Hai ventisei anni.
Ti chiami Carlo Condemi.
Oggi per te sarà una giornata tosta. Tosta da morire. Devi fare l’esame di diritto commerciale. È da due mesi che lo studi, anzi è da due mesi che non lo studi, che fai finta di studiarlo. Avrai fatto sí e no metà del programma. Ti mancano tutti i libri speciali e il manuale l’hai letto ma come fosse l’elenco del telefono.
Ma ci devi provare lo stesso, vai a vedere che ti dice bene. È durissima. Andare impreparato agli esami ti fa stare male, fisicamente male. Ieri, per punirti, solo per punirti che non avevi fatto nulla da mesi, sei rimasto a casa tutto il giorno, seduto alla tua scrivania davanti al libro. Non è che studiassi, stavi seduto. Un po’ guardavi fuori, dalla finestra, le macchine passare, i bambini giocare a calcio al giardinetto, un po’ andavi al cesso. In totale avrai passato tre ore sopra il gabinetto. Alla fine ti faceva male il sedere, ti si erano formate delle strisce rosse sulle chiappe… Avevi strizza per l’esame. Capito, avevi strizza per l’esame?! Come puoi avere paura quando hai la certezza matematica che andrà male? Non lo sai. Devi avere qualche squilibrio ormonale.
I nodi vengono al pettine.
Ti sei ripetuto questa frase in testa un milione di volte. È come se fossi sopra un terrazzino all’ottavo piano che in maniera microscopica si ritira all’interno del palazzo, ogni giorno, di un paio di centimetri. Le finestre dietro di te sono sbarrate ma sul terrazzino si sta alla grande, c’è da mangiare, c’è uno stereo che spara a palla musica non male e ci sono delle bonazze che ballano. E allora che fai? Certo non ti preoccupi che questo cazzo di terrazzino ti sta scomparendo sotto i piedi. Ti metti a ballare e ti diverti pure di piú perché sai che è l’ultima volta che puoi farlo. Capisci come ragioni?
Ora ti sono rimasti solo un paio di centimetri e poi precipiti di sotto e la voglia di ridere e di ballare ti è passata.
I nodi vengono al pettine. Quanto è vera questa frase.
Comunque. Ti alzi dal letto e come prima cosa ti fai la barba. È da una settimana che non te la tagli ma oggi è necessario. I professori piú ti vedono preciso e ordinato e piú hanno fiducia in te. È una verità. Non ti resta che tagliarla. Ti levi l’orecchino. Ti vesti abbastanza acchittato. Un paio di jeans ben lavati, una camicia a righe che ti fa schifo e una giacca di tweed che hai usato sí e no tre volte. Dovrebbe andare.
Prima di abbandonare la cuccia metti il disco di Hair, quel musical degli anni Settanta di cui hanno fatto anche un film. È la storia di un ragazzo che parte dalla campagna per andare in Vietnam. Va a New York dove lo devono arruolare. Lui a New York non c’è mai stato e in Central Park fa amicizia con un gruppo di hippie e incomincia a divertirsi, a prendersi qualche acido e si trova pure una donna niente male ma dopo aver passato un paio di giorni pazzeschi è costretto a partire. Il capo degli hippie gli dice che in Vietnam non ci deve andare. Lui non ascolta e se ne va in caserma. Lo mandano in uno stato lontanissimo a fare le esercitazioni prima di imbarcarsi per la guerra. Gli hippie decidono di andarlo a trovare, prendono una macchina e lo raggiungono. Il loro capo travestito da ufficiale entra nella caserma e si scambia i vestiti con l’amico che esce fuori nascosto dai suoi gradi mentre il figlio dei fiori rimane in caserma. È tristissima la scena in cui il giovane va a trovare la donna e gli amici che lo baciano e l’abbracciano. E c’è l’ultima scena in cui si vede il povero figlio dei fiori obbligato a salire su un aereo che parte per il Vietnam che è veramente straziante. Ogni volta che la vedi senti il cuore lacerarsi. Il poveretto che aveva bruciato il foglio del richiamo alle armi, che predicava pace e amore, è costretto a partire al posto dell’amico. Mentre entra nella carlinga insieme ad altri mille canta una canzone funebre.
È quella che ascolti e quando l’ascolti salti per farti coraggio.
Esci dalla stanza. C’è tua madre ancora in vestaglia che sta facendo colazione e ti dice di mangiare qualche cosa. Ma tu hai lo stomaco annodato. Qualsiasi cosa mangi in questo momento la vomiti.
Arriva tuo padre, scattante come al solito, con la sua cartella in mano e l’odore di colonia sul collo. Ti guarda e in quello sguardo vedi un po’ di cose. Da una parte ti sta incitando a rompergli il culo, dall’altra ti dice che se non lo passi neppure questa volta sarà lui a romperti il culo.
– Stavolta li massacro! – gli dici tu per farlo contento.
Gli lasci quattro ore di speranza poi lo bastoni all’ora di pranzo.
– Fammi sapere appena l’hai fatto, – ti dice.
Ti dice sempre cosí. Mai una volta che ti augurasse buona fortuna (che, tra l’altro, porta anche sfiga) o in bocca al lupo. Esce. Tu pure devi andare. Tua madre si raccomanda. E mentre lei si raccomanda la guardi nella sua vestaglia troppo grande, le guardi le rughe in faccia, i capelli tinti e ti rendi conto di quanto è invecchiata e tu invece sei sempre uguale. Ti dice che devi passarlo a tutti i costi l’esame, che tuo padre ci tiene da morire, che devi chiudere con l’università e che ti devi prendere qualsiasi cosa, anche un diciotto. Ti rendi conto che ti sta incatastando, che ti sta facendo del male. Va interrotta. Immediatamente.
– Non preoccuparti, – le dici e poi: – Un diciotto lo porto sicuro a casa.
Esci. Con che faccia riesci a mentire? Chi ti ha dato questa capacità?
E poi perché? Che senso ha se tra meno di tre ore le dirai che ti hanno bocciato.
Prendi il motorino. Si gela e con solo la giacca di tweed puoi anche morire ma risalire non ti va. Il sole è pallido e freddo. Corri per arrivare in tempo, per esserci all’appello ma già sai che arriverai in ritardo.
Corri come un pazzo nel traffico di tram incolonnati, di macchine ferme ai semafori, di autobus pieni di gente.
Vedi avvicinarsi le mura dell’università e ti senti male. La porta è intasata dagli studenti che devono entrare, dai motorini, dagli zingari che ti leggono la mano, dalle bancarelle di reggipetti e mutande.
È un mostro che inghiotte studenti. È un mostro che al posto dei denti ha inferriate di metallo e al posto delle guance ha muri di mattoni su cui è scritto AUTONOMIA OPERAIA E GIUSY TI AMO ANCORA.
Non ce la fai. Non ce la fai a farti masticare anche oggi.
Tanto non sei preparato. Perché ti devi umiliare di fronte a un perfetto sconosciuto. A un fottuto professore che vedi oggi per la prima volta in vita tua.
Prosegui dritto. E vaffanculo. Continui senza sapere dove andare. Giri per i quartieri vicino all’università. Ti perdi nelle piccole vie. Senti dentro la testa il tuo nome chiamato dalla bidella, la vedi sbarrarlo sul foglio, uno dei tanti a cui non gli regge. Non importa, lo potrai sempre rifare tra un mese. Questo mese studi come un pazzo, poi torni e gli spacchi il culo. Bello vero?
Ti fermi a un bar. Ti bevi un caffè.
Forse potresti andare a sentire le domande, casomai segnartele. Ma è tutto inutile, sono solo i sensi di colpa che ti mordono la coscienza come un branco di bastardi affamati. Devi andare, non puoi essere cosí vigliacco.
Rimonti sul motorino. Lo lasci all’entrata opposta a dove sta la tua facoltà. Ti incammini a testa bassa con un senso di malessere che ti schianta. È pieno di studenti che corrono alle lezioni, che parlano di esami, che li fanno, e tu? Tu sei un estraneo in questo posto, continui a venirci perché non sai dove sbattere la testa, questa è la verità, cazzo finalmente te la sei detta.
L’edificio dove ha sede la tua facoltà pare esplodere, esplodere per la carne, le ossa, i cervelli che ci sono stipati dentro. Ti fai spazio a gomitate tra quelli che si devono laureare, che aspettano, eleganti nei loro abitini blu, il momento di entrare. Loro la fanno finalmente finita. Loro con le tesi sotto il braccio e i genitori a lato con i fiori.
Li superi. Sali al primo piano.
Il corridoio è invaso da quelli che devono fare l’esame di diritto commerciale, il tuo. Sono milioni. Hanno tutti la bocca secca. Alcuni stanno a terra, altri appoggiati ai muri, altri solo in piedi. Chiedi se hanno già cominciato gli esami con Recchi. Ti dicono che non si sa con certezza, che stanno cercando di capirci qualche cosa anche loro. Senti l’ansia aleggiare come uno stormo di avvoltoi su tutto il corridoio. Prendi fiato e t’infili come un vecchio kamikaze tra la massa compatta. Poi senti il tuo nome. La bidella urla cinque nomi tra cui c’è anche il tuo.
Cristo, ti stanno chiamando.
Non dovevi venirci. Lo sapevi, idiota che non sei altro.
E ora che devi fare?
Provare non ti costa nulla. Chiunque direbbe cosí. Tu no. Non ti piace fare le figure di merda. Chissà chi ti credi di essere per non poterti portare a casa un diciotto rubato! Non ti va di arrampicarti sugli specchi col professore.
Scappi. Incominci a correre e a sbattere contro quelli che aspettano mentre senti il tuo nome ripetersi mille volte.
Quando sei fuori ricominci a respirare e vedi che è una bella giornata. Limpida e frizzante. Ti fa girare la testa.
E ora che fai? Dove ti sbatti fino all’ora di pranzo?
Decidi di andare a cercare Laura, la ragazza con cui ti fai le storie in questo momento. Prendi il motorino e attraversi la città. Passi davanti a un negozio di dischi. Se avessi qualche soldo ti andresti a comprare un paio di cd. Prosegui. Arrivi sotto casa di Laura. La chiami al citofono.
Sali, ti dice. La trovi ancora a letto. Ha la faccia piena di sonno. Gli occhi piccoli. Ti chiede che ci fai là, perché non stai all’università a fare l’esame? Tu non hai voglia di parlarne, ma lei incalza, ha già capito tutto. Accendi la tele mentre lei ti dice che non vai da nessuna parte in questo modo. La zittisci con un bacio. Mugugna qualcosa.
Incominci a spogliarti. Il piumone, il letto caldo ti attira da morire. Laura ride. Le dici che hai voglia di fare l’amore e di rimanere con lei tutto il giorno sotto le coperte a farvi le coccole. Lei ti dice che non può, che deve andare a sentire una conferenza sui cetacei. Tu le dici che ha la fortuna di avere il piú bel cetaceo del mondo nel suo letto, che non c’è bisogno di sbattersi chissà dove per conoscere i rituali di accoppiamento dei delfini, tu puoi insegnarglieli. Incominci a fare dei versi che dovrebbero essere il richiamo delle balene in amore. Lei ride ma intanto continua a vestirsi. Alla fine, quando oramai ha infilato il cappotto e messo gli occhiali da sole ti dice che se vuoi restare non c’è problema. Non sa quando tornerà. Ti dà un bacio sulle labbra e se ne va.
Di nuovo solo.
Almeno ora stai in una casa, al caldo e non in mezzo a una strada. Apri il frigo. Ti mangi il resto di uno spezzatino con i funghi e ti butti a letto.
Accendi la tele. C’è la replica del Maurizio Costanzo Show. Cerchi di capire di che parlano ma non ce la fai, stai troppo male. Ti è esplosa dentro un’ansia che non ti lascia respirare. È qualcosa che va oltre l’esame, oltre il fatto che stai dentro un letto mentre tutta Roma è in movimento, lavora e produce, è qualcosa di piú indefinibile, di piú triste. È la sensazione che non ti scrollerai mai di dosso questa palude che ti si è allargata dentro. Una palude di intenzioni, di aspettative tradite ogni giorno.
Ti accucci e provi a dormire mentre Rita Pavone parla della condizione delle donne mongole. Ti addormenti.
Quando riapri gli occhi scopri che hai dormito un sacco. Come una pietra. È già mezzogiorno e mezza. Devi tornare a casa e dire ai tuoi che non hai fatto l’esame. Ti rivesti ed esci.
Rimonti sul tuo motorino. Attraversi la città e giochi a non mettere mai i piedi a terra. Sei un povero soldato a cui hanno mozzato le gambe e che è costretto a usare un motorino per andare a trovare la madre morente.
Ai semafori giri su te stesso come una trottola per non cadere ma una macchina ti inchioda davanti e poggi un piede a terra e il tuo gioco finisce.
Non hai voglia di tornare a casa.
Decidi che da domani la storia cambia, che smetti di uscire fino alle tre di notte, di perdere tempo a leggere fumetti e romanzi di fantascienza. Decidi che troverai qualcuno con cui studiare, non Francesco o Paolo. Con loro finisce che giocate a scopa o a backgammon. Tu hai bisogno di qualcuno che sia preciso, che ti ci faccia sbattere la testa sul libro.
Antonio. Antonio Giovannini.
È lui il tuo uomo.
Ha due anni meno di te e ha fatto piú esami di te.
Quasi quasi lo passi a trovare. Non abita lontano.
Arrivi sotto casa sua. Suoni. Ti risponde sua madre. Ti dice che Antonio sta facendo un master di diritto internazionale a Bruxelles. Ringrazi.
Cazzo, si è già laureato e fa un master! Non te ne sei neanche accorto. A Bruxelles!
Te ne vai.
Mentre attraversi il ponte di Belle Arti vedi che sul Tevere ci sono i cormorani. Non ci puoi credere. Hai sempre visto solo buste trascinate dalla corrente, solo quel grigio dell’acqua di fogna. Stanno lí che nuotano, neri con il collo a esse, che si immergono e riescono, uno ha addirittura un pesce in bocca.
Leghi il motorino e scendi giú sulla riva del fiume. Le scale sono viscide e piene di rifiuti.
L’argine è parzialmente coperto d’acqua. I cormorani sono diventati molti di piú. Saranno una ventina. Ti avvicini a uno che sta pescando. È uno strano tipo. Non ha l’aria del pescatore. Alto. Sulla cinquantina. È vestito in completo di flanella grigio. Ha la cravatta e le scarpe di cuoio. Regge in mano una lunga corda che finisce su una canna, da questa prosegue in acqua dov’è attaccata una rete quadrata. Sta fermo immobile, gli occhi puntati nei gorghi.
Ti ci avvicini. Per lui è come se non esistessi.
– Si pesca? – gli domandi alla fine.
– Oggi poco e niente…
Si è girato verso di te. Ha gli occhi azzurri e sopracciglia folte.
– Ma ci sono i pesci?
– Dipende. A volte ne scendono giú tanti. A volte non ne passano per intere settimane.
Rimanete in silenzio. A quest’ora dovresti stare a casa a parlare con i tuoi. Gli dovresti raccontare tutto ma invece continui a startene lí, seduto su una bombola del gas arrugginita. In alto, oltre gli argini, le macchine incolonnate.
A un tratto l’uomo urla. La canna si è piegata e la cima si è tesa.
– Oddio! Oddio! Ne ho presi tantissimi. Un intero banco! Aiutami!
Lo aiuti. Pesa un casino. Anche in due fate fatica. Finalmente tirate fuori la rete. Saranno venti chili di pesciolini piccoli e argentati che si dibattono. Il manager è felice e pure tu lo sei. Tutti quei pesci!
– Io non so che farmene di tutto questo bendidio. Prenditene un paio di buste. Forza! Io lavoro alla Rai, qua dietro a viale Mazzini, non posso tornare con tutti questi pesci…
Tu nemmeno sai che fartene. Alla fine accetti. Ne metti una decina in ogni busta ma ti fanno pena allora ci metti pure l’acqua. Te ne torni al tuo motorino e riparti. Le buste piene d’acqua ti fanno sbandare. Ai semafori controlli che i pesci stiano bene. Ora che fai? Non puoi tornare dai tuoi con i pesci… Quelli vogliono sapere dell’esame. Decidi di portarli da Laura. A quest’ora sarà tornata. Li metterai nella sua vasca da bagno. Poi troverai che farci. È l’unica. Non devono morire.
Ti fai il lungotevere piano piano.
Suoni al citofono. Non è tornata.
Poi te la vedi arrivare. Eccola. Tutta elegante, con un cappello tirolese con la piuma. Le calze marroni ricamate. Gli stivaletti e i guanti.
– Che hai fatto? Guardati! – ti dice mettendo il bloster alla sua Honda 50.
Ti guardi, ti sei inzaccherato il fondo dei pantaloni e le scarpe. Hai le buste piene d’acqua in mano.
– Non sai! Ho pescato un sacco di pesci! Con un dirigente Rai.
Le racconti tutto. Lei non sembra gioirne come tu ti aspetti. Alla fine le fai il domandone da mille punti:
– Possiamo metterli per un po’ nella tua vasca?
– Tu stai veramente male, Carlo.
– D’accordo, come non detto. Sai che faccio? Li sbatto nelle fontane dell’orto botanico. Non mi va di rimetterli nel fiume, verrebbero ripescati subito.
– Carlo io veramente non ti capisco… E soprattutto non capisco come io possa stare con uno come te. Come fai a vivere cosí? Oggi avevi l’esame e che fai? Te ne vai a pescare. Ma non crescerai mai? L’altro giorno mi hai detto che mi vuoi sposare. Ti rendi conto…
Cerchi di interromperla.
– Guarda che io faccio sul serio. Io ti voglio sposare. Ti potrei mantenere pescando… Ho un futuro.
Cerchi di cazzeggiare. Di buttarla sul ridere.
– Smettila. Pensi che si possa scherzare su tutto. Su tutte le cazzate che dici? L’altra sera sei stato un’ora a cercare di convincermi che ci dovevamo sposare… Io ti ascolto, sai. Ti racconti un sacco di storie. Com’era? Mi laureo e poi andiamo a vivere in Maremma. Ma dove vuoi andare… Ma se nemmeno sei in grado di affrontare un esame. Cazzo hai ventisei anni…
Stai a pezzi. Le braccia ti fanno malissimo. Quelle due buste pesano un accidente. E senti che ha ragione. Sai che le hai raccontato un sacco di cazzate. Quella sera avevi bevuto, avevi avuto uno strano slancio d’affetto per Laura e allora avevi incominciato a immaginarti felice con lei. Lei però ti ascoltava. Non puoi piú permetterti di raccontare i tuoi film. Lei continua a parlare, tu non ascolti piú. Cerchi di concentrarti:
– Senti facciamo cosí: non mi chiamare. Non c’ho voglia di sentirti. Ti chiamo io! – ti sta dicendo.
– Non c’è problema… – le dici acido.
Perché ti difendi in questo modo? Perché ti piace peggiorare le situazioni.
Lei scompare dietro il portone. Vorresti citofonarle ma sai che faresti peggio. Ti odi e odi quei maledetti pesci. Li guardi boccheggiare.
Alla fine te ne vai. Non ce la puoi fare a tornare a casa. Vai avanti sul tuo motorino senza una meta. Arrivi al Colosseo. Non pensi a niente. Però ti dispiace per Laura. La fai sempre incazzare. Quante volte l’hai fatta piangere? Milioni di volte. Ti fermi. La chiami da una cabina. Risponde la segreteria. Non vuole rispondere.
– Piccola, scusami. Mi dispiace. È che in questi giorni non sto bene… Non riesco a vivere. Ogni cosa che devo fare mi sembra impossibile, un ostacolo impossibile. Oggi all’università mi è preso un attacco di panico. Non so neanch’io che ho. Non so che devo fare. Alle volte ho paura. Ho una paura tremenda. Allora… Scusami. Ti voglio bene. Ti richiamo stasera.
Rimonti sul motorino.
Hai cercato di avere un tono patetico nel messaggio. Di colpirla. Speri che cosí si penta di averti trattato male. Ti stupisci di quanto sei attore. Di come fingi, di come ti imposti con tutti. Forse non senti niente? Forse sei finto fino al midollo? È tutto mediato dall’ipocrisia nella tua vita. Ti sei bruciato dentro, non senti piú niente, ti dici. Cerchi di essere triste. Ti viene da ridere.
Sei sulla Cristoforo Colombo. Fa freddo. Un’enorme strada piena di macchine che corrono. I pesci continuano a boccheggiare attaccati al manubrio.
Vai avanti fino all’Eur. I tuoi ti avranno dato per disperso. Vai avanti con il motore che urla e le gambe che ti tremano.
Sei fuori Roma oramai.
Arrivi a Ostia che è quasi scuro. I lampioni sono accesi. C’è il vento pieno di sabbia che spazza la riviera. Il mare è nero, anche la spiaggia è nera. Ti avvii con le tue buste in mano fino alla riva.
– Belli, ora vi libero… – dici ai pesci.
Li stai per mettere in mare quando ti scoppia dentro un dubbio.
E se fossero pesci d’acqua dolce e in mare muoiono subito?
Tu li hai trovati nel fiume.
Sei un coglione, pensi. Tutta quella strada per portarli a morire nel mare. Te ne torni al motorino. Ti viene voglia di buttarli a terra e di andartene. Poi vedi al centro della piazza una fontana grossa e tonda. Attraversi, attento a non farti investire.
Li versi nell’acqua sporca della fontana. Ti siedi sul bordo.
I pesci rimangono un attimo immobili poi scompaiono dietro i sassi.