Motore 49cc, sei marce, raffreddamento ad acqua.
Freno anteriore a disco, freno posteriore a tamburo. Ammortizzatori idraulici. Velocità cinquanta chilometri orari.
Non è un motorino, è una bomba. Basta togliergli la membrana al carburatore e ti prende i settanta come niente.
Questo pensava Francesco, anni quattordici, mentre sfogliava una rivista di moto.
Stava seduto sul gabinetto.
Ci stava da almeno mezz’ora là sopra e il sedere cominciava a fargli male. Ma quel giornale lo rapiva. Non c’era niente da fare. Soprattutto le prove su strada. Ci si vedeva sopra quelle belve a due ruote a correre tra i birilli, a provare la ripresa da 0 a 100.
Quello voleva essere da grande: un collaudatore di motociclette.
– Oh, che ti è successo? Sei morto?
La voce di sua madre dietro la porta.
– Esco. Esco.
Francesco si alzò, si abbottonò i jeans, infilò la rivista nella tasca posteriore e uscí. Sua madre era in cucina. Stava preparando l’impasto per la pizza. Francesco prese un bicchiere di succo di pera dal frigo e le si sedette accanto.
– Mamma io esco.
– Dove vai?
– Mah, non lo so. Forse vado a cercare Enrico.
– Ah…
La madre continuava ad affaticarsi sulla pasta, a strizzarla e poi a distenderla con il mattarello. Ogni tanto ci aggiungeva un goccio d’acqua. Guardava l’impasto con un’espressione d’odio.
– Prepari la pizza?
– Sí, ma sta venendo uno schifo. È piena di grumi.
– Lo sai che i genitori di Enrico gli hanno regalato un’Aprilia gsw da cross?
Mentiva. Al suo amico Enrico avevano promesso di comprare un’Aprilia se, e quel «se» era grande come l’oceano, fosse stato promosso a giugno.
– Ah che bello! – gli rispose la madre distratta.
– Sí, lui è contentissimo. E poi non costa molto.
– Quanto l’hanno pagata?
– Tre milioni e ottocentomila, chiavi in mano.
– Ah. Allora sono ricchi i genitori del tuo amico.
La madre di Francesco finalmente finí. Prese la palla di pasta e l’avvolse in uno straccio bagnato. La poggiò sulla credenza. Tirò fuori dal frigo i fagiolini e cominciò a pulirli.
– Guarda che non è molto. Esistono degli scooter che costano piú di quattro milioni, – continuò Francesco ostinatamente.
– Che fai, ricominci? – sbuffò sua madre.
Francesco crollò sulla sedia affranto.
– Dài ma’, ti prego, comprami un motorino. Ti prego. Sto malissimo senza.
– Basta Francesco, sei petulante. Te l’ho detto: è no. Quando avrai sedici anni e sarai piú grande te lo compreremo. Non ne possiamo parlare tutti i santi giorni…
Francesco rantolò sulla sedia. Allargò le gambe e prese un grande respiro. Si alzò.
– Vabbè, io esco.
– Torna prima di cena.
Francesco si mise la giacca a vento e i guanti. Fuori faceva freddo. Chiuse la porta di casa e scese le scale di corsa.
Due anni. Due anni non finiscono mai. Era l’unico a non avere ancora il motorino. Lui e quello sfigato di Enrico. Un soggetto, ecco quello che si sentiva.
Poi quando avrò sedici anni tutti i miei amici avranno il 125 e io avrò il 50. Perché il mondo è cosí ingiusto?
Uscí dal portone del condominio correndo, tirò fuori dalla tasca una chiave e aprí il lucchetto che teneva legata la sua mountain bike a un palo della luce. La guardò con disprezzo. Solo un anno prima era la cosa piú bella che aveva, ma ora… Era solo ferraglia fosforescente.
Ci montò sopra e cominciò a pedalare senza una meta precisa. Prese una stradina laterale tra due palazzoni in via di costruzione. Non c’era nessuno. Nessuno dei suoi amici. Decise di fare un po’ di cross. Continuò per la stradina che presto perse l’asfalto. Camminava tra i ciottoli, con la bocca faceva il rumore di un motore a due tempi raffreddato ad acqua e ogni tanto sgommava immaginando di essere sopra un’Aprilia gsw.
Scese dalla bicicletta, se la caricò in spalla e si arrampicò su per una scoscesa sterrata. Arrivato in cima la mise a terra. Davanti a lui si stendeva un campo abbandonato. Ai lati c’erano mucchi di mobili sfondati, televisori, reti e altra immondizia. In mezzo all’erba e all’ortica si intravedevano le impronte lasciate dalle moto da cross dei ragazzi piú grandi. In fondo, in lontananza, ce n’erano tre seduti su una panchina sfondata. Fumavano e sicuramente parlavano delle loro moto. Sembravano cavalieri medioevali seduti accanto ai loro fidi stalloni.
Sarebbe stato il massimo starsene cosí, con loro, seduto tranquillo a chiacchierare, con la propria moto davanti.
Rimontò in sella. Si lanciò a tutta velocità lungo la pista di fango stando attento a non finire con le ruote della bicicletta nei solchi lasciati dagli pneumatici. Fece un paio di salti ma senza soddisfazione.
Un rumore meccanico scosse improvvisamente il silenzio. Lo strillo acuto di un motore al massimo dei giri. Una motocicletta gli stava venendo incontro a palla, saltando sulle cunette e riempiendo l’aria di un gas bianco e puzzolente. Francesco si buttò di lato e quasi finí lungo, steso nel fango. Il centauro gli passò accanto a pochi centimetri. Gli urlò:
– Levati da là con quella bicicletta, cretino!
Poi scomparve oltre una duna. Francesco si girò su se stesso e spingendo la bicicletta si avviò verso il bordo del campo. Tornò sulla strada. Attraversò una grande arteria trafficata fino alla sala giochi. C’era poca gente e nessuno dei suoi amici. Solo un paio di ragazzi che conosceva appena. Fece un po’ di giri con la Formula Uno e riuscí.
Probabilmente i suoi amici erano andati in centro.
Che palle!
Si fermò all’officina di Romano. Davanti, schierati in fila, diversi motorini, alcune moto di grossa cilindrata e un paio di moto da cross.
Francesco mollò la bicicletta su un palo e si mise a osservare i motori, le forcelle. Vicino a una Kawasaki lavorava un giovane, sui sedici, con un codino, un lungo naso aquilino e gli occhiali. Indossava una tuta blu sporca di grasso, gli scarponi scuri e su una guancia aveva una strisciata nera. Stava aprendo la testata del motore e infilando le guarnizioni.
– Ciao Marco! – gli disse Francesco sedendosi sopra un piccolo sgabello di legno.
– Ciao Fra. Sei venuto a rifarti gli occhi? – fece il giovane sorridendo. Aveva un bel sorriso rovinato da un incisivo mancante.
– Mah, passavo di qua.
– Allora che vuoi fare con quel gioiellino? Guarda che se la portano via se non ti spicci.
– Non lo so. Non sono piú tanto sicuro che mi piaccia. Forse mi dovrei prendere un ktm, è piú compresso.
– Fai come ti pare. Ma una moto cosí robusta e con un assetto come quello non la trovi. Te lo dice Marco che di moto ne capisce.
– Tu dici… – fece Francesco riflettendo.
Stimava molto Marco. Lo aveva visto un paio di volte correre sul campetto. Farsi piú di duecento metri su una ruota sola. La sapeva portare la moto.
Tirò fuori da una tasca della giacca a vento un pacchetto di gomme.
– Vuoi una?
– No, grazie.
Francesco rimase ancora un po’ a guardare Marco lavorare. Poi si alzò, si tirò su i jeans ed entrò nell’officina.
All’interno era buio. Solo un lungo neon scaricato rischiarava un po’ l’ambiente. Su un lato un grosso bancone pieno di attrezzi e una vecchia radio che suonava musica leggera. Al centro della stanza, smontata in mille pezzi, troneggiava una Harley-Davidson gigantesca. Era coperta di borchie argentate e cuoio nero. Sul serbatoio era disegnata una donna nuda che si trasformava in una torcia.
Da un gabbiotto di vetro adibito a ufficio uscí un uomo grasso e pelato. Sopra il naso rotondo poggiava un paio di occhiali di tartaruga. Le lenti spessissime gli trasformavano gli occhi in due puntini neri. Indossava la tuta da lavoro.
– Ciao Romano.
– Ciao Francesco. Hai visto che bestiaccia? – disse il meccanico indicando la Harley.
– Questa è una mille e tre…
I due si conoscevano bene. Da mesi Francesco era un frequentatore assiduo dell’officina.
– Boh, credo di sí.
– Senti posso vederla… – chiese d’un fiato il ragazzo.
– Vai, vai. Tranquillo.
Romano uscí dall’officina e Francesco rimase solo. Si avvicinò a un angolo. Accanto a un mucchio di pneumatici usati c’era una moto coperta da una vecchia trapunta di lana marrone.
La scoprí.
Eccola. La sua moto.
Diventava ogni giorno piú bella.
La sua Aprilia gsw.
Con quei parafanghi viola, il serbatoio metà rosso e metà viola. Con quei giganteschi ammortizzatori, con le molle dure e grosse. Il faro piccolo e giallo. Le frecce snodabili. Per non parlare poi delle ruote con quei tasselli che sembravano dei Baci Perugina. Veniva voglia di masticarli. Era alta e affidabile. Era semplicemente il massimo.
– Lo sai chi se la vuole comprare? Quel ragazzo… come si chiama? Quello che lavora al bar La Palma.
La contemplazione fu spezzata dalla voce bassa e rauca di Romano. Era in piedi, dietro di lui, con le mani sui fianchi. Anche lui la guardava soddisfatto.
– Come? – disse Francesco ritornando tra i vivi.
– Sí, se la compra il garzone del bar La Palma.
– Veramente?
Il peggiore dei suoi incubi si era avverato.
Se la sarebbe comprata un altro. Odiò il garzone del bar La Palma. Lo conosceva. Bruno Martucci detto «il Pagnotta». Francesco ignorava l’origine di quel soprannome. Se lo ricordava bene però. Brutto. Una specie di torello brufoloso, con la fronte bassa e sempre sudato. Uno di quelli che menano, che non ti lascia dire una parola e già ti ha massacrato di botte. Se lo vide davanti, sulla sua moto, a fare il coglione su e giú per il campetto. A fare le pinne.
Un incubo. Il peggiore della sua vita.
Nooo, mormorò tra sé Francesco in preda alla disperazione.
– Gli ho detto che poteva prenderla ma prima dovevo chiedere a te che cosa volevi fare. Ci sei prima tu. Allora la vuoi?
– Sí… Sí, la voglio io, – disse Francesco sconsolato.
– E i tuoi?
Francesco si girò di nuovo verso l’Aprilia. Si emozionò a vedere il luccichio metallico della marmitta a espansione. Tornò a guardare il meccanico.
– Hanno detto che me la comprano.
– Sei sicuro?
– Certo che me la comprano.
– Quando?
– Anche domani.
Romano sembrava dubbioso.
– Che è, non mi credi? – fece Francesco spavaldo.
– No. No. Ti credo. Ti credo.
Qual era il piano di Francesco? Nemmeno lui lo sapeva con esattezza. Nulla gli era chiaro in quel momento. L’unica possibilità che intravedeva era quella di tornare a casa e attaccare un pianto greco fino a che i suoi, stremati, non gli avessero detto di sí.
Sí, sí e sí.
Cosa avrebbe potuto promettergli? Che nella prossima pagella ci sarebbero stati solo sette e otto, che avrebbe portato Pinto, il loro cane, tutte le sere a fare pipí ai giardinetti, che avrebbe preparato la colazione per i prossimi cinque anni a tutta la famiglia, che avrebbe rifatto ogni giorno il suo letto e anche quello di sua sorella, che non avrebbe mai piú detto una parolaccia in vita sua.
Tutto. Tutto. Avrebbe fatto tutto. Ma mai la sua Aprilia a Bruno Martucci. Questo no, questo no.
Ora la cosa che devo fare è portarla via da lí. Levarla dalle grinfie di quel bastardo del Pagnotta… La porto a casa poi la faccio vedere a mio padre. Gli spiegherò tutte le caratteristiche tecniche. Lo convincerò.
Sí, era l’unica strada.
– Romano, l’unica cosa è che mio padre la vuole provare. Lui è uno di quelli che non si fida. Gli ho detto che è perfetta e che ha fatto appena duecento chilometri, – disse in un fiato, cercando di essere il piú deciso possibile.
Il meccanico intanto aveva preso a rimontare il motore della Harley.
– Non c’è problema. Basta che venga qui prima delle sei e mezza e la può provare come gli pare.
– Sí, ma lui torna da lavoro verso le sette, sette e mezza.
– Mi passi quel pezzo, per favore? – disse Romano indicandogli un grosso ingranaggio cromato. Francesco lo prese da terra e lo passò al meccanico.
– Grazie. Allora digli che può venire domani. Noi siamo aperti tutto il giorno. Tu lo sai, no?
Francesco parve riflettere. Si aggirò indeciso per l’officina, si avvicinò al meccanico fingendo di essere interessato al lavoro. Poi, facendosi forza, disse tranquillo:
– Forse la cosa migliore è che gliela porto io a far vedere questa sera. Poi la chiudo nel garage con la macchina di mio padre e domani vengo con mia madre e te la paghiamo…
Ce l’ho fatta. Sono riuscito a dirlo.
Romano sembrava non aver udito le parole del ragazzo. Continuava a lavorare come nulla fosse. Francesco aspettava impaziente. Non ce la fece piú.
– E allora che ne dici?
Non lo vedeva in faccia. Romano era piegato sopra quel mastodonte di motocicletta.
– Ci sto pensando, – disse dopo trenta secondi che sembravano due secoli.
– Guarda che non ti devi preoccupare. È tutto a posto. Ti lascio qui la mia bicicletta.
Il meccanico si girò su se stesso e lo scrutò a lungo con i suoi piccoli occhi da marmotta. Poi disse poco convinto:
– Ma tu la sai guidare la moto?
– Tranquillo Romano. Non c’è problema. Io al mare ho un Benelli a marce. Lo guido sempre.
– Vabbè, prendila. Ma sta’ attento che se caschi e la rovini paghi tutto tu.
– Tranquillo.
Ce l’ho fatta. È mia. E vai cosí.
Romano si alzò e si stiracchiò. Sembrava un tricheco.
– Forza tiriamola fuori questa belva, – disse.
Francesco sentiva l’emozione corrergli sui nervi e il cuore pompargli adrenalina nelle vene. La portarono alla luce del sole. Era ancora piú bella. Ora doveva solo convincere i suoi genitori. Uno scherzo da niente.
– Allora ti sei deciso a prenderla, – gli fece Marco.
Francesco fece segno di sí con la testa. Non riusciva a parlare.
– Aspetta che te la pulisco, c’è un po’ di polvere.
– Non importa. Non importa.
Voleva solo andarsene. Portare a casa la moto e prepararsi per il ritorno di suo padre.
La afferrò per il manubrio. Era enorme. Gli tremavano un po’ le gambe ma faceva di tutto per non mostrarlo. Anche la saliva era azzerata. Ci montò sopra. La moto si abbassò sotto il suo peso ma era ancora altissima e Francesco toccava appena con la punta dei piedi.
– Come ti ci trovi? – chiese Marco. Lo guardava sorridendo e intanto si puliva le mani sporche su uno straccio. Francesco decise che gli era proprio simpatico quel ragazzo.
– Bene, – gli rispose sorridendogli a sua volta.
Provò ad accenderla con una mossa acrobatica della gamba ma con scarso successo. I suoi colpi erano deboli. Doveva prenderci la mano. Provò un’altra volta. Nulla da fare. Si guardò in giro smarrito.
– Se non giri la chiave puoi restare là tutta la notte, – gli fece Romano appoggiato all’ingresso dell’officina. Aveva l’aria sempre piú dubbiosa.
Cretino. Idiota che non sono altro. Quello adesso ci ripensa. Girò la chiavetta di accensione. Una spia verde si illuminò. Francesco affondò con tutta la forza sulla leva di accensione. Preciso.
Strook.
La moto, come per magia, si accese con un borbottio metallico.
Fantastico.
– Allora… buon viaggio. Stai attento, – gli disse ancora Marco.
E ora veniva il difficile. Francesco in vita sua aveva guidato tre volte un motorino. Una volta un Ciao e due una Vespa con risultati molto mediocri. Aveva però letto bene Il grande libro della moto in cui al terzo capitolo erano spiegate dettagliatamente tutte le istruzioni necessarie per guidarla. In cuor suo non era piú tanto sicuro che quel breve apprendistato gli fosse ora sufficiente.
Si ripeté mentalmente le regole.
Uno: tirare la leva della frizione. Lo fece.
Due: abbassare, in modo da inserire la prima, la leva del cambio. Lo fece.
Tre: lasciare dolcemente la leva della frizione. Lo fece.
La moto partí a razzo sulla strada impennandosi su una ruota sola. Proseguí cosí per una decina di metri poi crollò vicino a un camion del latte fermo al lato della strada. Lo schivò per miracolo. Francesco proseguí, in prima, con il motore che gli urlava sotto il culo fino a quando si ricordò il punto quattro: mettere la seconda.
In qualche modo riuscí a inserirla ma avendo lasciato la manopola del gas la motocicletta prese ad andare avanti a saltelli singhiozzanti. Sentí appena Marco che gli strillava dietro:
– Attento all’autobus!
Si girò e vide davanti a sé un muro arancione fatto di lamiera e vetro che gli veniva incontro urlando come un bufalo scatenato. Si piegò da una parte e lo lisciò per pochi millimetri. S’infilò finalmente nel flusso di macchine che andava nella sua direzione e si allontanò.
Fu un ritorno veramente impegnativo e Francesco sudò moltissimo. La moto gli si spense un numero imprecisato di volte. Dopo mezz’ora era piú o meno in grado di cambiare, di frenare e di girare il manubrio.
Era soddisfatto.
Mancava ancora un po’ di tempo al ritorno di suo padre. Decise di fare un salto a trovare i suoi amici. A fargliela vedere. Probabilmente erano tutti al campetto.
Ci si sentiva maledettamente bene su quella moto. Si guardava nello specchietto e si trovava piú bello, piú grande, piú paraculo.
Ce la posso fare. Papà in fondo le ama le moto. Quando era giovane aveva un Guzzi Falcone, me lo racconta ogni volta. Lo convincerò. Lo convincerò.
Sí, ce la poteva fare ma dentro sentiva un po’ d’ansia compressa, nascosta tra le pieghe dello stomaco. Anche il respiro gli si era accorciato. Aveva osato troppo?
No, non ho osato troppo per niente.
Fece due grossi respiri poi girò l’acceleratore portando la moto su di giri.
È proprio una ficata ’sta moto.
Entrò nel campetto come se fosse la cosa piú normale del mondo che lui stesse a cavallo di una moto.
Sciolto. Rilassato.
I suoi amici erano là, seduti sulla solita panchina. Lo videro. Francesco fece un saluto con la mano e poi avanzò piano.
Mi stanno guardando tutti.
Scese dalla moto, la mise sul cavalletto.
– Ti sei comprato la moto? Non è possibile! – gli disse incredulo Enrico, un ragazzo alto e magro come un chiodo con delle grosse scarpe da ginnastica nere ai piedi. Era stupito.
– Sí, oggi. Ti piace?
(Bugia. Bugia gratis).
– Francesco, è pazzesca! – continuava a ripetere Enrico.
– Lo so, lo so.
Tutti, anche le ragazze, ci giravano intorno e Francesco si sentiva bene. I commenti si sprecavano.
– È bellissima!
– Non è troppo alta?
– Mi piace la forma della sella e i colori del serbatoio.
Un rumore potente ruppe la conversazione, di motori quattro tempi. Poi sbucarono da sopra la collina i piú grandi, sulle loro moto. Erano quattro. Girarono intorno a Francesco e agli altri. Il loro capo, Piero, un giovane con i capelli cortissimi biondi e gli occhiali da mosca gettò a terra il mozzicone che aveva tra le labbra. Lo pestò.
– È tua? – fece a Francesco guardandolo torvo. Era la prima volta che gli rivolgeva la parola. A Francesco prese a battere forte il cuore.
– Sí.
Piero fece ancora un paio di giri intorno alla moto. I ragazzini lo guardavano.
– Bella!
– Grazie.
Enrico diede a Francesco una pacca sulle spalle. Aveva passato l’esame. Incominciava a imbrunire e decise che era il momento di tornare a casa. Probabilmente suo padre era già rientrato. Montò sulla moto e l’accese al primo colpo.
Piero e i suoi amici si erano seduti e fumavano. Lo guardavano. A un tratto Danilo, un ciccione, seduto alla destra di Piero, pelato e con una maglietta nera dei Metallica, si alzò in piedi. Si avvicinò a Francesco e poi guardando i suoi amici disse ridendo:
– Ma questa non è la moto che si voleva comprare il Pagnotta?
Tutti si sganasciarono dalle risate.
Che cazzo c’è di tanto divertente? Che cazzo vi ridete?
Mise la marcia. Con la coda dell’occhio vide che anche Piero era rimontato sulla moto. Gli si fece accanto rombando.
– Allora vieni a farti una corsetta?
– No… No grazie.
– Hai problemi? – continuò Piero con un ghigno. Sembrava uno squalo con quegli occhialetti scuri. Uno squalo affamato di carne umana.
– No, è che devo tornare a casa, – disse Francesco cercando di fare lo sciolto.
– Dài, solo una corsetta. Cosí mi fai vedere come ci salti con questa belva.
– No, non posso. Devo andare.
Francesco comprese in un attimo che quello era uno stronzo e che si voleva solo divertire alle sue spalle.
Sono sfortunato da morire.
Doveva andarsene, il piú velocemente possibile. I suoi amici, piccole e inutili formiche, lo osservavano scuotendo la testa. Anche Enrico aveva sul volto un’espressione di addolorata rassegnazione. Perse la testa. Con lo stomaco che gli risaliva su per la gola scattò in avanti. Voleva disperderli, scappare fino a casa, non farsi vedere mai piú.
Ma non era possibile.
Piero con un balzo lo superò e gli si mise davanti con tutta la moto bloccandolo. Gli afferrò il manubrio.
È la fine.
– Che fai, scappi? – gli disse levandosi gli occhiali. Aveva gli occhi affilati e inespressivi di un barracuda.
– No… no.
Le parole gli morirono in bocca. Non riusciva piú a parlare.
Danilo e gli altri lo affiancarono. Gli fecero cerchio intorno.
Era la situazione peggiore in cui si era cacciato in vita sua.
– Andiamo.
Girarono le moto verso il campetto, tranquilli, sorridenti. Anche Francesco fu costretto a girarsi e a seguirli. Enrico, vicino alla bici, faceva segno di no con la testa.
Era come andare al patibolo, e quelli intorno a lui non erano soltanto motociclisti di periferia, ma boia insensibili assetati del suo sangue.
Arrivarono in fondo al campo. Si disposero in fila.
Davanti avevano una ripida discesa, poi un’improvvisa salita che terminava con un balzo. Francesco li aveva visti saltare da quella cunetta, fare voli di dieci metri e atterrare nel fango su una ruota sola.
No, non è possibile. Mi massacrerò.
Avrebbe voluto dirgli tutto questo ma in bocca, al posto della lingua, aveva una gigantesca lumaca viscida e morta.
– Vado io, – disse Danilo.
Partí rombando. Scomparve giú per il discesone e poi si arrampicò, minuscolo, su quel muro di fango fino in cima, con il motore che urlava e con la testa abbassata. Decollò in aria per parecchi metri, la moto di sbieco, levò su un pugno e urlò un grido di battaglia. Poi sparí oltre.
– Vai, tocca a te, – gli disse Piero. Era un comando. Devo obbedire se voglio tornare a casa tutto intero.
– Ora vado, – rispose Francesco. – Ora vado.
Si fece mentalmente il segno della croce.
Ce la posso fare, cazzo! Sono un kamikaze. Banzai!
Prese un bel respiro e si lanciò giú per la discesa. Attraversò il mare di fango attento a non cadere. Si reggeva a malapena. Non respirava. Non frenava. Non pensava. Le ruote scomparivano nel pantano e tiravano su schizzi di melma che gli finivano in faccia, tra i capelli. Si sporcò i pantaloni. Giunto in fondo si sentí meglio, gli rimaneva da affrontare solo la salita e poi il salto. Strinse i denti e accelerò.
La salita era ripida e la moto faceva fatica. Francesco cercava di mantenerla su di giri ma le ruote slittavano sollevando fango. Si stava impantanando. Se non si fosse mosso subito sarebbe rotolato indietro e sarebbe caduto come un cretino. Aveva gli occhi di Piero puntati sulla schiena. Strinse i denti. Scalò. Accelerò a palla.
Forza bella!
La moto tirò fuori tutti i suoi cavalli e aggredí la salita. Francesco fu sospinto indietro dall’accelerazione ma non mollò. Continuò a salire a duemila, saltando come una pulce impazzita. Andava sempre piú veloce. Giunse all’apice della collina come un proiettile e saltò.
Noo!
Ora era in aria. In aria con la sua moto. Lui e lei da soli. Lontani. A bocca aperta. Sotto vedeva Danilo, insetto, sulla sua moto, il campo sporco di spazzatura, la strada ingolfata dal traffico, le palazzine bianche e marroni del suo comprensorio, il balconcino davanti alla cucina di casa sua.
È bellissimo!
Poi precipitò giú. Atterrò malamente, sbilanciato in avanti. Crollò a terra, lontano dalla moto. L’impatto del terreno sulle ossa e sul collo lo rintronò. Riaprí gli occhi e vide verde. Il verde delle ortiche. Non riusciva a dare graduatorie ai suoi dolori. Cosa faceva piú male? La caviglia, il braccio, la testa, le ortiche, la figura di merda?
Si rialzò. Zoppicando su una gamba arrivò davanti alla sua moto. Era là, a terra. Uno stallone ferito in battaglia. La forcella storta. La ruota anteriore piegata. Il faro rotto in mille pezzi. Ci si chinò sopra e incominciò a singhiozzare. Dietro di sé sentiva le risa di Danilo. Risa eccessive e sproporzionate. Ma non gliene importava nulla. Aveva pensieri terribili che gli affollavano la testa: che cosa avrebbe detto a suo padre, a sua madre, a Romano che si era fidato di lui. Che cosa avrebbe raccontato a Enrico, a Manuela e a tutti gli altri.
A bocca stretta, solo per se stesso, incominciò a ripetere:
– Sono un cretino. Sono un povero cretino. Cosa ho fatto? Cosa ho fatto?
Sí, era solo un bambino. Si sentiva piú piccolo che mai con quel moccio che gli colava dal naso, la vista sfocata dalle lacrime e il magone in gola.
Piangendo provò a tirare su la moto, a spostarla, ma non ci riuscí. Era piantata nel fango. Danilo continuava a ridere e non lo aiutava.
Questa è la punizione che ti meriti per aver desiderato troppo quella moto, per aver mentito per impossessartene. Sei un poveraccio Francesco. Vai via! Sentiva rimbombargli dentro le parole di sua madre.
Si pulí il naso con la manica della camicia.
Ma non era ancora finita. Da lontano arrivavano degli strilli inumani, come quelli di un maiale sgozzato.
Che succede?
Di corsa vide apparire sul ciglio della collina una figura bassa e larga. Lo riconobbe subito. Il Pagnotta!
No, il Pagnotta no.
Con le mani in testa il Pagnotta, ancora vestito da garzone, con la fascia nera intorno alla vita e il grembiule bianco sporco di fango, si gettò giú e a grandi falcate raggiunse la moto. Era incredulo. Con uno sguardo bovino la fissava a bocca aperta.
– Non ci posso credere! La mia moto! Non ci posso credere! La mia moto! – ripeteva automaticamente. Danilo continuava a ridere.
Francesco non sapeva che fare. Si spostò in là, a testa bassa, come se a terra non ci fosse soltanto la moto ma la mamma del Pagnotta assassinata.
– Mi dispiace Pagnotta. Non è stata colpa mia, – provò a dire Francesco.
Sapeva di aver detto una stronzata ma non era in grado di dire altro, il cervello gli era partito per la tangente.
Il Pagnotta si girò e per la prima volta guardò Francesco. Aveva strani occhi spiritati e un ghigno che gli storceva la bocca.
È un mostro e ora mi massacra.
– Io non mi chiamo Pagnotta! – gli ringhiò e lo spinse.
Francesco crollò a terra affondato da un pugno. Un treno in un occhio. Poi il bestione gli fu sopra. Incominciò a colpirlo dovunque, senza senso.
– La mia moto! La mia moto! – latrava.
Francesco si chiuse a riccio. Le braccia intorno alla testa.
Poi tutto terminò.
Francesco riaprí gli occhi. C’era Piero che aveva preso da una parte il Pagnotta e gli stava parlando. Non capiva cosa si stessero dicendo. Poi vide Danilo aiutare il Pagnotta a tirare su la moto e a spingerla verso la strada. Piero gli si avvicinò.
– Tirati su, – gli disse e gli porse la mano.
– C’ho parlato io con il Pagnotta. L’ho calmato. Non ti farà niente ma ora vai a casa.
Francesco ricominciò a piangere. Forse erano state proprio le parole gentili di Piero a scatenare di nuovo il pianto. Lo aveva colto impreparato. Piero rimontò sulla sua moto. Francesco, con il naso sporco di sangue e moccio, gli si avvicinò.
Il motociclista si era rimesso gli occhiali ed era tornato improvvisamente di nuovo lontano, distante.
– Che devo fare ora? – gli domandò Francesco tirando su con il naso.
– Cazzi tuoi!
Piero partí su una ruota e si allontanò cosí. Francesco rimase a guardarlo scomparire. Il rombo della marmitta scomparve poco dopo.
Si avviò verso casa zoppicando. Aveva male dovunque. E il duro doveva ancora venire: avrebbe dovuto affrontare suo padre, sua madre e raccontargli tutto.
È tostissima.
Enrico era seduto sulla panchina. Lo aspettava.
– Eccoti finalmente. Hai fatto un botto incredibile! – gli disse, poi gli si fece accanto, gli mise un braccio intorno al collo. Si incamminarono.
– Comunque non andavi niente male su quella salita, te lo giuro, – disse Enrico.
Francesco si fermò e puntò i suoi occhi azzurri, rossi per il pianto, in quelli del suo amico e con un mezzo sorriso interrogativo disse:
– Dici?