ma lei, con una mossa abile, schivò l’affondo e gli stampò le labbra sulla guancia e uscí dalla Micra.

La vide fare due passi verso il cortile del palazzo, poi si fermò.

Forse ci ha ripensato.

– Stasera sei stato troppo carino, Robbi.

Lui provò a dire qualcosa ma Angela era già scomparsa nel portone del palazzo.

Aldo Teramo, detto «il Tenaglia», se ne stava spaparanzato nudo sul suo letto con i suoi cento e dispari chili di ciccia. Guardava la televisione poggiata sulla scrivania e con una mano si mangiava un panino con la mortadella mentre con l’altra si massaggiava l’uccello.

La stanzetta del Tenaglia era cosí piena di roba che c’era spazio appena per muoversi. I muri erano tappezzati di poster dei Metallica, dei Pearl Jam, dei Fantastici Quattro. Il tavolo era ricolmo di computer, alcuni sani altri ridotti a pezzi, monitor, fili, casse acustiche da cui pendevano tweeter sfondati.

In un angolo, accanto al letto, erano ammucchiati fumetti, «Vip», «Scoop» e riviste di motociclismo. La camera era in penombra, illuminata solo dalla luce fioca di un terrario con dentro un’iguana in coma.

Alla tele trasmettevano la maratona del Telethon. Ventiquattro ore per la distrofia muscolare.

Aldo aveva deciso di spararsela tutta fino alle dieci della mattina dopo.

Il Tenaglia non era molto sensibile alle forme patologiche di questa terribile malattia, ma alle forme di Lorella Cuccarini sí. Da quando era bambino e la soubrette faceva Fantastico aveva sognato di trombarsela. E ora che la presentatrice aveva raggiunto una certa maturità, e quindi piú esperienza, glielo faceva tirare ancora di piú.

A suo giudizio era una gran porca, ma di quelle della specie superiore, quelle che fanno le mamme degli italiani, acqua e sapone, e invece sono in grado di fare robe che Selen e tutte quelle pornostar rifatte nemmeno s’immaginavano. Uno dei suoi sogni erotici preferiti era sodomizzarla sopra una cucina Scavolini.

E ora che era lí per una notte intera non se la voleva perdere nemmeno un minuto.

All’inizio si era fatto delle seghe a caso, dissipando energia a cazzo, osservando il suo «amore» mentre introduceva gli ospiti, scherzava, guardava il tabellone e incitava la gente a casa a mandare soldi. Poi si era reso conto che aveva davanti a sé ancora tante ore di trasmissione e quindi aveva deciso di ottimizzare le seghe per arrivare a fine maratona vivo.

Se ne sarebbe fatta una per ogni miliardo che totalizzavano.

Ora erano a sette miliardi e trecento milioni e Aldo poteva riposarsi un po’.

In quel momento il telefono squillò.

Il Tenaglia guardò l’orologio, prese la cornetta e sbadigliò: – Chi scassa?

– Aldo! Sono io, Robbi.

Alla fine chiamò il Tenaglia.

Aveva lasciato Angela da mezz’ora e adesso era fermo al lato di una lunga e brutta strada illuminata da lugubri lampioni. Era ancora al Nuovo Salario. Aveva girato come un calabrone intorno al palazzo della troia indeciso sul da farsi.

Le suono o me ne torno a casa?

Aveva cercato di riflettere, di farsi calare l’incazzatura guidando attraverso strade buie e silenziose, costeggiando giardinetti, serrande imbrattate di scritte e cassonetti che rigurgitavano immondizia, ma il film a luci rosse con la Milano gli continuava a girare in testa e lo tormentava come Erinni.

Alla fine, disperato, le aveva suonato al citofono. Niente. Non aveva risposto. Ci si era attaccato. Niente. Aveva preso a calci il portone.

– Ahò?! Robbi! Com’è andata?! – il Tenaglia era eccitato come se stesse parlando con Giovanni Soldini dopo il giro del mondo.

– Cosa? – si rese subito conto che aveva fatto una cazzata a chiamare il Tenaglia.

– Come cosa? Con l’Idrovora? Com’è andata?

Gli dico la verità. Mi devo sfogare. Mi ha fatto troppo incazzare quella stronza. Inspirò e disse: – Bene. Come poteva andare?

Il Tenaglia cominciò a ululare come un coyote nel deserto di Sonora. Poi passò a fare i versi del gorilla di montagna e infine a belare come un agnello.

– Piantala! Tenaglia piantala! – Quando era felice poteva passare in rassegna tutto il mondo animale anche per una mezz’ora.

– E dài, fammi sfogare! Ora manco solo io! Domani la chiamo e la invito a cena. Tu dove l’hai portata?

– Al Magazzino del sale –. Lo disse con un sampietrino ficcato su per la gola.

– Porco zio! Quel posto costa una cifra. Il Sabatini l’ha portata al grottino del Laziale. Ha speso trenta sacchi. Tu quanto hai speso?

Mentí: – Novanta.

– E che s’è mangiata?

– Non me lo ricordo.

– Come non te lo ricordi? Non è possibile. Dài, che cazzo s’è mangiata. Dài, ricordatelo.

Il Tenaglia era il tipo che continuava a massacrarti i coglioni per il resto dei tuoi giorni se non gli rispondevi. – Le linguine con l’astice.

– Cazzo! Le piace mangia’ bene all’Idrovora. Il Sabatini le ha offerto una capricciosa e, mi pare, una bruschetta con i carciofi. Lui sí che è tecnico. E io dove la porto? La potrei portare all’economica a via Tiburtina, quella pure fa le bruschette… Dici che le può piacere?

Robbi voleva sospendere quella telefonata. – Tena’, mi si sta scaricando il cellulare. Che stai facendo?

– Mi sto guardando il Telethon…

– E che è?

– È una colletta per la distrofia muscolare.

– Ah! E perché lo guardi?

– Sono cose importanti.

Robbi non avrebbe mai immaginato che un sentimento umanitario albergasse nell’animo del Tenaglia. La cosa piú umanitaria che gli avesse visto fare era stato bucare le ruote a una volante della polizia.

– Vabbè, allora non passo.

– Meglio di no.

– Buonanotte allora.

– Buonanotte.

Il Tenaglia abbassò il telefono e vide che il tabellone delle sottoscrizioni era salito a sette miliardi e settecento milioni. Doveva cominciare a scaldarsi, ma poi partí la sigla del Tg notte.

Il Tenaglia sbuffò: – Che palle, quasi quasi mi faccio un altro panino.

Uscí dalla stanza in punta di piedi. I suoi dormivano.

E mentre il Tenaglia si confezionava una rosetta con pancetta e maionese, la giornalista, nel piccolo schermo della televisione, annunciò che quel pomeriggio un altro transessuale era stato trovato morto. Il cadavere era stato buttato su un prato ai bordi della Cassia. Era il sesto transessuale ucciso in tre settimane e, per il modus operandi, l’omicidio doveva essere opera del Killer del Sole. Anche questo, come tutti gli altri cadaveri, aveva due soli rossi disegnati intorno agli occhi.

Robbi non poteva andarsene a letto cosí.

Continuava a ripensare all’Idrovora che gli diceva tutta candida che adorava fare i pompini. Se non l’avesse portata a cena fuori non ci avrebbe sofferto tanto.

Basta. Me ne vado a casa, mi faccio una sega e mi metto a dormire.

Accese l’autoradio. I Supertramp ripartirono a tutto volume. – Froci! – Buttò la cassetta fuori dal finestrino, selezionò Radio Dimensione Suono e imboccò corso Francia.

La voce della giornalista diede le ultime notizie.

Uno scontro ferroviario in Lituania, il papa in Messico e il ritrovamento di un altro transessuale morto. Il Killer del Sole aveva colpito di nuovo. Il transessuale si chiamava Giulio Paternò, ventitre anni, originario di Macerata.

Quando si riconcentrò sulla strada si accorse di aver svoltato nel Villaggio Olimpico. Non che la strada fosse sbagliata, solo che a quell’ora lí c’era il delirio.

Il Villaggio si riempiva di macchine zeppe di uomini che andavano a mignotte. Là tra quelle schiere di viali alberati e di case basse, costruite per le Olimpiadi del 1960, c’era il piú grande puttanificio della capitale.

Ecco! Mi faccio fare un pompino da una troia.

Ma c’erano dei problemi:

1) Non era mai andato a puttane.

2) Erano pericolose. Aveva piú virus nel sangue una di quelle che il reparto malattie infettive del Fatebenefratelli.

3) Era da sfigati. A puttane poteva andarci il Tenaglia che, poveraccio, con quel naso che sembrava un cannolo siciliano e quei due pneumatici avvolti intorno allo stomaco, non poteva aspirare a niente di meglio. Robbi Cafagna non doveva ricorrere ai soldi per prendersi certe soddisfazioni.

4) Era come la droga. Suo zio Antonio glielo aveva detto: «Una volta che ci vai sei fottuto per tutta la vita. È una rovina».

Non aveva il becco di una lira. Gli erano rimasti appena trenta sacchi.

Lascia perdere, si disse. Vattene a casa.

Era incanalato in una fila di macchine. Avanzavano piano e costanti, come al casello dell’autostrada. Di fare inversione a U non se ne parlava, anche nell’altra direzione era un unico serpente di auto. Dietro aveva un’Audi A4. Al volante ci stava un uomo di mezza età, serio, con un cappello con la falda, gli occhiali da vista e i baffetti neri. Davanti, il culo di una Golf. Sembrava che saltasse per i decibel della musica house che sparava. C’era stipato un branco di balordi che si sbracciavano e si affacciavano dai finestrini. Piú in là c’erano luci colorate. Pareva un incrocio tra la sagra della porchetta e una discoteca.

Il villaggio era diviso in zone. Quella delle negre, quella dei travestiti, quella dei marchettari, quella delle slave.

Eccola.

La vide.

Era la prima.

Una negra appoggiata a un albero con in mano una busta di plastica.

Era cosí alta che sembrava Ronny Austin, il giocatore di basket dei Boston Celtics.

Lui non era razzista, ma le negre gli facevano schifo.

Erano cessi incredibili, vestite di merda. Le negre erano buone solo per fare i lavori a casa. Andando avanti ne vide altre, accanto a dei falò. Sempre con quegli occhi tristi, da bambino del Biafra. Era questo che lo faceva imbestialire delle negre. Non erano delle professioniste, ti facevano sentire uno sfruttatore, che stavi facendo una cosa terribile, come mangiarti un delfino o accannare il cane sul raccordo.

Robbi era sicuro che con trenta sacchi da una negra un pompino lo rimediava, ma piuttosto seghe per il resto della vita.

La stradina fu avvolta da una nube di fumo grigio di carne arrosto. C’era un camioncino tutto illuminato che vendeva panini e bibite fredde. A un lato, su una griglia bruciavano würstel e salsicce.

Nel nebbione intravide brillare delle paillettes. E dalla foschia apparve sculettando una dea, una fica alta un metro e ottanta con due tette grosse e tonde come bocce da bowling. Aveva le gambe lunghe come autostrade, una chioma color savana e dei tacchi d’oro cosí fini e lunghi che sembravano due matite. In mano teneva il reggipetto che alla luce dei fari rifletteva come una palla da discoteca. Aveva due labbra che sembravano un anello di calamaro e un paio di occhiali con margherite sulla montatura. Un’altra avanzava, scura, completamente nuda tranne che per un perizoma e un casco da vigile che le si posava sulle treccine verdi. In mano aveva una paletta e dirigeva il traffico. Altre due, argentate come sirene, giocavano a frisbee. E una, vestita di pelle, si faceva trascinare da un alano arlecchino.

Erano troppo fiche per essere donne, quelle erano trans.

Questa cosa lo faceva diventare pazzo. Se beccavi una puttana fica, potevi mettere la mano sul fuoco che aveva il sorpresone.

Bisognava essere froci per andare con i trans. Non contava niente che molte si erano fatte asportare il cazzo e che erano piú fiche di Alessia Marcuzzi, in ogni cellula del loro corpo c’era sempre una fottuta Y.

Erano uomini.

E da che mondo e mondo chi va con gli uomini è frocio.

Pure per un pompino?

Forse il pompino non valeva. In fondo una bocca è una bocca. Se te lo fai prendere in bocca da un trans non devi essere per forza frocio. E poi i travestiti devono fare dei pompini incredibili perché conoscono il cazzo molto meglio delle donne essendone provvisti dalla nascita.

Improvvisamente il motore singhiozzò due volte e le luci del cruscotto si accesero tutte insieme, poi la Micra spirò.

– Noo!!! – Robbi girò la chiave dell’accensione pregando Dio.

Ma Dio non lo aiutò.

La macchina era morta.

Ci riprovò ancora senza successo.

Le macchine dietro cominciarono subito a suonare. Non potevano superarlo su quel viottolo.

Robbi non sapeva che fare. Guardò nello specchietto e vide che si stavano incazzando. C’era una fila di trecento metri. Il tipo distinto con i baffi si attaccava al clacson come un disperato. Altri, piú indietro, erano usciti dalle macchine.

Un incubo.

Robbi scese dalla macchina e urlò: – Si è rotta, che minchia ci posso fare?

Un tipo grosso con gli occhialetti tondi e i capelli ossigenati rispose: – Spostala, no? Che cazzo aspetti? Che ti linciano?

Figurati se qualche pezzo di merda gli dava una mano.

Bestemmiò e cominciò a spingere la macchina. Fortuna che non aveva preso la Bmw di suo padre. Mentre si faceva venire l’ernia sentiva gli sguardi di tutti che lo osservavano. Il trans con il casco da vigile si era messo in mezzo e ancheggiava. – Vai bello di mamma, forza Ciccio, su, che stai a fare l’ingorgo, e poi arrivano le guardie. Vai!

Un gruppo di coatti con i panini con la porchetta ridevano e gli davano consigli balordi. – Buttala! Cambia macchina! – Dài che ti fa bene al fisichetto –. E in coro: – E uno e due e tre.

Robbi a occhi chiusi, attaccato al finestrino, spingeva come un boia e ripeteva: – Froci, froci, bastardi.

Finalmente la strada si allargò un poco e con un ultimo sforzo riuscí almeno a metterla di lato e permettere alle macchine di passare.

Era tutto sudato. Per lo sforzo gli girava la testa.

E ora che cazzo faccio?

Non poteva certo lasciarla lí. Ce ne ritrovava cinque. Chiamare l’Aci? Una follia. Chiamare sua madre? Un’eresia. Chiamare il Tenaglia?

Chiamò il Tenaglia.

Il telefono cominciò a suonare.

Il Tenaglia lo guardò come fosse un enorme scarafaggio. – Ancora? Ma che è stasera?

Proprio sul piú bello, mancavano venti milioni a otto miliardi ed era tutto concentrato. La Cuccarini si era pure cambiata d’abito e si era infilata una minigonna maialissima.

Rimase a osservarlo, indeciso sul da farsi. E poi abbaiò: – Chi cazzo è? La gente a quest’ora dorme. La gente lavora!

– Tena’?!

– Robbi?! Ancora!

– Tena’ sto nella merda.

– Che succede? – il Tenaglia intanto continuava a fissare il tabellone. Altri quattro milioni. Mancano solo sedici milioni. – Che c’è?

– Mi si è rotta la macchina, devi venire qua.

– Qua dove? – quindici milioni.

– Al Villaggio Olimpico.

– E che ti posso fare? – dodici milioni.

– Mi tiri.

– E con che cazzo ti tiro? – undici milioni.

– Con la macchina di tuo padre.

– È chiusa nel garage, – otto milioni.

– Con la tua?

– Se alla mia ci attacco qualcosa si apre come un divano letto. Senti, scusami, ti devo salutare –. La Cuccarini si era messa a ballare in tanga.

– Sto nella merda.

– Mi dispiace, veramente. Ci sentiamo domani. Ora devo abbassare –. Mancavano tre milioni.

– Tenaglia sei uno stronzo!

– Lo soooh –. Abbassò e venne.

E ora? si disse Robbi.

Aprí il cofano. Dentro c’era il motore. Nero, sporco, pieno di fili, incomprensibile come un manufatto alieno.

Lo guardò.

– Se lo guardi non si aggiusta mica.

Robbi girò la testa.

C’era un travestito, abbronzatissimo, che assomigliava a Mara Venier, solo piú femminile. Addosso aveva la maglia di Totti. Aveva le gambe lunghe e due scarpe argentate con delle zeppe alte venti centimetri. – È un problema elettrico. Controlla lo spinterogeno. A volte si stacca e non fa piú contatto.

Robbi lo guardò con disgusto. Un trans, romanista, esperto di meccanica. Cosa esisteva al mondo di piú ripugnante? – Grazie. Faccio da solo, – disse tra i denti evitando di guardarlo.

Il trans rimase lí.

Robbi cominciò a toccare fili a cazzo.

– Stammi a sentire. È lo spinterogeno –. Il travestito si avvicinò e mise le mani sul motore.

– Non toccare. Anzi, ti sposti per favore –. Si trattenne dal dargli una spinta.

– Scusami, cercavo solo di aiutarti.

Robbi sollevò la testa da dentro il cofano. – Senti, perché non te ne vai? Ti ho chiesto aiuto? Non mi sembra. Perché non te ne vai a lavorare?

Il travestito scosse la testa. – Ho capito, sei uno stronzetto con un mucchio di problemi. Perché sei venuto qua? Che cerchi? Non lo sai nemmeno tu, eh?

Robbi fece due passi verso il travestito, a testa in avanti, gonfio come un galletto amburghese. – Ringrazia Iddio che non sono un tipo violento… Sennò…

Quello gli sbottò a ridere in faccia: – Sennò che facevi? Me lo sbattevi in culo? Ma chi sei?

Non si tenne piú. – Ma chi sei tu! Ma ti sei visto come vai combinato? Frocio! Vai a fare in culo. È giusto che vi ammazzano ai bordi delle strade.

– Pezzo di merda –. Il travestito si allontanò e poi gli disse: – E comunque io lavoro alla Nissan, coglione.

Robbi infilò la testa nel motore, non ci vedeva piú dalla rabbia, tutto questo casino per colpa di quella profumiera della Milano.

Perché non se n’era rimasto a casa.

Poi vide che una specie di valvolona da cui uscivano una selva di fili elettrici era aperta e leggermente sollevata. La spinse in giú e sentí un clic.

Rientrò in macchina e girò la chiave.

La macchina si accese.

Era lo spinterogeno.

Inserí la prima, sgommò superando a destra le auto in fila e schizzò via dal Villaggio.

Robbi desiderava solo tornarsene a casa, ficcarsi in camera e dormire.

Ma gli venne un’idea che avrebbe lenito un po’ il dolore di quella serata di merda.

Mi affitto un bel film porno.

Con un milione e mezzo di pompini. Il Tenaglia ne aveva consigliato uno, uno fantastico… Come si chiamava? Mangiatrici di sperma. La storia sembrava interessante. Una tribú di amazzoni che per una strana mutazione genetica erano costrette per sopravvivere a nutrirsi solo di sperma.

Speriamo che ci sia.

Parcheggiò davanti al videobancomat, smontò dalla macchina, tirò fuori la tessera dal portafoglio e stava per infilarla nel distributore automatico quando si accorse che di fronte a lui, sull’altro lato della strada, c’era una ragazza.

Era alta e magra, indossava una giacchetta verde e una minigonna bianca, estiva, e degli stivaletti a punta di pelle verde. Poggiata sotto un lampione, fumava e si scaldava strusciandosi le mani sulle braccia.

Doveva essere una troia.

Una donna normale non sta impalata a lato della strada alle tre di notte. Certo non ha scelto una strada adattissima, si disse Robbi. Non passa un culo di qui.

Robbi continuò a sfogliare i biglietti che aveva nel portafoglio studiandola con la coda dell’occhio.

Sembrava pure carina. Quella poteva essere perfetta.

E se non è una puttana? O è un travestito?

Gli venne un’idea. Bastava andare lí e con la scusa di chiederle di cambiargli diecimila lire poteva rendersi conto se batteva o se era un travestito.

Attraversò la strada senza fretta e si avvicinò alla ragazza.

Lei non sembrò nemmeno notarlo. Batteva i piedi per riscaldarseli.

Tirò fuori il deca e le si avvicinò: – Scusa, hai da cambiare? – Con la testa indicò il distributore automatico. – Per la macchinetta.

– No, – disse lei senza emozioni.

Non era un travestito, anzi. Era una ragazza e per di piú molto carina. Non doveva essere italiana, aveva la pelle bianca delle slave e sotto i capelli neri si vedeva la ricrescita bionda. Aveva due grossi occhi verdi, il viso magro e il collo lungo. Le guance leggermente rovinate dai postumi di un’acne antica.

Niente male nel complesso.

– Grazie –. E ora? Che le diceva? Quanto vuoi? No, non ne avrebbe avuto mai il coraggio. Si girò e fece due passi verso la macchina.

– Hai una sigaretta? – sentí dietro di sé.

Robbi sorrise, si girò e sollevò le mani. – Non fumo, mi dispiace.

Lei alzò le spalle. – Non fuma piú nessuno.

Parlava italiano con un accento straniero indefinibile.

– È vero, – fece Robbi. E poi per attaccare discorso disse: – È un problemaccio per chi fuma. Immagino…

Lei gettò la cicca a terra e la schiacciò sotto la suola. – Che ti stai a vedere? – gli domandò senza troppa curiosità.

Che intendeva? – Cosa? Non ho capito?

– Che film?

Dille la verità, che cazzo ti frega. Chi la rivede piú a questa. Sorrise e disse: – Il gladiatore.

Lei fece due passi verso di lui. – Che è un film porno?

– No. Ma volevo affittarne uno…

– Non preferisci farle le cose che vederle in televisione? – Lo aveva raggiunto e lo guardava con un sorrisetto malizioso sulle labbra.

– Be’… Certo.

– Allora non buttare i soldi. Ti faccio divertire io.

– Quanto vuoi?

Lei lo guardò, indecisa. – Cento?

Robbi scosse la testa.

– Cinquanta?

– È troppo…

– Guarda che con me puoi fare tutto quello che fanno nei film pornografici. Quanto vorresti pagare?

Deve essere proprio disperata.

Strano, una ragazza cosí bella. Piú la osservava e piú gli piaceva. Da quella minigonna uscivano due gambe lunghe, slanciate e atletiche. E anche se non riusciva a vederle il culo infagottato sotto la giacca era sicuro che gli sarebbe piaciuto.

– Senti, ho solo trentamila lire. Lo so, è poco. Ma non ho nient’altro. E io… – balbettò Robbi. – Io non voglio… Fare tutto. Voglio solo un pompino e basta. Non chiedo niente di piú –. Fece un passo indietro e scosse la testa come i cani di plastica sui lunotti posteriori. – Ho passato una serata allucinante. Ho speso centoventimila lire in un posto di merda con una stronza perché dicevano che faceva i pompini se la portavi a cena fuori e quella, alla fine, non mi ha fatto niente. E tu sei mille volte piú bella. Senti, non è che mi faresti uno sconto? Per una volta lo puoi fare. Se vuoi domani ti porto il resto…

Lei sorrise. Aveva una fila di denti bianchi e perfetti incorniciati da labbra sottili e sensuali.

Robbi si mise le mani sulla faccia abbattuto. – Io ridotto cosí non ci posso tornare a casa. Qualcuno, questa notte, mi deve fare un pompino sennò impazzisco!

– Sei proprio disperato?

– Sí. Se potessi me lo farei da solo, ma non ci riesco.

– Stasera mi sento buona. Te lo faccio per trenta.

Robbi cominciò a saltare. – Non ci posso credere!? Veramente? Grazie mille… sei una santa! Comunque non ti preoccupare, vengo e me ne vado.

Lei allungò la mano. – Andiamo?

– Dove?

– Ti porto da me.

Robbi rimase interdetto. Da lei? Perché? – Scusa, in macchina non va bene?

– Che sei matto? Non la guardi la televisione?

– E allora?

– Non hai visto che c’è un pazzo che ammazza la gente. Che vuoi morire?

Robbi improvvisamente si ricordò del Killer del Sole. – Ah, già! – Solo che andare a casa di una cosí poteva essere altrettanto pericoloso. – Non lo so…

– Stai tranquillo. Abito qui sotto. Comunque se non vuoi, prenditi la cassetta e vattene a casa e immagina come te lo avrei fatto.

Era impossibile dire di no.

Quella ragazza era bellissima. Ed era pure gentile. Se non prendeva quell’occasione si sarebbe mangiato le mani per i prossimi sei mesi. – Ma è lontano?

– Cinque minuti.

Stavano scendendo giú per il crinale della collina, ai bordi di una discarica. Nonostante vivesse da sempre in quella zona non si era mai accorto che di fronte al suo videonoleggio, proprio dietro il giardinetto, c’era una stradina che scendeva verso la ferrovia.

La ragazza aveva tirato fuori una torcia elettrica che diradava giusto un po’ le tenebre. Il fondo del viottolo era fangoso e Robbi doveva afferrarsi ai rami dei cespugli per non scivolare con i mocassini.

– Quanto manca? – ripeté per l’ennesima volta.

– Poco. Tu non sei un leone, eh?

– No, è che… – Non terminò la frase perché poggiò un piede in un buco e scivolò nel pantano. – Sono caduto, vaffanculo!

– Alzati, forza –. La ragazza gli diede la mano. Robbi si tirò su.

Si era imbrattato di terra tutti i pantaloni. I suoi pantaloni migliori, che aveva comprato da Colby in via Nazionale.

Che serata del cazzo.

Finalmente la discesa finí. Si ritrovarono su un terrapieno, a due metri dai binari della ferrovia. Alla sua sinistra c’era la bocca di un tunnel, due lucine verdi rischiaravano appena e facevano brillare l’acciaio dei binari.

– E ora?

– Di qua.

C’era una rete di metallo arrugginita. La costeggiarono per una decina di metri e trovarono un foro circolare nelle maglie. La ragazza ci passò attraverso con l’agilità di un gatto, Robbi con quella di un ippopotamo. Scesero una scaletta di legno pericolante e attraversarono i binari.

Dall’altra parte, tra gli alberi di alloro, il viottolo ricominciava. Era coperto di buste, cocci di bottiglia, pneumatici divorati dal fuoco.

– Eccoci, – disse la ragazza, spostò la fronda di un albero e Robbi vide un grande accampamento circondato dalla foresta. Roulotte, vecchie Mercedes, baracche di lamiera, un paio di fuochi dove sedevano delle figure scure. Un recinto con delle galline. Due capre legate ai resti di una 500.

Un accampamento di zingari!

Si era fatto fottere come un pischello.

Si inchiodò.

Lei gli puntò la torcia in faccia.

– Che hai paura?

– Levami quella luce dagli occhi. No, non ho paura.

– E allora muoviti.

Era strano ma quel posto risultava invisibile da tutte le strade che costeggiavano quel fazzoletto di verde. Aveva un aspetto sinistro, antico, quasi medioevale. Sembrava di stare in un futuro postnucleare, alla Mad Max.

– Bello qui, vero?

– Taaanto, – fece Robbi. Il cuore gli sbatteva nel petto e aveva la bocca secca.

La ragazza incontrò un paio di figure nere e le salutò. Robbi fece ciao con la mano. Si sentí osservato.

La ragazza si fermò davanti a una roulotte. Non aveva piú le ruote ed era poggiata sopra muretti di mattoni. Davanti avevano costruito una veranda di legno e laminati di fibra di vetro. Tutto intorno c’erano delle latte di olio che servivano come vasi per piante di pomodoro e gerani. Attaccato a una corda c’era un bastardaccio che cominciò a mugolare appena vide la sua padrona.

– Buono Silvio –. Il cane si accucciò sotto la roulotte. – Questa è la mia casetta –. Tirò fuori un mazzo di chiavi, aprí la porta e fece segno di entrare.

Robbi ansimò: – Carina –. Ed entrò.

Dentro, in effetti, non era per niente male e faceva pure un bel teporino.

Da una parte c’era un grande letto coperto di cuscini colorati. Una piccola lampada diffondeva una luce calda. C’era un grande specchio su cui erano appese collanine, rosari, pendoli e, infilate nella cornice, cartoline e vecchie fotografie. Le finestre avevano delle tendine ricamate. C’era un vecchio stereo. Un cucinino in ordine con una fila di calici verdi messi ad asciugare e una torta di mele e crema. C’era un divano coperto da un vecchio plaid scozzese su cui dormiva un grosso persiano bianco e nero. Un tavolinetto con sopra un vaso pieno di fiori di campo. Una chitarra. E una televisione dipinta di rosa. A terra una moquette color vinaccia su cui aveva poggiato un tappeto consumato.

– È molto accogliente! – disse Robbi guardandosi in giro.

– Lo vuoi un tè? – Lei mise un bricco con dell’acqua a scaldare e poi prese una cassetta: – Ti piace la musica?

Robbi fece segno di sí con la testa.

Lei accese lo stereo e una musica allegra, tutta violini e cornamuse, invase la roulotte. – È la musica del mio Paese –. Poi si levò la giacchetta. Sotto aveva un gilè da uomo sopra una maglietta nera a maniche lunghe. – Io mi spoglio…

Robbi, in piedi, rimase incantato a guardare lo spettacolo.

La ragazza si tolse la maglietta. Indossava un reggiseno di cotone bianco. Di quelli semplici, senza fronzoli e nastrini. Se lo levò senza farsi problemi. Aveva due tette tonde e piccole ma nemmeno troppo. I capezzoli erano scuri e puntavano all’insú. Poi si sedette sul divano, si accese una sigaretta, si tolse le scarpe e le gettò in un angolo. Si sfilò la gonna e le mutande insieme e si mise in piedi. Robbi ebbe un giramento di testa. Aveva un corpo perfetto. Magro ma con i fianchi. La pancia era piatta e muscolosa. I peli della fica formavano una strisciolina castana e le chiappe alte e sode.

In vita sua Robbi aveva visto un fisico cosí solo sulle copertine dell’«Espresso».

La ragazza versò l’acqua nella teiera. – Che fai, non ti spogli?

– Giusto –. Robbi si strappò i vestiti di dosso.

– Infilati a letto. Ti porto il tè.

Robbi non se lo fece dire due volte, planò sul materasso mentre i violini zigani eseguivano una doina struggente.

Lei spense la luce. La roulotte cadde nella penombra. Dalla finestrella accanto al letto entravano i bagliori dei fuochi dell’accampamento.

La vide avanzare verso di lui, tra le mani aveva un vassoio, nel buio s’intravedeva la linea perfetta dei seni. Sentí il cazzo indurirsi.

Lei gli si sedette accanto, poggiò il vassoio a terra. – Come sta il tronchetto della felicità?

– Non c’è male –. Lui le prese un polso e la tirò verso di sé.

– Aspetta –. Spense la sigaretta e gli carezzò una gamba.

Al contatto con quella mano fresca sentí lo stomaco strizzarsi come una spugna, fece un respiro e buttò indietro la testa.

Ebbe l’impressione che una sagoma lo osservasse.

Girò lo sguardo un istante verso la finestra e vide dietro il vetro Franco Nero.

Franco Nero in Django.

Non ebbe nemmeno il tempo di stupirsi, di strillare, di sollevarsi, di scostarsi, di fare niente, che un braccio grosso come un coscio di prosciutto e una mano forte come una morsa gli si serrò sul padiglione dell’orecchio e fu tirato fuori attraverso la finestrella con una forza incredibile.

Si ritrovò nudo nel fango. Cercò di sollevarsi ma un camperos lo inchiodò a terra come uno scarafaggio. Il sosia di Franco Nero lo guardava con due fessure buie. Era enorme. Molto piú grosso dell’attore. Peloso. Con una criniera biondiccia che gli cadeva sulle spalle. Una barba scura e incolta gli arrivava sopra gli zigomi. Appeso al collo aveva un teschio d’argento, addosso un gilè di pelle con ricami di perline e tra le mani stringeva un fucile con il calcio intarsiato in madreperla.

Django gli poggiò in fronte la doppietta. – Chi cazzo sei tu? Ti scopi mia moglie, pezzo di merda, in casa mia. E ora muori.

Robbi gli vomitò sullo stivale e poi, fremendo come un tritone albino, chiuse gli occhi.

Il colpo non arrivò.

Sentí invece una voce femminile che urlava: – Cjenik usluga u domacinstvu! Cosí capisci che vuol dire tornare a casa e trovare che ti stanno tradendo. Cosí impari, figlio di puttana, l’ho fatto per farti capire come mi sento ogni volta che torno e ti trovo…

Robbi riaprí gli occhi e dalla sua angolatura raso terra vide la ragazza nuda che con un manico di scopa colpiva l’orco slavo sulla schiena e sulla testa. – Non è bello, vero? Vedi! Vedi! Vedi! Ti odio! Tutte te le sei scopate! Marija, Rijeka, Visevica! Ti odio, maiale, porco!

Django cercava di ripararsi e mantenere il piede schiacciato su Robbi, ma la ragazza continuava a menare colpi come un’invasata. Alla fine fu costretto a mollare la presa per difendersi.

Robbi ne approfittò immediatamente e sgusciò nel fango sotto la roulotte.

L’orco strappò la mazza dalle mani della ragazza, la spezzò in due e le diede un rovescio che la fece volare a diversi metri di distanza. Grugní come un orso ferito, gli occhi gli scomparvero tra i peli della barba e urlò: – Povecava! – e poi si gettò sulla roulotte. L’afferrò con due mani cercando di ribaltarla.

Robbi urlava e strisciava. – Io non c’entro niente. Non ho fatto niente. È stata lei a portarmi qua. La prego, la smetta! Parliamo.

Intanto intorno si era radunato tutto il villaggio. Gli uomini stringevano forconi, zappe e torce. Le donne tenevano cani feroci che raspavano il terreno e si strozzavano. Tutti urlavano.

Ora mi ammazzano! Ora mi ammazzano! Robbi cominciò a cercare di scavare a terra una buca mentre sopra di lui la roulotte sbatteva e sussultava come se l’avesse investita una tromba d’aria.

Django mollò la presa e iniziò a dare calci sotto la roulotte urlando: – Esci fuori! Esci se sei un uomo! Battiti da uomo! – Robbi andava avanti e indietro come un topo in trappola.

Qualcuno che stava là insieme agli altri urlò qualcosa: – Vanskji potvori rui!

Improvvisamente ci fu silenzio.

Qualcuno è intervenuto. Il capo del villaggio. Gli avrà detto di smetterla.

Non ebbe il tempo di tirare un sospiro che sentí un latrato ai suoi piedi e un diavolo nero con sessantaquattro denti gli venne addosso cercando di azzannarlo.

Schizzò fuori da sotto la roulotte.

E poi ci fu il nero.

Riaprí gli occhi quando gli arrivò in faccia una secchiata d’acqua gelata.

Strabuzzò gli occhi.

Dove si trovava?

Era nudo, legato contro un palo. In una mano aveva il coperchio di un secchio dell’immondizia e nell’altra un tubo di ferro.

Alzò lo sguardo. Era all’angolo di un’arena cinta da steccati e pneumatici. Al centro del ring una 127 sport bruciava sollevando fiamme che rischiaravano la notte. Dietro c’erano vecchi, ragazzini, donne che impugnavano fiaccole e urlavano. Cani che abbaiavano. Di fronte a sé, dall’altra parte della recinzione c’era Django. Si era tolto il gilè, aveva le braccia completamente avvolte da due cobra tatuati. Il sudore che lo copriva lo faceva brillare come un’insegna al neon. Urlava come un matto. Lo trattenevano. In tre.

Il suono di un gong e Django si sollevò ruggendo, Robbi provò a scappare, a scavalcare la recinzione ma dietro aveva un piccoletto calvo con un cacciavite in mano. Glielo infilò nelle reni. Robbi urlò di dolore come un babbuino ferito. Una vecchia gli tirò una bottiglietta di Oransoda in testa.

Poi gli sciolsero le corde e lo spinsero verso il centro dell’arena.

Provò di nuovo a uscire fuori ma il piccoletto lo colpí ancora con il cacciavite. Tutto intorno era un muro umano. Lo incitavano a combattere. Da dietro le fiamme apparve Django. Ruotava sopra la testa una corda a cui era legata una batteria Magneti Marelli.

Robbi cominciò a scappare inseguito dall’orco facendo infuriare la folla che gli tirava addosso immondizia, sassi, di tutto. Cercò di fare uno slalom ma fu colpito in testa da una bottiglia di Jägermeister. Non ci vide piú. Sentí le gambe trasformarsi in pongo e per poco non cadde a terra. Quando gli tornò la vista Django era di fronte a lui. Sentí un sibilo e la batteria gli passò fischiando a cinque centimetri dal naso. Sollevò il tubo per difendersi ma gli schizzò dalle mani colpito dalla batteria.

Fece due passi indietro e sentí un dolore lancinante nella schiena.

– E mo’ basta! Hai rotto il cazzo! – e con tutta la forza che aveva lanciò alle sue spalle come un frisbee il coperchio del secchio colpendo sulle gengive il piccoletto calvo, che crollò a terra sputando sangue.

Ci fu un attimo di silenzio.

Il pubblico era ammutolito.

Robbi si guardò intorno, poi con un balzo insospettabile superò la staccionata e caracollò sul ferito, si rimise in piedi e cominciò a correre mentre intorno a lui si sollevavano le urla.

Correva disperato nel buio, a bocca aperta, a mani avanti, l’adrenalina che gli intasava le arterie, il cuore che gli scuoteva lo sterno.

Correva e piangeva.

Non c’era una parte del corpo che non gli facesse male, che non fosse graffiata, contusa, lacerata. I rami lo artigliavano, i cespugli lo frustavano, i sassi gli bucavano i piedi. Era riuscito a prendere un po’ di vantaggio, ma li sentiva dietro. Non mollavano. Appena si fosse fermato lo avrebbero ripreso.

Una piccola porzione del suo cervello continuava a ripetergli che era solo un sogno, un incubo, il peggior incubo della sua vita, che si sarebbe svegliato e avrebbe trovato nonna Carmela che gli portava il caffè e le macine del Mulino Bianco.

I cani. I cani lo terrorizzavano piú di ogni cosa. Li sentiva abbaiare.

Aveva perso completamente l’orientamento. E quello spicchio di bosco tra l’Olimpica e viale Parioli era in realtà un bosco enorme. Decise di risalire il versante di una collina. Ma se non si fermava a riprendere fiato moriva. La milza gli pulsava sopra l’inguine piegandolo in due dal dolore.

Si arrampicò su un grosso condotto di cemento che correva dritto tra gli alberi. Sotto non vedeva niente. Era tutto nero. Poteva esserci un metro come sei.

Torna indietro.

I cani e le urla si avvicinavano e un bagliore di fuochi rischiarava i tronchi neri degli alberi.

Eccoli.

Strinse i denti, chiuse gli occhi e si gettò nel buio bestemmiando.

Sprofondò in un cumulo di immondizia senza farsi niente. Era finito tra buste, frutta marcia, poltrone di automobili, scatole di cartone. C’era una puzza da vomitare.

Doveva fare come Rambo quando era inseguito dall’esercito degli Stati Uniti.

Cominciò a coprirsi con bucce di banana, lische di pesce marcio, la carcassa di un pastore tedesco, giornali.

Rimase lí tremante a pregare mentre i suoi inseguitori lo superavano.

Quando fu sicuro che fossero abbastanza lontani, si tirò fuori e sollevò le braccia al cielo.

Scese dal cumulo di immondizia e si ritrovò in un piazzale tra gli alberi. In lontananza sentiva il rumore delle macchine. Le nuvole grigie riflettevano le luci della città rischiarando un po’ le tenebre.

Forse era salvo.

Si avviò zoppicando verso una baracca di lamiera accanto a un deposito di materiali da costruzione. Era buia, ma avvicinandosi vide che dietro gli scuri filtrava una bava di luce.

Ebbe l’impulso di bussare, ma si trattenne. Se dentro c’era uno di quelli del villaggio?

Dietro la baracca era tirato un filo a cui erano appesi dei panni. Si avvicinò e prese in mano una specie di lunga maglietta. Se la infilò. Gli stava strettissima. Si rese conto che era un vestitino da donna, scollato, che gli arrivava a malapena sotto l’uccello.

Si diresse verso le macchine, attraversò un pantano e si ritrovò in un giardinetto ben curato con tanto di panchine, scivolo e altalene.

Ce l’ho fatta.

Era su una grossa arteria dove sfrecciavano automobili. Non era lontano da casa. Stava per avviarsi quando sentí strillare: – Ostap preda odlegadi! Ostap!

Django. Con tutti gli altri.

Lo avevano beccato.

Cominciò a correre e quando vide una vecchia Mercedes grigia venire verso di lui, si piazzò in mezzo alla strada sbracciandosi.

La macchina inchiodò a una ventina di metri e lo sportello posteriore si aprí e Robbi zoppicando e ringraziando Dio ci si tuffò dentro a pesce.

«Aria. Nell’aria. Voglia. Di te. È domenica e tu chissà che cosa fai… La mia voglia è grande, è scandalosa ormai», cantava Marcella Bella nell’autoradio.

– Grazie! Grazie! Mi avete salvato la vita. Mi volevano ammazzare –. Robbi guardava nel lunotto posteriore scomparire Django e i guerrieri della palude silenziosa. – Non so come… – La frase gli morí in bocca quando vide gli occupanti della macchina.

Dentro la Mercedes c’erano tre ciccioni, enormi, con i capelli tagliati a zero. Avevano le teste tonde e grosse come angurie che si avvitavano direttamente sulle spalle. Gli occhi piccoli e inespressivi come uova di tortora. Dalle labbra umidicce spuntavano sfilze di dentini storti come lapidi.

Tutti e tre indossavano tute acetate Sergio Tacchini azzurre e sotto delle magliette bianche con scritto: «Gemelli Francescini. Caldaie a metano, installazioni e riparazioni».

Ai polsi avevano orologi d’oro grossi come saponette e bracciali che sembravano catenelle del cesso, e sorridevano.

Django e compagni erano dei buontemponi in confronto ai tre gemelli.

Quello seduto accanto a Robbi sarebbe stato in grado di ingoiarsi una libreria dell’Ikea smontata e cacarla montata, con tanto di sportelli.

Quello seduto davanti storse il naso e aprí il finestrino. – A Ivo, questo puzza peggio di un cadavere. Sto per vomitare.

Ivo che guidava scosse la testa. – E mo’ ’sta puzza m’impregna tutta la tappezzeria, proprio oggi che l’avevo portata al lavaggio. Tullio, domandagli se se lava con i morti.

Tullio, quello seduto accanto a Ivo, tirò fuori una pistola e la puntò in faccia a Robbi. – Certo che come travestito sei proprio una merda. Ma che cazzo fai? Prima di andare a battere ti fai il bagno nella fogna? Che è una nuova tecnica per farsi notare?

Lo avevano scambiato per un travestito.

Robbi provò a parlare ma aveva la sensazione che uno scorpione gli avesse punto la lingua trasformandogliela in un babà rinsecchito. Sbiascicò una frase senza senso.

– Non si capisce una sega. Dev’essere extracomunitario, – fece Tullio agli altri e poi scandendo le parole a Robbi: – S-e-i-e-x-t-r-a-c-o-m-u-n-i-t-a-r-i-o?

Ivo intanto continuava a osservare Robbi nello specchietto retrovisore e a scuotere la testa: – Io penso che pure per battere ci vuole un minimo di professionalità. Non s’è nemmeno fatto la barba. E guarda che cazzo di peli ha sul petto… Ma ti rendi conto…

Quello accanto a Robbi disse: – Un travestito con i peli è come un negro con la Ferrari. Stona –. Poi tirò fuori dai pantaloni della tuta una pistola e con la canna sollevò il vestito di Robbi. – Ci ha pure il cazzo. Piccino.

Robbi cominciò a battere i denti e provò a difendersi, ma la voce gli tremava come un violino scordato. – Guardate che vi state sbagliando, io non sono un travestito. Io sono normale. Un gruppo di pazzi mi voleva uccidere. Questo vestito me lo sono messo perché mi hanno rubato i miei.

– Allora meno male che siamo arrivati noi a salvarti, – disse Ivo e prese a sghignazzare come se avesse fatto la battuta piú divertente del mondo.

Intanto Marcella Bella, nello stereo, continuava a cantare.

– Guardate che io non sono un travestito. Ve lo giuro su Dio, vi sbagliate, io i froci li odio. E i travestiti li vorrei vedere tutti morti. Mi fanno schifo.

E Tullio disse: – Sí come a me fanno schifo i profiterole e il monte bianco.

Scoppiarono tutti e tre a ridere e si davano gomitate.

Si fermarono a un semaforo rosso. Robbi, senza pensarci, si avventò sulla maniglia. La porta non si aprí.

– Ho messo la sicura per i bambini cattivi che vogliono buttarsi di sotto, – spiegò Ivo e domandò a quello seduto dietro: – Augu’, che ne facciamo di questo?

Augusto ci rifletté un po’ sopra e poi disse: – Non lo so… Non so se prima incularmelo e poi ucciderlo, o viceversa.

La musica finí e Robbi sentí delle urla soffocate e dei colpi arrivare da dietro la schiena.

C’è qualcuno nel bagagliaio.

– Ahò!? Ma non la pianta piú? Ma come fa? – si domandò Tullio. – Augu’ diglie qualcosa.

Augusto cominciò a dare colpi con il calcio della pistola sul pianale posteriore della Mercedes e a urlare: – Ancora?! Hai cacato il cazzo! E basta!

– La criccata dove gliel’hai data? – domandò Ivo.

– E dove gliel’ho data? In faccia.

– Lo vedi che fai sempre le cazzate? Gliela devi dare sul mento, un po’ a destra, cosí gli scardini la mascella. Cosí è preciso.

– Guarda che me lo hai detto te di dargliela in faccia. Tu comandi e io eseguo.

– Ma che cazzo dici?

Robbi ebbe la certezza che quei tre erano i Killer del Sole e si pisciò addosso. Vide che avevano imboccato il grande raccordo anulare a centottanta all’ora. Cercò di asciugare il lago di piscio con il vestito. Non l’avrebbero presa bene se lo avessero scoperto.

– Augu’ devi stare a sentire tuo fratello. Quante volte te l’ho detto? – disse Ivo.

Augusto sbuffò imbronciato.

Tullio tirò fuori un classificatore di cd. – Che metto?

Ivo imboccò lo svincolo per la Pontina. – E su, fai il bravo padrone di casa. Domanda all’amichetta che musica vuole sentire.

Augusto aggiunse: – Cosí scopriamo se è frocio o ci fa. Dalla musica si capisce facile. È la migliore prova.

Augusto gli puntò la pistola sotto il mento. – Che musica ti piace?

– Non sono frocio. A me piacciono le donne.

– Che musica ti piace?

– Ve lo giuro… A me gli uomini… – Augusto gli mollò il calcio della pistola sui denti.

Robbi sentí un fiotto di sangue riempirgli la bocca. E sputò un paio di incisivi.

– Lo vedi che glieli dai sempre in faccia. Avevo ragione o no? – fece Ivo.

Augusto sbuffò. – Non lo faccio apposta. Mi viene naturale. Allora che musica ti piace?

Robbi era talmente terrorizzato che non riusciva a capire nemmeno la domanda. Si premeva la bocca con una mano.

Augusto gli puntò la pistola alla tempia e sollevò il grilletto. – Che musica ti piace? Hai cinque secondi per rispondere. Uno…

Se non rispondeva bene quello gli sparava. In testa aveva solo una domanda: qual è la musica da froci?

– Due…

Cercava nomi di cantanti, di gruppi rock ma il cervello era un buco nero.

– Tre…

Come se non avesse mai ascoltato musica in vita sua.

Ivo disse: – Forza, mica ti ha chiesto i sette vizi capitali. Rispondi che quello ti ammazza.

– Quattro…

Robbi balbettò: – I… Super… Supertramp…

I tre cominciarono a ridere come matti.

Robbi urlò: – No, non i Supertramp, i Metallica.

Ivo si asciugò le lacrime. – I Supertramp! I Supertramp? I Super sono piú froci dei Bee Gees.

Tullio aggiunse: – Pure i Bee Gees.

Augusto: – E di quegli altri, come si chiamano? Quelli che si vestivano da indiano, da poliziotto, da meccanico… Come cazzo si chiamavano? Dài, come cazzo si chiamavano?

Ivo: – I Village People. Che razza di frocioni!

Robbi disse: – Guardate che ho detto i Metallica.

Ivo sterzò bruscamente e inchiodò al bordo della strada sollevando una nuvola di polvere e poi si voltò verso Robbi.

– Stammi a sentire bene. Primo, nei giochi vale sempre la prima risposta. Secondo, sei un travestito di merda che non merita di vivere. Terzo, i Supertramp sono merda per froci. Quarto, scendi da questa macchina.

Robbi piangeva in ginocchio. Gli avevano legato i polsi dietro la schiena con il fildiferro. Erano a una trentina di metri dalla strada in un campo arato. La luna faceva capolino tra le nuvole livide e tingeva di giallo le zolle.

I tre gemelli erano in fila di fronte a Robbi, ognuno con una pistola in pugno.

Augusto disse: – Ora ci fai un pompino a tutti e tre. Mi raccomando lavora bene, che non c’è niente di peggio che un pompino fatto male.

Ivo si fece avanti, si stava abbassando la tuta quando ci fu uno sparo e il ciccione crollò a terra con un foro rosso al centro della fronte. Gli altri due non ebbero il tempo di fare niente, che crollarono a terra pure loro con un buco in testa.

Robbi si girò.

In piedi a cinque metri c’era un uomo, con un casco da motociclista, una tuta viola e un mantello di raso rosso. L’uomo soffiò sulla canna della pistola e sollevò il pollice.

Robbi singhiozzò: – Chi sei? Superman?

Il Tenaglia dormiva sul suo letto. Russava, sfatto dalla maratona. Il tabellone segnava venti miliardi. La Cuccarini disse che doveva lasciare per cinque minuti lo spazio a un’edizione speciale del telegiornale.

Sigla.

La giornalista con aria preoccupata riferí che un altro fatto di sangue si era consumato in quella notte disgraziata. Sulla Pontina era stato ritrovato il cadavere di un transessuale non ancora identificato ucciso accanto a tre gemelli. Partí il servizio.

Se il Tenaglia fosse stato sveglio avrebbe riconosciuto il suo amico Robbi Cafagna in un vestitino a righe e con due soli dipinti intorno agli occhi, steso, morto, tra le zolle di un campo arato.

(2002)