– Te lo dico eh: quest’anno no! Non esiste! Non facciamo come l’estate scorsa, quando mi hai costretto ad andare a mangiare tutte le sere da tua sorella, – disse il signor Ricci.

Guidava la sua Thema nel traffico lento della riviera. Era abbastanza piccolo e magro e sembrava fuori scala rispetto alla poltrona di alcantara su cui era seduto. Indossava una camicia a rigoni verdi, una giacca di lino blu e dei pantaloni larghi di cotone in tinta. Fumava una sigaretta ed espirava il fumo senza mai levarla dalla bocca, ogni tanto con la destra cambiava la frequenza della radio tenuta a basso volume.

– Costretto! Sei proprio uno stronzo! Ma che ti ha fatto mia sorella di male? – disse la signora Ricci sbuffando.

Era seduta accanto al marito. Portava dei giganteschi occhiali da sole di tartaruga che le coprivano metà della faccia magra. I capelli biondi e stopposi raccolti in alto. Indossava un lungo vestito a fiorellini blu. Sfogliava distrattamente una rivista di moda. La gettò a terra innervosita. Guardò suo marito e arricciò il naso in una smorfia di disgusto. Il signor Ricci sembrava di marmo con quella sigaretta appesa. Un vecchio autista di autobus. Occhi solo per la strada e orecchie per la radio.

– Allora, mi vuoi rispondere?

– Che c’è? Sto guidando!

– Che ti ha fatto mia sorella?

– È noiosa da morire.

La signora Ricci guardò schifata il marito come a valutare la risposta piú acida ed efficace e sarcastica, e rispose gracchiante:

– E invece con i tuoi amici ci si diverte da morire. Con l’ingegner Protti ci facciamo certe risate… eh?! Gente interessante, veramente.

– Che palle che siete! La smettete di litigare! Non siete soli, porca paletta. Dietro ci sono due poveri esseri umani che non ce la fanno piú… – disse Maria Ricci, con voce annoiata. Maria aveva tredici anni, dei lunghi capelli neri, un naso all’insú, due occhi svegli e scuri.

– Maria non ti permettere… – fece sua madre senza girarsi.

– Tua madre ha ragione, come ti permetti di parlare in questo modo? – ribadí il signor Ricci come resuscitato da un coma.

– Ci sono riuscita! Ci sono riuscita! – disse Maria sganasciandosi dalle risa e sbattendo la testa contro il finestrino.

– Quando fai la cretina non ti sopporto, Maria, – disse la signora Ricci.

– Ci sono riuscita. È la prima volta che siete d’accordo su qualcosa da quando siamo partiti! Sono grandissima.

Un Terrier bianco e nero seduto tra Maria e Ciarin, la giovane cameriera filippina, incominciò ad abbaiare e a digrignare i denti. Abbaiava a un gigantesco Terranova stipato in una 126 affiancata alla loro macchina. Con un balzo atterrò davanti. In grembo alla signora Ricci, infilando una zampa all’interno della borsa di corda e continuando ad abbaiare come un disperato.

– Gnigni! Gnigni! Basta! Vai dietro! Dio, questo cane è malato di nervi! Diamogli un Roipnol. Maria, per favore, lo tieni! Non ce la faccio piú!

Lo prese per il collo e con un gesto deciso lo gettò dietro.

Maria lo afferrò e lo obbligò a stare buono.

La signora Ricci tirò fuori dalla borsa un cellulare e cominciò a comporre un numero.

– Allora sai che facciamo? Io e Maria andiamo da mia sorella e tu resti a casa. Ciarin ti preparerà quello che c’è in cucina, – disse al marito portandosi poi il telefono all’orecchio.

– Non mi regge di andare a trovare la zia Vittoria. Siamo appena arrivati! – disse Maria.

– Ti muovi, Cristo! – disse il signor Ricci al furgone che gli bloccava la strada.

– Fai un po’ come ti pare Maria… Tu tanto fai sempre come ti pare, – sbuffò la signora Ricci.

– Dottore, dottore, si fermi. Voglio comprare le sigarette, – disse Ciarin con il suo strano accento straniero indicando un tabaccaio a lato della strada.

– Ciarin, non ci si metta pure lei, la prego. C’è un traffico bestiale, se ci fermiamo non arriviamo piú. Le sigarette se le compra dopo. Franco supera ’sto branco di deficienti, – fece la signora Ricci al marito, poi chiuse il telefonino e indicò a Maria un gruppo di pagliacci grondanti di sudore e trucco e un cammello vecchio e spelato che facevano pubblicità a un circo di provincia.

Maria si infilò il Sony e incominciò a ballare sommessa tra sé.

Si sentiva agitata e non vedeva l’ora di arrivare. Mancava poco.

Finalmente, superata la cittadina, la Thema imboccò una piccola strada tra i pini. Si fermò davanti a un passaggio sbarrato. Da una casupola uscí il guardiano. Riconobbe il signor Ricci e gli sorrise. La barriera mobile fu sollevata e la macchina entrò nel complesso residenziale.

La pineta era infuocata dal sole e milioni di cicale strillavano in coro. La macchina andava piano sobbalzando sulle cunette di cemento. Ai lati della strada camminavano bagnanti, pedalavano bambini, si litigavano il parcheggio le macchine.

Svoltarono improvvisamente a destra in un viottolo angusto coperto di aghi di pino e di sabbia trasportata dal vento. La Thema si fermò sotto una pagliarella. Maria scese per prima, di corsa, salí gli scalini bassi di pietra e arrivò davanti alla villa. Era chiusa. Tutte le imposte verdi sbarrate. Corse lungo il perimetro dell’abitazione e giunse sul grande terrazzo. Si affacciò. Si vedevano i tetti di altre ville simili alla loro sprofondate tra gli alberi e piú in là, in lontananza, la spiaggia, coperta di ombrelloni, e il mare grigio.

Staranno tutti allo stabilimento.

Si sentivano il brusio lontano delle voci e degli schiamazzi e i motori delle barche.

Voleva correre, correre fino allo stabilimento, cosí senza neanche cambiarsi e andare a cercare Laura, la sua amica di Bologna, e tutti gli altri. Tutti quelli che aveva conosciuto l’estate prima e non aveva piú rivisto.

Sono tutti là.

– Maria, vieni a darci una mano.

La voce di suo padre la fece ricadere nella realtà. Maria sbuffò e sbatté i piedi, poi tornò alla macchina e li aiutò a scaricare le valigie.

La villa puzzava di chiuso e il frigo puzzava di marcio. Delle mozzarelle avevano passato un autunno e un inverno e una primavera in quel frigo e ora erano solo materia organica decomposta. Ci furono urla tra i coniugi su chi era stato a chiudere la casa nove mesi prima. Maria andò nella sua stanza, aprí la valigia e cercò il modo migliore per fare l’ingresso allo stabilimento. Si infilò i sandali greci e si avvolse il pezzo di sotto del costume con un foulard indiano. Si spazzolò i lunghi capelli e prese la sacca del mare.

Attraversò il corridoio e vide Ciarin che vomitava in bagno stravolta dalla puzza. Gnigni rincorreva un geco in salotto.

I suoi continuavano a scannarsi. Non disse nulla e uscí nell’afa del primo pomeriggio, si avviò per la scorciatoia tra le dune che portava alla spiaggia. Voleva correre, ma avrebbe sudato e lei odiava sudare. È cafone sudare. Si arrampicò sull’ultima duna di sabbia prima della spiaggia e guardò in basso.

La spiaggia era là, uguale identica all’anno prima. La sabbia aveva lo stesso colore, le sedie a sdraio disposte in file successive, i pedalò posteggiati in riva al mare, i wind­surf accatastati vicino al pontile. La spiaggia proseguiva cosí fino a scomparire nel grigio dell’afa, a destra e a sinistra, in un’unica striscia colorata di ombrelloni. Immediatamente sotto i piedi di Maria sorgeva una capanna con il tetto di paglia, come quelle hawaiane. Stabilimento La Figlia del Capitano. Era lí che stavano i suoi amici. Maria si fece coraggio e incominciò la discesa.

Vicino al bar, sotto una pagliarella, intorno ai tavoli, i bagnanti bevevano, mangiavano. Alcuni giocavano a carte. Lo sguardo di Maria corse rapidamente tra tutta quella gente. Niente. Non c’erano. Poi improvvisamente sorrise. Sí, erano lí, al solito tavolino vicino al flipper, tutti quanti.

Laura con un caschetto di capelli biondi, una cannuccia in bocca e un tè freddo in mano era seduta al centro e primeggiava come al solito. Era rimasta identica all’anno prima, forse si era un po’ allungata ma era sempre magra come un’alice. Rideva. Seduta accanto a lei riconobbe Francesca. Leggeva fumetti. Era ingrassata ancora di piú e sembrava scoppiare dentro il costume nero. Carlo si era riempito di peli e aveva allargato le spalle. Stava sbracato con i piedi sul tavolino. Zanna, con il suo nasone e i capelli lunghi, chiacchierava con Laura. C’erano anche Luigi, Giuliana e Ippolita.

Maria girò dietro il bancone del bar e li raggiunse senza farsi vedere.

– Sempre stravaccati, eh? – disse abbastanza forte in modo che tutti potessero sentire.

I suoi amici si girarono e se la videro lí davanti a loro, con le mani appoggiate ai fianchi e un enorme sorriso sulla faccia. Ci fu un attimo in cui sembrarono non riconoscerla. Guardarono il corpo di Maria trasformato. I suoi otto centimetri in piú. Le sue gambe piú tornite, i suoi glutei sodi, i suoi seni gonfi e tondi costretti a malapena nel reggipetto, e le labbra turgide.

Wonder Woman.

Poi tutti le furono intorno. La abbracciarono, le dissero che era cambiata, che era un’altra, che era bella, le chiesero che le era successo. Le ragazze piú espansive, i ragazzi piú distanti, timidi, come se intorno a lei ci fosse un campo di forze per loro invalicabile. Le scodinzolavano intorno come un branco di cani bastonati. Zanna fu l’unico che la baciò.

– Sono proprio contento che sei venuta. Ti aspettavamo, – le disse trascinandola da una parte.

– Grazie Zanna, ma che hai fatto ai capelli? – gli chiese Maria ridendo.

Zanna si scompigliò ancor di piú la chioma sconvolta che gli finiva davanti agli occhi.

– Kurt Cobain. Il cantante dei Nirvana. Quello che si è suicidato. Siamo due gocce d’acqua.

– Guarda che lo conosco… A me sembri piú il chitarrista dei Ricchi e Poveri.

– Che stronza… – fece lui, spingendola con un colpo di spalla e piegandosi dalle risate.

Si sedette con gli altri ma si sentiva ancora osservata. Una specie di animale da esposizione. La guardavano tutti. Chi piú apertamente chi meno. Avrebbe voluto conoscere i pensieri piú intimi dei suoi amici, sapere cosa pensavano di lei. Di sicuro niente di buono, si disse. Era quasi a disagio.

Se ne fregò. Spostò la sedia e si mise vicino a Laura, con cui aveva parlato pochissimo.

– Allora, Laura, quanto rimani?

– Fino a fine agosto… Poi andrò con mio padre da qualche parte… In India o giú di lí.

Il padre di Laura faceva il fotografo per il «National Geographic».

– Fantastico! – disse Maria raggiante, forse piú del necessario.

– Mah… insomma… Ci deve fare un caldo in quel maledetto posto e poi stiamo tutto il giorno in pullmino.

Maria provò a fare conversazione ancora un po’ ma senza grandi risultati. Laura rispondeva a malapena. Risposte secche e sgraziate.

Maria si chiese che cosa aveva l’amica, se ce l’aveva con lei o roba del genere. Avrebbe voluto chiederglielo ma non lo fece. Forse era di cattivo umore, chi lo sa?

Poi arrivarono le gemelle. Magrissime con lunghe code di cavallo bionde, lunghi piedi e occhi piccoli e bovini, e Laura si rianimò. Corse da loro e se le abbracciò trascinandosele da una parte. Si sedettero a un tavolo e incominciarono una fitta conversazione.

Maria si sentí esclusa cosí, senza ragione.

Faceva proprio un caldo bestiale. La spiaggia si era riempita fino all’inverosimile. Il calore sfocava le cose.

Tutto il gruppo si avviò verso la riva, esausto, a fare il bagno. Maria andò con loro. Dopo l’iniziale eccitazione sembrava essere una qualsiasi. Entrarono tutti e quindici in acqua e schiamazzando si diressero a nuoto fino a degli scogli piatti che sorgevano un po’ a largo.

Montarono sulle rocce infuocate e si misero vicini a prendere il sole. Maria si scelse un angolino un po’ in disparte e chiuse gli occhi. Era talmente piacevole sentire l’acqua asciugarsi sulla pelle, il rumore del mare, la testa fresca e l’odore del sale che si disse che tutto andava bene lo stesso. Avvertiva però una lama percorrerle gli intestini e farle male da morire. Il respiro le si era accorciato.

Perché Laura faceva cosí la stronza? Avrebbe voluto afferrarla e sbatterla contro un muro e dirle: «Che hai? Eh, me lo dici? Io ho aspettato tutto l’inverno per vederti di nuovo, lo capisci?»

Si girò sbuffando e la vide al centro dello scoglio. Teneva banco. Teneva banco come sempre. Raccontava qualcosa che Maria non ascoltò. Tutti, accovacciati, la guardavano e ridevano. Laura saltò su se stessa un paio di volte, piroettò e poi spinse giú dallo scoglio Carlo. Maria ebbe l’impressione di vedere un programma alla televisione, lontano da lei. Separato da uno schermo invalicabile. Tutti lontani.

Che ci faccio io con questi?

– Che fai, ci snobbi?

Maria si girò verso la voce. Era Zanna. Le sembrò l’unico a non essere cambiato. A essere sempre lo stesso.

– No, per niente. È che questo è il mio primo bagno… – rispose quasi in colpa.

Forse aveva ragione Zanna, era lei che faceva la distante e non Laura.

– Chi sono quelle due? – continuò indicando le gemelle.

– Sono le gemelle Obelaschi. Sono di Firenze. Due stronze mezze nobili, sempre d’accordo su tutto. Oh, mai che una dicesse un pensiero personale… Roba di telepatia secondo me.

– E Laura? – chiese Maria a bassa voce.

– E Laura è la star del gruppo e le star sai come sono fatte. Da quando ha saputo poi che quest’inverno andrà a vivere a Parigi non si contiene proprio piú…

– Ma a te sta simpatica?

– Non è che proprio la amo, però è simpatica.

Zanna le si sdraiò accanto. Maria girò la testa, socchiuse gli occhi e osservò il gruppo appollaiato sullo scoglio. Laura si tuffò in mare e poi riuscí immediatamente. Era proprio magra, con delle gambe lunghe da puledro e le braccia sottili e abbronzate, sotto il costume intero si intravedevano appena le colline dei seni immaturi. Pure le gemelle, anche se piú culone, erano abbastanza carine, non si erano ancora sviluppate del tutto. Giocavano a spingersi e a inseguirsi sopra gli scogli.

Al mare si vedono un sacco di cose che in città non si notano, pensò Maria. I corpi. Il suo corpo aveva proprio un’altra consistenza e forma rispetto a quello delle altre. Non era adatto. Non era adatto a tuffarsi. A correre. A giocare a pallavolo.

Tornarono a riva. Maria si asciugò, rimase un altro po’ cosí, senza sapere che fare, indecisa se andare a casa. Si fece un panino con prosciutto e formaggio. Chiacchierò ancora con Carlo. Stronzate.

Era stanca e stranamente inquieta. Non aveva voglia di parlare. Le parole le uscivano fuori a fatica.

Quella giornata non le era piaciuta proprio. Prese la sua roba e se ne andò senza salutare nessuno. Attraversò la pineta domandandosi che cos’era che aveva cambiato il suo rapporto con Laura e in fondo anche con tutti gli altri. Aveva la sensazione che un’armonia si era persa e che non si sarebbe ricostruita con facilità.

Che palle!

Entrò in casa scoglionata e triste. Non c’era nessuno. Nemmeno Gnigni. Andò in bagno a farsi una doccia. Si spogliò e si mise davanti al grande specchio vicino alla finestra. Si guardò.

Le tette grosse. I fianchi. Le cosce.

Laura e le sue amiche non avevano niente di tutto questo. Avevano delle tettine appena accennate, dei corpi asessuati, e lei invece aveva un fisico da maggiorata, da elefante. Era sgraziata. Tutta quella carne, quella ciccia formosa le era cresciuta addosso durante l’inverno, prepotente, senza rispettarla.

Non lo voleva, non le piaceva. Era volgare. Quello era. Roba da giornaletti pornografici. Le sarebbe piaciuto che nascosta sotto un lembo di pelle che correva lungo tutta la schiena ci fosse una chiusura lampo.

Vedeva la lampo abbassarsi e lei ne usciva fuori magra e normale come un anno prima, come una bambina. Quel corpo eccessivo sarebbe stato solo un enorme costume di gomma da appallottolare e buttare nell’immondizia. Si poggiò le mani sui seni e se li compresse sul torace. Cosí era meglio, ma rimanevano i fianchi. Una portaerei. Una giumenta da riproduzione.

Rimase un sacco di tempo a guardarsi allo specchio. Nuda e insoddisfatta. Forse doveva solo mettere il cervello nella condizione migliore di accettarsi. Di accettarsi come era. Una parola.

La porta di casa si aprí. Maria si infilò sotto la doccia. Entrò in bagno sua madre lamentandosi del bordello che regnava in paese, delle condizioni della casa e di suo marito che non le dava una mano neanche a morire.

Maria sotto la doccia chiudeva gli occhi e si faceva colpire dalla pioggia tiepida.

Alla fine la madre le chiese se si era divertita al mare.

– Sí.

– E c’era Laura?

– Sí.

– E come stava?

– Bene.

– Sei contenta di averla rivista?

– Sí.

– Loquace come al solito…

La madre uscí dal bagno. Maria continuò a guardarsi allo specchio poi andò nella sua stanza. Dentro l’armadio trovò un paio di jeans lasciati dall’estate prima. Se li provò. Cercò di chiudere il bottone ma non ci riuscí. Fece forza e li chiuse. Senza respirare tornò in bagno e si guardò allo specchio. Un pachiderma imprigionato in un paio di jeans.

Un orrore! Blah!

Se li tolse e li gettò nel cestino.

La sera Maria e suo padre furono obbligati ad andare a mangiare da zia Vittoria. Ascoltarono le sue lamentele mentre distribuiva pasta e zucchine.

In quel posto tutto stava cambiando, anche i commercianti diventavano piú villani di anno in anno.

Maria non parlava. Sbocconcellava appena, con sua madre nelle orecchie che le ripeteva che mangiava poco.

Che cosa doveva fare dopo cena?

Tornare a casa con la puzza delle mozzarelle marce, con i suoi che guardavano la tele in veranda, o uscire e andare in piazza dagli altri?

Mi sta prendendo male!

Tornarono a piedi a casa, attraversarono la piazza, e Maria sotto il lampione vicino alla chiesa vide la sua comitiva: Zanna, Giuliana e gli altri. Laura non c’era.

Rientrò e si buttò sul letto. Si mise a leggere un libro. Ma le frasi le scivolavano addosso come acqua. Lo chiuse. Andò di là a vedere la televisione ma suo padre si era piazzato. Guardava Giochi senza frontiere. Un incubo.

Basta! Esco! Non me ne importa niente.

Si mise una camicia e un paio di pantaloni di cotone neri e un paio di espadrillas nere.

In piazza c’era un sacco di gente che seduta ai tavolini dei bar mangiava gelati e beveva, su un palco un complesso cantava canzoni napoletane, all’angolo con il corso i ragazzi del paese seduti sui motorini facevano mondo a parte. Maria gli passò accanto. Sentí i loro occhi puntati addosso.

Che avete da guardare?

Continuò. I suoi amici stavano ancora là. Sperò che Laura non ci fosse e invece c’era. Con un vestito leggero di maglia a righe blu e bianche chiacchierava con Zanna e le gemelle.

Arrivò abbastanza tranquilla.

– Ohi, come va? – disse.

– Bene. Si sta pensando di andare a fare il bagno di notte, c’è la luna piena… Vuoi venire? – rispose Zanna.

– Lo facciamo tutti nudi, va bene? – continuò Laura con un sorrisetto antipatico sulla bocca.

– Sí. Certo… Io mi vado a prendere un gelato, – le rispose Maria distratta.

Si voltò e si avviò verso la gelateria.

Malinconia. L’unica cosa che sentiva era un’enorme malinconia. Malinconia per l’altra estate passata con Laura a scherzare, a ridere delle cazzate piú insignificanti, per quello che avevano fatto insieme e per quello che non potevano fare.

Arrivò davanti al gelataio. Ma la voglia di gelato cosí come era nata era scomparsa. Le venne la nausea guardando quei colori accesi e artificiali del lampone e del cocomero.

Qualcuno la chiamò.

E adesso chi è?

– Ohi Maria, sei arrivata.

Maria si girò. Un ragazzo sui diciotto, con pantaloncini da surf, una maglietta colorata, le venne incontro sopra una bicicletta piccola e scassata. Sotto un braccio stringeva una tavola da surf. Aveva i capelli ricci biondicci, due sopracciglia crespe e folte e due occhi azzurri chiari chiari.

– Ciao Giovanni, – gli disse Maria.

– Quando sei arrivata?

– Stamattina.

Giovanni era un ragazzo del luogo. Aveva diciotto anni. Affittava le derive e i surf sulla spiaggia. Maria lo aveva conosciuto l’estate prima. Era uno tranquillo, che si faceva gli affari suoi, in fissa pesante con il surf.

– Maria sei diventata bellissima. Non ti riconosco.

Maria si imbarazzò. Sentí le guance diventarle di fuoco. Ma Giovanni lo aveva detto in modo carino. Non era pericoloso.

– Grazie. A te ti stanno venendo dei capelli…

– Hai visto che criniera… È solo che non me li lavo, – le disse ridendo Giovanni e cercando come di spazzolarli con una mano. – Scusami ma ho fretta, devo andare a riparare un paio di tavole. Senti, perché non ci vediamo domani…

Maria ci pensò un attimo poi le apparve la faccia di quella antipatica di Laura che le rompeva le palle e un altro giorno buttata sulla spiaggia piena di gente a patire.

– Va bene…

– Allora ti aspetto domani.

Giovanni se ne andò zigzagando con la tavola sotto il braccio.

Maria si comprò un gelato e decise di tornarsene a casa senza salutare nessuno. Come aveva fatto in spiaggia. Le stava proprio prendendo male. Non aveva piú voglia di parlare nemmeno con Zanna.

Le sembrava falso. Prima diceva che non gli piaceva Laura e poi era pappa e ciccia con quella stronza.

Rientrò in casa. Silenzio. I suoi dormivano anche se non era tardi. Litigare tutto il giorno affatica. Si mise a letto e poco dopo dormiva anche lei.

Quando si svegliò la sua stanza era già un forno. Mancava l’aria. Tipo zombie andò in terrazzo a fare colazione. Suo padre leggeva il giornale.

– La mamma?

– È andata a tagliarsi i capelli.

– Che fai oggi?

– Credo che andrò da Gnoli a vedere il ciclismo e mangerò là, ha una bella piscina. Vuoi venire?

– No grazie. Me ne vado in barca.

Ma come faceva suo padre a sbattersi davanti alla televisione, vicino alla piscina, abbuffandosi di pastasciutta con quel mostro di Gnoli, si chiese. Aveva dei piaceri da Fantozzi… Non poteva essere suo padre quell’uomo. Meglio uscire.

La spiaggia faceva paura. Le ultime file di sdraio erano cosí lontane dalla riva che sembrava di stare nel deserto.Un deserto affollato di anime in vacanza. Maria attraversò la spiaggia. Non si fermò al bar dello stabilimento.

Cercò le sdraio riservate dalla sua famiglia. Erano tre. Fortunatamente vicino alla riva. Si mise a prendere il sole. Si infilò il Sony. Per non sentire. Non sentire le voci della gente. Non sentire i rumori e i pianti dei bambini. Chiuse gli occhi. Ora era sola con il sole e la musica nelle orecchie.

Qualcuno la tirò fuori dalla sua pace apparente.

Aprí gli occhi. Giovanni. Era in piedi davanti a lei. Grande, abbronzato e bagnato.

– Vuoi venire, ti porto a fare un giro in windsurf? – le chiese, mentre se la squadrava. Maria si coprí con il telo.

– No grazie. L’acqua è fredda, – disse e si rimproverò della risposta cretina.

– No, non è vero. Dài, vieni, – le disse prendendole una mano.

– No grazie, veramente… Casomai piú tardi.

– D’accordo, io sono qui fuori comunque…

Giovanni se ne andò. Non sembrava dispiaciuto piú di tanto. Lo vide afferrare la tavola e metterla in acqua e partire planando.

Si era dovuta difendere. Difendere da cosa? Da quegli occhi che le erano corsi addosso. Da quel sorriso da squalo che aveva indugiato sul suo seno. L’anno prima Giovanni non l’avrebbe mai guardata cosí. Si ricordava di esserci andata spesso con lui in surf ma non aveva mai avuto questa impressione.

Forse erano solo film che si faceva? Forse era solo paranoia?

Ora anche Giovanni non le piaceva.

– Che palle! – disse a bassa voce.

Forse poteva tornarsene in città. Avrebbe dovuto convincere suo padre. Una parola. Aveva dentro una strana ansia che la rendeva inquieta e indecisa.

Rientrò a casa.

Ciarin in terrazzo spazzava i resti della colazione da terra. Dentro faceva un caldo d’inferno. Sua madre stava in bagno. Era completamente nuda con la nuova messa in piega gialla e ondulata.

– Maria che ci fai qua? Ti piacciono i miei capelli?

– Sí. Molto, – disse Maria. Le facevano schifo in verità.

Si sedette e guardò sua madre truccarsi. Cercando di avere un occhio nuovo… Di vederla per la prima volta. Come se non fosse la sua mamma.

Era ancora giovane. E aveva un bel corpo. Aveva un po’ di cellulite sul sedere. Un po’ di pancia. La signora Ricci vide attraverso lo specchio che sua figlia la guardava.

– Sono vecchia? Sai che ho pensato che forse mi potrei rifare il seno. Mi cala troppo? – le chiese mentre si metteva il rossetto. – Non sarebbe meglio!?

I seni della signora Ricci erano grossi e incominciavano a calare. Lei se li prese in mano e se li ritirò su.

– No. Saresti ridicola.

La madre sembrò come offesa ma poi:

– Guarda che le donne quando invecchiano a queste cose ci pensano… Tu non lo sai. Tu sei troppo ragazzina… Hai un bellissimo corpo. Guardati. Tutti i ragazzi ti verranno dietro. Li ho visti come ti guardano. Non sarà sempre cosí. Vedi dopo che hai avuto un figlio…

– Io non voglio che i ragazzi mi guardino… – le disse Maria esitante. Odiava parlare di certe cose. Soprattutto con sua madre.

– È normale. Sei bellissima.

Ora la signora Ricci si stava infilando il suo bikini leopardato. Sembrava soddisfatta.

– Vabbè, mamma, con te non si può parlare…

La signora Ricci non sentiva piú. Troppo presa a infilarsi gli orecchini.

Maria si buttò davanti alla televisione.

Il giorno dopo Maria uscí tardi e arrivò davanti allo stabilimento. Sul piazzale troneggiava un quattroruote gigantesco, carico di tavole. Il tutto faceva parecchio Malibu beach.

Maria entrò. Musica anni Settanta al massimo. C’erano parecchi ragazzini che guardavano le tavole appoggiate ai muri. Dietro un bancone una giovane ragazza, sui venti, leggeva un giornaletto dell’Uomo Ragno. Maria le chiese se c’era Giovanni.

– Tu devi essere Maria… – le disse la ragazza posando il giornaletto.

– Sí.

– E io sono Marina, ciao!

Maria trovò Marina bellissima. Aveva gli occhi verdi, le lentiggini sul naso piccolo e dei capelli neri neri. Non molto alta ma con un corpo ben fatto e muscoloso. Abbronzatissima. Aveva due tette grosse nascoste a malapena da una maglietta mezza strappata. Negli occhi le vide la stessa tranquillità che aveva visto in Giovanni. Quei due la mettevano a suo agio. Desiderò anche lei possedere quella calma felice.

– Giovanni ha detto che doveva venire una ragazza carina ma non credevo cosí carina… Comunque. Giovanni è al largo, sta provando una plancia. Ha detto di accompagnarmi che lo andiamo a prendere. Ti va?

– Va bene. Andiamo.

Le due uscirono dal negozio, montarono sul fuoristrada e partirono con una sgommata.

Marina chiese a Maria di aprire una borsa frigo. Dentro c’erano delle birre. Gliene offrí una ma lei non accettò. Si sentiva abbastanza emozionata. Era bello stare con una ragazza cosí grande che la trattava come se avessero la stessa età.

Arrivarono al porto, posteggiarono la macchina e si avviarono sull’imbarcadero. Marina si fermò davanti a un motoscafo cattivissimo, blu e rosso. Si tolse le scarpe e con un salto agile atterrò sui cuscini che rivestivano la poppa.

– Senti, Maria, in quella barca laggiú ci sono dei miei amici, perché non gli chiedi se vogliono venire con noi, intanto io accendo i motori?

– Ok. Vado.

Maria proseguí fino alla barca che le aveva indicato Marina. Una grossa barca a vela a due alberi. Nel pozzetto regnava il caos: asciugamani, lattine di Coca-Cola, una mezza pizza ai funghi, attrezzi da lavoro. Da dentro al boccaporto arrivava il rumore di un trapano.

– Scusate c’è qualcuno? – urlò diverse volte senza effetto. Non sentivano. Si vergognava a salire cosí. Quella gente non la conosceva. Era troppo timida, si disse. Pensò a Marina, a come Marina si sarebbe comportata in una situazione analoga. Sarebbe salita senza farsi troppi problemi. Si fece forza e s’incamminò sulla passerella. Una testa sbucò dal boccaporto. Era una ragazza. Aveva dei lunghi capelli biondi e degli occhiali da sole.

– Dimmi?! – le fece asciugandosi con un braccio la fronte dal sudore.

– Sono un’amica di Marina. Ha chiesto se volevate andare in barca con lei, – le disse Maria cercando di fare la disinvolta.

– Aspetta!

La ragazza scomparve all’interno della barca. Dopo un minuto risbucò.

– Eccoci, – disse tirandosi fuori.

Era alta con un fisico slanciato, chiara di pelle. Non doveva essere italiana. Forse tedesca. Dopo di lei uscí un’altra ragazza un po’ cicciotta ma con un bel sorriso e un panama consumato in testa. Una lunga treccia di capelli castani le cadeva sulla schiena abbronzata.

– Eccoci. Ci siamo. Io mi chiamo Ingrid, – disse la ragazza bionda. – E io Giorgia, – proseguí l’altra.

Maria si presentò. Arrivarono al motoscafo che ora sputava nafta e fumo e borbottava. Salirono.

– E gli altri? – chiese Marina mentre manovrava per uscire dal porto.

– Sono tutti fuori con le tavole. C’è vento, – rispose Giorgia.

– Fichissimo! Per una volta siamo solo donne senza quei rompicoglioni… – urlò ridendo Marina, poi spinse in avanti le leve del gas e il motoscafo urlò e accelerò saltando sulle onde.

Maria si sdraiò sui cuscini reggendosi forte. Si levò la maglietta e rimase in due pezzi. Il vento le scompigliava i capelli e le entrava in bocca con quel suo odore di alghe e salsedine. La spiaggia si ridusse presto a una sottile striscia colorata.

Ingrid e Giorgia le si sdraiarono accanto, si levarono le magliette e rimasero solo con il pezzo di sotto.

Fanno topless!

Maria le guardò stesa sui cuscini. Ingrid aveva due seni molto piccoli, Giorgia invece li aveva grossi ma le cadevano un po’, finendo in due areole tonde e piatte. Il colore dell’abbronzatura era uniforme su tutto il busto.

Per loro era normale farlo. Nessuna delle amiche di Maria lo faceva e nemmeno sua madre e le sue amiche. Loro invece sembravano rilassate, come se fosse la cosa piú normale del mondo, non si vergognavano neanche un po’.

Maria sí. Maria si vergognava. Avrebbe voluto farlo perché non c’è niente di male ma odiava le sue tette, questa era la verità. Laura con il suo corpo aggraziato e magro avrebbe potuto farlo ma lei no. Sarebbe stato ridicolo.

Il motoscafo decelerò improvvisamente e si fermò in mezzo al mare. Lontano si vedevano le vele colorate dei surf, che piegate correvano da una parte all’altra.

– Bene, aspettiamoli qui! – disse Marina dopo che ebbe spento i motori.

Prese delle birre dal frigo e si mise a gambe incrociate tra le sue amiche. Si levò la maglietta scoprendo i seni. Ha delle bellissime tette, pensò Maria.

– Dove siete state ieri sera? Non vi ho trovato da nessuna parte, – chiese Marina alle sue amiche.

– Siamo andate al Pirata, c’era un anguria party. Due palle. Ingrid ha fatto una conoscenza fondamentale… – le rispose Giorgia.

– È vero, è vero. Siete finite, è meglio che la prossima estate ve ne andate in montagna. Ieri sera ho conosciuto un chirurgo estetico di Modena. Gli ho chiesto se era pericoloso rifarsi le tette, mi ha detto che non ci sono proprio problemi. Ho deciso, quest’inverno mi rifaccio le tette. Le voglio gigantesche. Vi farò morire di invidia. Le regalo a Marco per Natale.

– Che fai, te le impacchetti e poi ti metti sotto l’albero di Natale? – le disse Giorgia dopo aver bevuto.

– Sei sicura? Guarda che sono carine anche cosí, – continuò Marina.

– Ma che dici? Tu non puoi parlare. Guarda le tue, sono bellissime, – fece Ingrid indicandole.

– Ringrazio mamma e papà per avermi dato questo equipaggiamento… – disse ridendo Marina.

– Io non sono contenta cosí, che vi devo dire. Agli uomini piacciono piú grandi, gli piace affondarci… – disse riflessiva Ingrid.

– Per me fa bene Ingrid a rifarsele. Io pure ci sto pensando. Me le potrei ritirare un po’ su, – disse Giorgia prendendosi in mano i seni e tirandoli verso l’alto.

– E tu che ne pensi Maria? Bisogna rifarsele o no? – fece a un tratto Marina.

Maria non aveva aperto bocca fino a quel momento. Era stata solo ad ascoltare. Sentí le guance infuocarsi e la lingua farsi secca.

– Lei neanche ci pensa a queste cose, guarda che tette che ha. Secondo me le ha meglio delle tue, Marina. Sono ancora piú sode. Hai trovato chi ti batte, – disse Ingrid a Marina.

– Sentiamo cosa ne pensa Maria, – continuò Marina senza curarsi di quello che le aveva detto Ingrid.

– Non lo so… Non ci penso spesso.