Michele entrò in camera. In mano stringeva un manico di scopa spezzato. Come prima cosa prese a bastonate un po’ tutti i mobili della stanza. Poi salí in piedi sulla vecchia poltrona di pelle vicino alla finestra.
– Pippo, Pippo, guarda che ho inventato! – disse.
Suo fratello Filippo stava sdraiato sul letto a leggere per la centesima volta Asterix in Corsica.
– Che vuoi?
– Ho fatto un’invenzione nuova. Vieni a vedere.
Michele inventava di tutto: un frullatore che funzionava da ventilatore, una scatola di scarpe con dentro un kit di sopravvivenza nel caso in cui uno si fosse perso in bagno o in cucina, una slitta di stracci con cui aveva rotto la vetrata del corridoio e uno spara-batterie fatto con un tubo dell’acqua con cui aveva quasi fatto secca sua sorella Roberta.
Michele aveva dieci anni e Filippo dodici.
– Ho inventato un telecomando. Un telecomando per la televisione.
Quella del telecomando era un’annosa e lunga questione.
La famiglia di Filippo aveva da tempo immemorabile un vecchio e scassato televisore in bianco e nero Grundig.
Sembrava sempre che dentro quell’apparecchio nevicasse. Tutto: i film, i documentari, il telegiornale avevano qualcosa di nebbioso, come se i programmi si svolgessero in mezzo a una bufera di neve.
L’acquisto di un televisore a colori veniva rimandato dal padre di Filippo con regolarità al Natale successivo ma a pochi giorni dal 25 dicembre spuntavano fuori spese impreviste: tasse, debiti, rate e l’acquisto si rimandava all’anno successivo.
Filippo e Michele invidiavano un sacco Pietro, il bambino che abitava al terzo piano. I suoi genitori avevano in salotto una specie di gigantesco scatolone americano con un telecomando che sembrava una macchina da scrivere.
– Vieni, vieni, – lo pregò Michele con la sua voce lamentosa.
Afferrò per una manica il fratello e lo trascinò a forza in salotto.
– Guarda.
Si sedette a tavola.
Allungò un braccio e con la mazza colpí il televisore un paio di volte facendo un baccano infernale. Alla terza botta, finalmente, centrò il pulsante di accensione. La tele si illuminò.
Furia, il cavallo del West, nitrí dallo schermo.
– Guarda.
Colpí ancora la grossa pulsantiera dei canali. Primo, secondo, reti private.
– È un telecomando.
– Come è un telecomando?
– Sí, è un telecomando di legno, – disse Michele mentre un sorriso che andava da un orecchio all’altro gli deformava la faccia. Si aggiustò gli occhiali di ferro sul naso e si rimise su la frangetta.
– Com’è questa invenzione? – continuò.
Filippo prese il manico della scopa, si sedette anche lui a tavola e assestò un paio di colpi all’apparecchio facendolo vacillare.
Sí, si riusciva a cambiare. Si poteva mangiare e comodamente cambiare canale.
Suo fratello era un genio.
– Molto buona. Sai che facciamo? La regaliamo a papà questa sera.
– Va bene. Però gli dici che l’ho inventata io.
– Sí.
Il padre di Michele e Filippo, il signor Mario D’Antoni, non si vedeva spesso a casa in quel periodo. Aveva da poco aperto con un suo amico un’agenzia di viaggi e tornava la sera distrutto e spesso di malumore. Gli affari non gli andavano molto bene.
Ma quella era una giornata particolare e il signor D’Antoni sarebbe stato conciliante.
Era sabato. E il sabato alla tele c’era Sandokan e i pirati della Malesia. Filippo contava i giorni tra una puntata e l’altra.
Per cena si riuní tutta la famiglia.
Filippo, Michele, Roberta, la sorella di sedici anni, la signora e il signor D’Antoni. Tutti appiccicati allo schermo a guardare lo sceneggiato. Sandokan piaceva a tutti e la mamma di Filippo preparava per l’occasione la famosa «pasta alla Sandokan», che poi non era nient’altro che pasta al burro, parmigiano e basilico.
Filippo era molto eccitato e contento anche perché il giorno dopo, domenica, era in programma una gita in campagna.
La famiglia D’Antoni era alla ricerca del posto ideale per fare un picnic. Una consuetudine smentita solo dalle domeniche piovose o troppo fredde.
Filippo adorava la campagna e quello che piú gli piaceva era fare da avanguardia al suo drappello di parenti e cercare i posti migliori dove farli accampare. Correva in avanti con suo fratello alle costole e lanciava bombe a mano, guardava la bussola e ogni tanto saltava in aria colpito dalle mine antiuomo.
– Domani dove andiamo a fare la gita? – domandò al padre.
– Domani andremo vicino Tuscania, risaliremo un torrente a valle e cercheremo le famose grotte dove vive l’orso laziale dai denti a sciabola.
Il padre di Filippo e Michele riusciva sempre a dare un tono epico alle loro gite fuori porta. La settimana prima erano stati a Tarquinia nella necropoli a cercare il fantasma del «lucumone», l’antico re degli Etruschi.
Entrò la madre di Filippo con una zuppiera tra le mani. La posò al centro della tavola.
Filippo si gettò sul cibo. Si riempí il piatto e se lo mise davanti.
– Aspetta Filippo! Servi prima gli altri. Io non capisco come mai sei cosí maleducato, – gli disse la madre sbuffando.
Filippo prese il piatto che aveva davanti e lo passò a suo fratello. Poi cominciò a prepararne un altro per la sorella.
– Papà. Papà. Abbiamo un regalo per te, – disse improvvisamente Michele con il boccone in bocca.
Il bambino si alzò e tornò poco dopo con il manico di scopa avvolto nella carta da pacchi. Si sedette.
– Tieni.
– Che cos’è? – fece il padre poco convinto. C’era il telegiornale.
– Apri.
Il signor D’Antoni strappò rapidamente la carta e tirò fuori il manico di scopa. Poi lo poggiò contro il muro e riprendendo a guardare la televisione disse:
– È un bellissimo regalo ma ora mangia la pasta perché se no si raffredda. E poi non ti alzare da tavola.
– Guarda papà.
Michele scese di nuovo dalla sedia e corse dal padre.
– Ho detto di non alzarti da tavola. Cristo.
Michele afferrò con due mani il manico, lo portò sopra la testa, si alzò in punta di piedi e prese la mira.
E poi colpí.
– Guard… – la parola gli si ruppe in bocca.
Non colpí il televisore.
Era troppo lontano e Michele era troppo in basso. Colpí la tavola. Il manico della scopa come una mannaia si abbatté sul centro della tavola.
La zuppiera con la «pasta alla Sandokan» si aprí in due spargendo pasta sulla tovaglia. Il bicchiere di sua sorella Roberta schizzò in aria in mille pezzi. La bottiglia dell’olio rotolò fino al bordo del tavolo e precipitò sulla camicia del padre.
Ci fu un attimo di silenzio. Tutto sembrava essersi fermato nella stanza.
La signora D’Antoni a bocca aperta con la bottiglia di vino in mano. Il signor D’Antoni che si reggeva orripilato la camicia unta. Roberta D’Antoni che guardava i pezzi di bicchiere sparsi tra gli spaghetti.
– Micheleeeee! – urlò Mario D’Antoni.
– Michele sei il solito deficiente, – gli ragliò dietro Roberta.
– La mia zuppiera di Vietri, – si lamentò la signora Gabriella.
Filippo si mise le mani nei capelli.
È morto. Mio fratello è morto.
Si sentiva vagamente colpevole, mortificato, per quello che aveva fatto suo fratello. Lui non c’entrava niente se suo fratello era un cretino ma nonostante questo aveva dentro qualcosa simile alla colpa.
È colpa mia. Gliel’ho detto io.
Michele fu il primo a riprendersi.
– Mamma! Mamma te la incollo io la zuppiera. Che ho fatto! – miagolò. Poi guardò meglio il disastro che aveva combinato e scoppiò a piangere.
Filippo si alzò e cominciò a raccogliere la pasta dal tavolo.
– Non mettere le mani lí! È pieno di vetri. Ti tagli, – gli urlò sua madre.
Michele continuava a piangere. Roberta dall’orrore era passata al riso che nascondeva con una mano davanti alla bocca.
– Smettila di frignare. Ma sei impazzito. Guarda che hai fatto, – fece il signor D’Antoni. Stava seduto al suo posto con un ghigno sulla bocca a metà tra il disperato e il furioso.
– Ma papà… – singhiozzava Michele.
– Guarda che mi ha fatto alla camicia. È da buttare. Gabriella non dirmi che non si può lavare.
– E che ti devo dire, Mario. Quella neanche in lavanderia…
Filippo si avvicinò al fratello e cercò di consolarlo. Ma Michele aveva attaccato con uno di quei pianti diluviali che non terminavano mai.
– Dài Michi, smettila. È solo che hai sbagliato il colpo… Ma il telecomando è mitico.
Gli faceva pena suo fratello. Non ne combinava mai una buona. Aveva delle intuizioni geniali che finivano sempre in un guaio. E questo era proprio bello grosso.
– Io sono stanco. Non ce la faccio piú. Lavoro come uno schiavo. Voi mi volete far morire… Questi due mi faranno venire un infarto… Non imparano niente, – continuò affranto il signor D’Antoni.
Perché mi ci mette dentro sempre anche me quando si arrabbia con Michele? Io che cosa c’entro? pensò Filippo. Voleva chiederglielo ma non era il caso. Era meglio farlo sfogare. Era meglio stare zitto e aspettare che la bufera passasse, che cacciasse fuori tutto il nero che aveva dentro, poi forse ci poteva parlare di nuovo.
Intanto alla televisione era incominciato Sandokan. Nessuno sembrava farci caso.
Roberta e la madre sparecchiavano. Il padre continuava a strillare. Era una specie di ciclone che si autorigenerava.
– Papà guarda che Michele ti voleva fare un regalo, – balbettò timidamente Filippo.
Il signor D’Antoni si voltò e guardò il figlio con una smorfia ironica e cattiva. Sí, sembrava veramente cattivo.
– Ah, un regalo? È un regalo prendere a bastonate la tavola?
– No, papà, lui voleva solo cambiare canale. Il bastone può funzionare come un telecomando.
– Adesso basta. Stai zitto. Non voglio piú sentirvi, – e poi rivolgendosi alla moglie: – Gabriella portami una camicia pulita.
– Ma io che c’entro? Io non ho fatto niente, – continuò Filippo. Sentiva la gola chiudersi e il pianto montargli su come una marea inarrestabile. Stava per piangere. E non voleva piangere.
– Ho detto che non voglio sentirvi. Andate in camera.
– Ma io che c’entro?
– Sei grande. Non sei piú un bambino. Ti devi occupare di tuo fratello. Se lui fa delle stupidaggini, tu devi dirgli di non farle. Hai capito?
– Ogni volta, alla fine, è colpa mia. È sempre colpa mia, – disse Filippo piangendo.
Il pianto era arrivato e con questo la rabbia. Rabbia verso suo padre che non capiva. Che ogni volta non capiva. Che ogni volta lo incolpava ingiustamente.
Perché?
Perché?
Sentí dentro una strana voglia. Una voglia perfida di riprendere il bastone e incominciare a menare colpi sul tavolo, sul televisore fino a farlo esplodere, su tutto. Ricacciò a forza le lacrime dentro.
– Basta! Vai in camera tua! – urlò il signor D’Antoni. Si girò, alzò il volume della televisione e si mise a guardarla.
Filippo rimase un attimo cosí, volendo rispondere ma senza parole, senza sapere che fare. Afferrò la mano del fratello che ancora singhiozzava e lo portò in camera. Lo fece entrare.
– Stai qua! Torno subito, – gli disse.
Rifece il corridoio poi si affacciò nella sala da pranzo. Suo padre stava pelando una mela, come nulla fosse stato, e si guardava Sandokan. Anche Roberta.
– Volevo dirvi una cosa. Io domani in campagna non ci vengo, – disse Filippo ad alta voce.
Sua sorella sembrava quasi contenta di tutta quella storia. Sorrideva, la stronza.
La odiò.
– Che vuoi ancora? – disse il padre girandosi appena.
– Ho detto che domani io in campagna non ci vengo.
Filippo era sicuro che quello era un avvertimento terribile. Che i suoi si sarebbero rimangiati tutto, che si sarebbero scusati, che avrebbero detto che lui non c’entrava niente pur di averlo con loro in campagna.
– E chi se ne importa.
Filippo sentí qualcosa dentro spezzarsi. Un dolore terribile.
«E chi se ne importa».
A suo padre non importava niente se lui c’era o non c’era in campagna. E cosí a sua sorella e a sua madre.
Uscí dalla sala da pranzo sbattendo la porta. Corse fino alla sua stanza. Ci si chiuse dentro. Poggiò i piedi contro il muro e spinse il comò verso la porta.
Si era barricato.
Michele aveva smesso di piangere e stava sul letto a guardare il fratello.
– Che stai facendo? – gli chiese.
– Cosí non possono entrare.
Filippo si sedette accanto al fratello e lo guardò.
– Domani non ci andiamo in campagna. Va bene? Ce ne rimaniamo a casa. Io e te soli. Ci vadano loro in campagna. Tanto a me non me ne frega niente…
– Neanche a me, – concordò Michele. Filippo gli poggiò il braccio intorno al collo.
Forse non sarebbero nemmeno usciti dalla stanza. Lí dentro avevano tutto. Acqua, biscotti. Si sarebbero chiusi dentro per una settimana. Lui e suo fratello. Quella non era una stanza ma un bunker.
– Pippo, Pippo, io voglio vedere Sandokan!
La voce del fratello interruppe i suoi pensieri di vendetta.
– Che vuoi?
– Voglio vedere Sandokan!
– Non si può. Non si può andare di là. Loro ci odiano.
Filippo sapeva che certe cose suo fratello non le capiva. Si dimenticava subito degli schiaffi, delle punizioni ingiuste. In dieci minuti tutto ritornava normale.
– Se vuoi possiamo giocare con la pista, – gli disse infine.
Doveva distrarlo se no quello era capace di andare di là e distruggergli tutto il piano di isolamento.
– Va bene. Ma io voglio la Ferrari.
– D’accordo. Prendila.
Montarono la pista e giocarono un po’. Ma senza voglia.
A un tratto qualcuno provò a entrare.
– Filippo apri la porta.
Era sua madre.
– No, non apro. Andatevene via. Lasciateci in pace.
– Dài Pippo, apri.
– No, – disse Filippo.
– No, – disse Michele.
– Dài su. Lo sai com’è fatto tuo padre. Apri.
– Lui non mi vuole bene.
– Sí che ti vuole bene.
Filippo fu costretto a spostare il mobile e ad aprire. La madre entrò e fece infilare il pigiama a Michele e lo mise a letto. Filippo si accucciò sul suo e cercò di fare come se lei non ci fosse nella stanza.
– Forza, spogliati e non ti arrabbiare, – gli disse a un orecchio. Poi gli diede un bacio sul collo. – Dài che domani ci dobbiamo alzare presto, – continuò.
– Io domani non ci vengo in campagna.
La madre finalmente uscí.
Filippo sentiva il respiro pesante del fratello che dormiva. La bava di luce che filtrava dal corridoio sotto la porta si spense. I suoi stavano andando a dormire. La porta della loro camera si chiuse.
Ora tutto era immobile.
Solo il ronzio intermittente del frigorifero e il ticchettio della sua grossa sveglia con Paperino.
Ripensò ancora una volta a suo padre, a come lo aveva incolpato ingiustamente, ai suoi occhi duri e piatti. Gli faceva paura in quei momenti e di piú gli faceva paura il fatto che lui non riusciva a non abbassare il capo, a fare sempre quello che voleva suo padre. Si sentí indifeso. Indifeso come mai prima.
Guardò fuori e vide le grosse lampade al sodio dei lampioni spargere la loro luce opaca e gialla oltre le sbarre del balcone. Vide il grigio del cielo nuvoloso e vide suo fratello chiudersi meglio tra le coperte.
Si addormentò.
Era ancora presto quando il signor D’Antoni entrò nella loro stanza. Era già vestito.
– Forza, è ora. L’orso dai denti a sciabola ci sta aspettando, – disse con gioia. Accese la radio. Musica italiana. – Forza dormiglioni. È ora di svegliarsi.
Michele scese dal letto stropicciandosi gli occhi pieni di sonno. Il signor D’Antoni lo afferrò con un braccio e lo sollevò. Era contento.
– Dài Michi, ora ci facciamo la doccia insieme.
Mentre usciva con Michele sotto braccio urlò:
– Filippo prendi la bussola e la borraccia che oggi il percorso è difficile!
Filippo non si mosse. Rimase cosí, con la faccia contro il muro.
Allora tutto è dimenticato. Tutto. Il colpo in mezzo al tavolo, la camicia, la zuppiera di Vietri. Tutto è finito. Com’è possibile? Una notte di sonno e tutto è finito. Tutto cancellato, pensò.
E chi se ne importa.
No. Niente è cancellato. Non è giusto. Non è giusto.
Che cosa non è giusto?
Non è giusto incolpare chi non c’entra niente. Non è giusto dimenticare. Non è giusto che arrivi la mattina come se niente fosse successo. Come se non avessimo mai litigato. Come se tutto andasse bene.
Filippo si acciambellò di piú e decise che lui in campagna non ci sarebbe andato. Lo potevano uccidere ma in campagna lui non ci andava né ora né mai piú.
Si sentí forte.
Provò a riaddormentarsi. Il fratello poco dopo rientrò avvolto nel suo accappatoio giallo. Cominciò a vestirsi.
– Pippo, alzati. Papà è quasi pronto, – disse Michele mentre si infilava i pantaloni.
Allora anche suo fratello non ricordava piú nulla. Era come tutti gli altri. Un infame. Come poteva andare in campagna? Lui si era beccato quella sgridata per aiutarlo. E Michele andava in campagna?
– Pippo ti alzi? È tardi.
– Vai via traditore. Non ti voglio piú vedere, – disse Filippo senza nemmeno guardarlo.
Michele si infilò la camicia, si chiuse i bottoni e senza dire niente uscí dalla stanza.
Entrò sua madre. Si avvicinò al letto. Ci si sedette sopra.
– Mi ha detto tuo fratello che non vuoi venire in campagna. È vero?
– Certo che è vero.
– Dài Filippo alzati. Non fare il bambino, che è tardi.
– Non voglio venire. Lasciami in pace.
– Guarda che tuo padre ci rimane male se non vieni.
Come?! Mio padre ci rimane male? E io? E io non ci rimango male? Come mai il fatto che mio padre ci rimane male è molto piú importante per te, mammina cara, del fatto che IO ci rimango male. Tu non ti rendi conto ma stai sbagliando. Sbagli da morire.
Tutto questo avrebbe voluto dirle, ma sentiva dentro un magone grosso che gli chiudeva la gola, lo stomaco che gli faceva male e di nuovo voglia di piangere.
– Vattene. Vattene. Voglio stare solo.
– Fai come ti pare. Lo senti tu tuo padre.
Anche la madre se ne andò. Ora doveva solo affrontare suo padre. Se lo vide davanti tutto nero con le orecchie a punta, i piedi grifagni, le mani dai lunghi artigli, sputare fuoco nella sua stanza, incenerirgli i poster, la macchina telecomandata.
– Ecco l’eroe. L’incorruttibile Filippo. Guarda che chi ci rimette a non venire sei solo tu, sei tu che rimani a casa da solo. E sai che noia…
Era sua sorella. Ora ci si metteva pure lei.
– Vaffanculo.
– Carino! Sei proprio un ragazzino educato!
In quei momenti la trovava insopportabile. Aveva un tono da «so tutto io». Arrogante e acida. Finalmente se ne uscí dalla stanza.
Di là, in corridoio, stavano finendo di prendere le ultime cose: i panini, la borraccia, gli impermeabili nel caso piovesse, gli zaini. Filippo era ancora a letto, guardava il muro a pochi centimetri dalla sua faccia e ascoltava i rumori, le voci della sua famiglia. Si sentiva solo e deciso. Suo padre non gli aveva detto niente. Un po’ ci aveva sperato ma lui non si era fatto vedere.
La porta di casa si aprí. Michele disse alla sorella di chiamare l’ascensore.
Suo padre portò fuori gli zaini.
– Allora, sei sicuro che non vuoi venire?
Era suo padre. Filippo non si mosse. Non si girò nemmeno.
– No. Non vengo.
– Sei sicuro?
– Sí.
– Fai come ti pare.
Sentí i passi di suo padre che usciva. La porta dell’ascensore che si apriva. Suo padre e sua madre che parlavano.
– Non vuole venire?
– No. Ha detto che vuole rimanere a casa.
– Non mi va di lasciarlo solo. Torneremo tardi.
– E che vuoi che succeda?
– Aspetta…
La signora D’Antoni rientrò, si avvicinò al figlio e lo girò dalla sua parte. Gli sorrise.
– Forza Filippo, vieni con noi.
– No mamma. Ho deciso. Voglio rimanere a casa.
– Ok. Se vuoi cosí. Provo a chiamarti da Tuscania. Fai il bravo e non uscire.
– Va bene mamma.
Si baciarono, poi la madre uscí chiudendosi dietro la porta. Filippo ascoltò il rumore dell’ascensore che scendeva. Smontò dal letto, andò in corridoio. La porta era chiusa. Rientrò nella sua stanza. Si infilò le pantofole. Aprí la portafinestra che dava sul terrazzino. Uscí. Sotto c’era la sua famiglia vicino alla macchina. Stavano caricando i bagagli. Michele alzò lo sguardo e lo vide. Sollevò un braccio e lo salutò. Filippo gli fece un segno. Poi tutti salirono, le porte si chiusero. Il rumore del motore che si avviava. La macchina partí.
Filippo rimase un altro po’ a guardare la strada deserta poi rientrò. La casa era silenziosa piú della notte. Filippo fece un bel respiro e decise di andare a vedere la televisione.
Quella era la prima volta che rimaneva una domenica da solo.