1.
C’È UNA SORPRESA

La neve si sta sciogliendo completamente.

Dall’ultima volta che Lena è stata qui non restano che poche chiazze ghiacciate, annerite dai gas di scarico delle auto di passaggio, accanto alle prime timide fioriture. Mentre sale verso il paese, lasciandosi alle spalle la città e consolidate abitudini, un cielo effervescente di inizio primavera illumina le montagne come un riflettore dietro le quinte. La macchina cammina agile, tornante dopo tornante, sulla strada quasi deserta del primo pomeriggio, e una brezza lieve si infila dal finestrino aperto con un fischio leggero, mentre muove le cime dei sempreverdi come una mano benevola. Nello specchietto retrovisore Lena vede una parte di sé che resta indietro: acciaccata, livida, tutto sommato viva.

Sono passati solo diciannove giorni, eppure le sembra di rivedere questi luoghi dopo moltissimo tempo e come se ci fosse stata un’ora prima. Forse a rendere tutto diverso è il fatto che sta tornando per restare – per quanto? Non lo sa nessuno.

Annusa nell’aria l’odore del suo paese, scarnificato dagli addii, ma che pure, ostinato, aspetta chi se n’è andato per tornare solo in villeggiatura; burbero, certo, mica rassegnato, mica arreso, e capace di grande tenerezza.

Mano a mano che sale, si spalanca un ventaglio di prati aperti e sentieri che li costeggiano e si infilano nelle pinete odorose e scompaiono. Ma lei sa dove vanno, sa dove porta ogni curva, ogni cengia, dove il fitto dirada per diventare dorso pietroso o alpeggio.

Conosce a memoria la prossima panchina, e dove l’asfalto è dissestato; sa che tra non molto incontrerà la casa che si dice abbia dato i natali a Tito, poi divenuta ritrovo di suo nonno e gli amici, per farsi un cicchetto la sera e un giro di briscola. Ricorda il cono d’ombra che a quest’ora il melo proietta sopra la prossima borgata e il punto preciso da cui compare la diga con il suo spalancato occhio azzurro.

Sa tutto, eppure, in questo mattino di cielo perfetto, ogni cosa la riempie, e dilaga.

“Sono radici i ricordi dell’infanzia e della prima giovinezza?” si domanda. Sono rampicanti, infestanti come l’edera, che ci avvinghiano le caviglie e salgono su, su, fino a tenerci le gambe, il bacino, il busto, e tutto. Mano a mano che invecchiamo, non importa quanta distanza mettiamo tra noi e loro, diventano più resistenti, pertinaci. Sono nodi che ci aggrappano alla terra, vischiosi come l’inula che resiste alle mancanze e prolifera negli incolti, nelle scarpate, lungo le capezzagne. Sono nodi che ci ancorano, ci intralciano. Che tutto sommato ci tengono in piedi.

Saluta ogni sasso sulla strada e ogni sasso o cespo o buca la riporta a qualcosa, a un momento preciso, una faccia, un’assenza. Ombre si scollano dalle pareti severe dei monti e la aspettano acquattate dietro ogni curva – per una carezza, uno spavento. Si nascondono nel folto dei cespugli o dietro i muri scrostati dei ruderi e oggi dicono: «Bentornata». Qualcuna è sincera, qualcun’altra, sotto sotto, se la ghigna. «Poveretta», bisbiglia, «torna con le pive nel sacco, come quelli andati a cercar fortuna e venuti indietro con anelli di fumo intorno alle dita.»

Arriva ai primi alberi del paese: OBRA DI VALLARSA, BENVENUTI, recita il cartello all’ingresso (sul retro la scritta ARRIVEDERCI E GRAZIE le smuove un sorriso ogni volta che la legge andando via). Ecco i muri di pietra o in tinte tenui, pochi orpelli, gli infissi sobri a incorniciare vite fatte di cose semplici: fette di polenta ad abbrustolire sulla stufa, il chiasso dei bambini sulle scale di legno, le briciole di pane sparpagliate sulla tovaglia da raccogliere con la mano.

Mentre si avvicina immagina Aldo, suo padre, con la camicia di flanella sul balcone di casa – l’ultima prima del bosco – ritto in piedi, le spalle appena curve, i vasi fioriti ordinati intorno. Guarda nella direzione da cui sa che arriverà, con le mani appoggiate alla ringhiera. Una nuvola sbiadita che poco prima non c’era offusca il sole: fa ancora freddo, anche se è quasi primavera.

Lo vede togliere una foglia morta dal vaso di forsizia e rientrare in casa.

Dina apre gli occhi nella penombra: dall’altra stanza arrivano voci sommesse. Allunga la mano accanto al corpo e sente il lenzuolo ruvido e già fresco: Aldo non c’è. Deve essere mattino inoltrato, a giudicare dal colore del cielo nello spicchio tra gli scuri socchiusi. Ricostruisce le ultime ore: ha già fatto colazione, quel giorno, poi è tornata a letto a causa della febbre.

Si alza con fatica, sorreggendosi al comodino. Mette un piede accanto all’altro, appoggiandosi alla cassettiera, poi all’armadio di legno massello. Quando arriva alla finestra e la spalanca deve stringere gli occhi per abituarli alla luce. Il ciliegio vibrante di verde se ne sta lì impettito da tempo immemore: la vista dei suoi rami nodosi la rassicura.

«Hai dormito bene tesoro?» domanda Aldo, sulla porta.

«Ho dormito, sì. Abbastanza.» Dina chiude la finestra con gesti lenti. «Ma con chi stavi parlando di là? C’è qualcuno?»

«Guarda un po’, c’è una sorpresa.»

Lena si affaccia con la giacca ancora addosso e la frangia sugli occhi, come la portava da bambina. «Mamma.» Si abbracciano. «Ti trovo bene.»

«Io vi lascio, allora, ragazze. Vado in cucina a preparare qualcosa da mettere sotto i denti.» Aldo si passa le mani sul grembiule. «Ho già acceso il forno.»

«Quanto tempo, tu. Su, fatti guardare.» Dina si stacca dalla figlia quel tanto che basta per fissarla negli occhi.

«Non è passato così tanto tempo, mamma. E comunque adesso mi fermo con te, sei contenta?»

«Certo. Certo, che sono contenta. Questa brutta influenza non se ne vuole andare. Guarda qui, è ora di pranzo e sono ancora in camicia da notte. Ma adesso sto meglio, sai. Mi sento che le forze stanno tornando. Almeno lo spero.»

«Bene, meglio così. Però sediamoci un momento, ti va?»

Prendono posto sul letto, una vicina all’altra e in modo che Dina possa appoggiare la schiena alla testiera. Dalla finestra aperta adesso entra una lama di luce gialla che illumina una porzione del palchetto lucido ai loro piedi. Ogni tanto un’ombra la attraversa: il cielo primaverile è pieno di uccelli.

Lena dice del lavoro di maestra, dei bambini, di come stiano migliorando velocemente nella scrittura in corsivo; le si sente nella voce l’orgoglio per quei progressi.

«Sai, l’altro giorno gli ho dato da fare un tema, dovevano raccontare una cosa che li appassiona. A un certo punto, appena dettato il titolo, uno alza la mano. Luciano, ti ho già parlato di lui. È quello tutto magrolino e timido, sembra più piccolo della sua età, ma quando prende confidenza inizia a parlare e non finisce più. Comunque mi dice: “Maestra, ma se siamo appassionati a una bambina possiamo parlare di lei nel tema?”. Non sapevo bene cosa rispondere, gli ho chiesto se gli piace davvero, questa bambina. “Sono innamorato”, mi ha detto, “e anche lei di me.” “Ah”, ho fatto io, “e come lo sai che è innamorata di te?” “Facile”, dice lui. “Quando all’asilo le mandavo i baci, lei faceva una faccia bella e non si spostava.”»

Lena ride poi si ferma, vedendo la madre pensierosa. «Mamma, mi ascolti?»

«Sì, sì. Ti ascolto.» Dina si scuote. «Senti, ti andrebbe di fare una cosa per me?»

Lena torna seria. «Dimmi. Certo.»

«Cerca nel comodino, sotto i libri. C’è un quaderno. Puoi prenderlo?»

Lena rovista tra le sue cose e trova un quaderno a quadretti, dall’aria vissuta. Lo sfoglia. Ci sono molte pagine scritte con una grafia minuscola e, da un certo punto in poi, soltanto schizzi a matita. Sono ritratte strade di città con grandi palazzi squadrati, e fontane, passaggi accennati di automobili. Il tratto è incerto ma sono dettagliati al punto che Lena immagina siano stati copiati da qualche fotografia o da una rivista illustrata.

«E questi disegni?»

«Non sono un granché, lo so.»

«No, invece, sono belli. È che non sapevo che ti piacesse disegnare.»

«Lo facevo quando ero molto giovane, tu non puoi ricordartene.» Dina tossisce rumorosamente portandosi un fazzoletto alla bocca. «Ma era per non annoiarmi, non che fossi brava. Poi ho smesso. La bottega mi ha preso sempre più tempo e non ci ho pensato più. Non credo nemmeno sia rimasto qualcosa, dei miei scarabocchi.»

«E adesso ti è tornata la voglia?»

«No. Non proprio. Ma mi viene più facile che scrivere. È questo.» Fissa come ipnotizzata la striscia di sole accanto alle ciabatte lasciate in ordine. «Ci provo, a scrivere, ma sbaglio le parole. Non so come dirlo, non puoi capire se non ti succede. E, se ti succede, non riesci a farlo capire, è lì la fregatura.»

«Mamma, non agitarti. Non serve.» Lena le aggiusta il cuscino dietro la schiena.

«Non mi agito. È che vorrei riuscire a spiegartelo perché devo chiederti una cosa.» Prende fiato, un lungo respiro. «Vorrei che mi aiutassi tu a scrivere i miei ricordi.»

«Fammi capire, dovrei prendere nota delle tue memorie?»

«Sì, proprio così. Una cosa del genere.» Dina guarda ostinatamente in direzione dei propri piedi, come se incrociare lo sguardo della figlia potesse sviarla dai suoi propositi. «Adesso mi sento bene, sai. Rivado indietro con la memoria, ai tempi della scuola, per esempio, e ritrovo tutte le cose al loro posto. Proprio dove devono stare. Per esempio la grande lavagna nera, posso persino ricordare il panno per cancellare il gesso. Posso percorrere certi giorni come fossero strade dalle carreggiate ampie, andarci avanti e indietro e persino fare inversione a U, e tornare al punto di partenza per cercare meglio. Per esempio, quella mattina che la maestra si è arrabbiata con noi e ha lanciato i quaderni contro la parete di fronte. I quaderni hanno fischiato sopra le nostre teste e ci siamo appiattiti sui banchi, con le mani sopra le orecchie. Perfino questo posso ricordare. È una cosa piccola, se ci pensi.»

«Non ho mai immaginato di lanciare i quaderni in classe.» Lena ride. «O forse sì, a esser sincera. Ma sono riuscita a trattenermi.»

«Sì, ma non è questo il punto. Il punto è che altri giorni cerco negli stessi posti – la scuola, mia madre, il giorno del mio matrimonio – e non c’è più niente. Niente, capisci? Solo puntini, una sabbia. Residui, sensazioni. Ma nient’altro. Riesci a capire cosa provo?»

Lena immagina il vento d’autunno che soffia lungo i viali, e la polvere che si alza ai margini delle strade. «Forse.» Abbassa il capo. «Credo di capirlo.»

«Ecco, quello che vorrei è che tu scrivessi per me i ricordi che sono rimasti, le cose che ci sono ancora qui dentro.» Si sfrega la fronte con un dito. «Vorrei che quello che resta non andasse perso.»

Lena guarda la madre. Sembra essersi stancata in un momento. Segni scuri sono comparsi sotto gli occhi – o almeno non li aveva notati prima.

«Sì, d’accordo. Se pensi che possa farti bene.»

Dina comincia a tossire e Lena l’aiuta a mettersi con la schiena dritta e a prendere fiato. Quando l’accesso si calma, si riappoggia alla testiera. «Cosa dovrei fare, Lena? Stare qui a vedere tutto che va via?»

«Pensa che a me invece alle volte quasi piacerebbe, non ricordare le cose.» Si risiede accanto alla madre. «Certe cose, soprattutto.»

«Lo dici perché non sta succedendo a te.» Indica qualcosa attraverso la finestra. «Guarda il ciliegio, là fuori. Qualche giorno fa mi sono voltata e ho detto: “Che ci fa lì?”. Non lo avevo mai visto, in quel punto. “Come può essere cresciuto questa notte?”» Tace un momento. «Capisci cosa intendo?»

Lena ripensa a quell’albero, quando era bambina. Le due altalene, quella normale e quella con una sola corda nel centro dell’asse, per le acrobazie. E ricorda la madre che passava a controllare che il ramo tenesse. Arrivava con la sua faccia accigliata – le labbra due righe dritte e serrate – il grembiule legato in vita e i capelli raccolti in una treccia, come li portava in quegli anni. Girava una mano intorno al tronco, provava l’elasticità del ramo, che per quanto ricordi era piuttosto robusto. Come se da un giorno all’altro potesse stancarsi di reggere le altalene e rompersi. Adesso che ci pensa, quello era il modo di sua madre di dire, senza dirlo: “Mi sto prendendo cura di te”.

«Mamma, facciamo come dici tu. Ti aiuto.»

Mentre lo dice si sente un rumore di stoviglie che viene dalla cucina.

«Venite a mangiare? Ho fatto qualcosa di buono.» Aldo le chiama sventolando le presine da forno.

Si siedono intorno al tavolo apparecchiato con cura, la tovaglia bianca con gli uccelli ricamati sugli angoli, il servizio blu e in centro il vaso con i fiori di tarassaco.

«Belli.» Dina tocca i petali con le dita.

«Ti piacciono vero?» Aldo taglia una fetta di pane, gliela allunga.

«Sì. Mi piacciono. Mi piace che si chiudano di notte. Dormono anche loro.»

Nella stanza c’è un profumo di fresco, di detersivo. Si mischia all’odore delle lasagne che Aldo distribuisce nei piatti.

«Che buone», commenta Lena. «Sei sempre più bravo. Vero, mamma? Non sembra anche a te che papà sia diventato un ottimo cuoco?»

«È vero, sì.» Dina divide nel piatto gli strati di pasta dal ragù, ci gioca con la forchetta. «Ma non ho tanta fame.»

«Sforzati, un po’.» Aldo si pulisce la bocca con il tovagliolo e sorride in direzione di Lena. «Non mangia molto in questi giorni.» Si volta verso la moglie. «Ma devi sforzarti, almeno un po’.»

«Lo faccio», dice Dina continuando a guardare nel piatto. «Lo faccio già.» Beve un sorso d’acqua. «Lena, te la ricordi quella storia?»

«Quale, mamma?»

«Quella della vecchina che, per bagnare la sua petunia, ogni volta che pioveva, si metteva sul balcone con la pianta tra le braccia, per innaffiarla.»

«Per dire il vero no, non la ricordo.»

«Ma sì, te la raccontavo sempre, quando eri piccola.»

«No, non mi viene in mente.» Lena resta con la forchetta a mezz’aria. «Però è un modo strano per passare il proprio tempo. Stare sul balcone con una pianta in braccio, intendo.»

«Tutti i modi sono strani, per passare il tempo.» Dina stira con una mano il tovagliolo steso sulle ginocchia.

«Che vuoi dire, tesoro?» Aldo si alza per tagliare altro pane.

«Niente. Solo quello che ho detto: ho vissuto tanti anni e ho trovato pochi modi sensati di passare il tempo. Tanto mica lo fermi, è questo il fatto. Quindi un modo vale l’altro.»

Dina guarda fuori dalla finestra, una tenda si gonfia leggermente e le foglie del noce ondeggiano. Segue un silenzio interrotto solo dal rumore del coltello sul pane.

Poi Lena e Aldo riprendono a parlare della scuola, delle vacanze, e dei tempi in cui Lena era bambina e di quella volta che in estate sono andati al mare in Abruzzo e durante il viaggio, in una sosta all’autogrill, gli hanno aperto l’auto e rubato una valigia.

Dina li interrompe, chiede di potersi stendere sul divano. «Intanto vi ascolto», li rassicura. «Riposo appena un po’ gli occhi.»

Lena le aggiusta il plaid sulle gambe. «Sei di nuovo calda.» Dopo un attimo il suo respiro si fa regolare.

«Dici che sta già dormendo?» Lena assaggia la macedonia di fragole.

«Credo di sì. In questi giorni è così stanca, questa influenza sembrava andata, e invece. È confusa.» Aldo le passa lo zucchero, guarda la donna sul divano. «Chissà cosa sogna.»

In piedi sul balcone Lena stira le braccia e la schiena, respira a fondo.

Pensa alle valigie da scaricare, alla quantità di vestiti e libri compressi là dentro, alla fatica fatta nei giorni precedenti per capire cosa prendere e cosa no, come se le cose lasciate non restassero lì, immobili, ad attenderla nel suo appartamento.

Lungo il fianco della casa l’erba sta ricrescendo dopo che l’inverno le aveva tolto lucentezza, facendola sembrare bruciata. Pensa al bosco che inizia dove finisce il prato, le sembra di sentirne l’odore muschioso, il fremito delle foglie, un vibrare segreto. Guarda il cortile sotto il balcone, dove tutto è fermo, a parte il gatto della vicina che si struscia insistentemente contro la rete metallica verde.

Quando era bambina, in estate, quello stesso cortile era sempre pieno di gente. La sera gli adulti lo arredavano di tavoli e sedie e ognuno portava qualcosa da mangiare. Una forma di formaggio, una luganega rosolata in padella, qualche fetta di polenta abbrustolita, un bottiglione di vino rosso. C’era sempre qualcuno che poi tirava fuori musica da una chitarra e si cantava fino a che il cielo si riempiva di stelle, fitte che pareva tutta una ragnatela bianca sopra le loro teste. Tutto si riempiva delle grida dei ragazzini che si rincorrevano su e giù per i prati e delle canzoni stonate dei vecchi e delle risate delle donne, dell’acciottolio dei piatti e dei bicchieri che battono i brindisi. Le sembra quasi, mettendosi in ascolto, di risentire gli echi di quelle voci.

Invece, solo la voce monotona della fontana in sottofondo è rimasta la stessa.

«Hai freddo?» Aldo esce con un golfino e lo mette sulle spalle di Lena. «Hai visto che scuro, là, sopra la bocca? Può essere che prima di sera viene a piovere.» Indica con un cenno del mento le nuvole sopra la diga, dall’altra parte della valle.

Lena guarda suo padre. È un uomo alto e ancora robusto, la pelle abbronzata. Indossa una camicia a quadri e un paio di vecchi jeans lisi in alcuni punti.

«Sarà meglio che scarichi la macchina, allora.»

«L’ho già fatto io, ho messo tutto nella tua stanza. Ne hai presa, eh, di roba.»

«Papà, ma perché? Vengo per aiutarti e ti creo altro lavoro.»

«Lascia stare.» Aldo si passa le dita tra i capelli bianchi sulla tempia. «Non sono ancora proprio un vecchio inutile. Senti, a proposito. Non sei obbligata a restare, Lena. Davvero.»

«Sono io che voglio restare. Da qui per arrivare a scuola ci metto poco più di un’ora, non è mica la fine del mondo.»

«Sì, sì, lo capisco questo. Quello che intendo è che mamma e io ce la caviamo.» Si schiarisce la voce. «Magari avevi, non so, qualche amico che…»

«Se ti riferisci a quel mio collega, no, non ci vediamo più.» Lena si sforza di sorridere e infila il golfino che aveva sulle spalle.

«Mi dispiace.» Aldo passa una mano aperta sul mento. «Si vede che non era quello giusto, a ogni modo.»

«Già», annuisce. «Non era quello giusto.»

Restano zitti per un po’. Si sente in lontananza il verso di una poiana.

«Senti, papà, ma è vera la storia degli orsi?»

«Be’, per essere vera è vera. Pare che ne abbiano avvistati diversi. L’ultimo è stato la settimana scorsa nella val di Ronchi. L’ho letto sull’“Adige”. Ma ne hanno visti più vicini a qui, nei mesi scorsi, prima del letargo.»

«Ma dici che c’è da avere paura ad andare per boschi?» La luce che filtra attraverso le nuvole basse le fa socchiudere gli occhi.

«Ma no, dico di no. Cioè, io ci vado.» Aldo appoggia le mani alla ringhiera e guarda in direzione del bosco. «Ci ho passato tutta la vita, là in mezzo. Che faccio adesso, se non ci vado più?»

Sospira, ripercorrendo in un soffio – come in un soffio sono passati gli anni – tutta una vita da taglialegna: quel salire e scendere da ripe scoscese per filare ceppi che a valle si schiantavano con un tonfo secco; quel trascinarsi carichi come muli, lui da solo o con altri uomini, robusti e sudati anche nella neve, e forti come bestie da soma.

«E se lo incontri? Se incontri l’orso, voglio dire.»

«Eh, se lo incontro. Se lo incontro ci penso.» Ride. «Se lo incontro spero che abbia più paura lui di me.»

Lena rabbrividisce per una folata di aria più fredda e insieme rientrano a scaldarsi al tepore della stufa. La moka è pronta per essere accesa sul fornello a gas e Dina sta ancora dormendo sul divano.

Aldo le si avvicina e la copre fin sotto il mento.

È pomeriggio inoltrato quando arriva il medico a controllare le condizioni di Dina. È un uomo alto e grigio di capelli e barba, tanto serio da sembrare scorbutico, o perennemente infastidito da qualcosa.

«Finalmente comincia ad andar meglio», dice dopo aver lasciato la stanza da letto e allungato a Lena il foglio con la nuova ricetta. «Anche le vie respiratorie sono quasi completamente sgombre.»

«Una buona notizia.»

«Sì, una buona notizia. Quest’anno gira un’influenza mica da ridere, soprattutto per gli anziani. Ci sono situazioni brutte.»

Chiude la valigetta con un rumore metallico, guarda l’orologio appeso alla parete. Lena gli offre un caffè, ma quello scuote il capo: «No, grazie, sono di corsa».

Forse sta già pensando a quanti lo aspettano distesi in qualche letto o nelle stanze scaldate da fuochi che sbuffano dentro le stufe, infreddoliti sotto strati di lana, nel buio di camere in penombra per esorcizzare un’emicrania. In più il tempo si sta mettendo al brutto: guaiscono tuoni in lontananza e il vento sbatacchia contro un cielo plumbeo le prime gemme sui rami.

«Torno tra una settimana e penso che allora potremo terminare la cura», dice mentre indossa il soprabito scuro. «Per adesso mi raccomando, ancora riposo.»

«Riposo, d’accordo.» Lena, in piedi accanto a lui, si sente vagamente a disagio. «Quello che vorrei sapere è cosa dobbiamo aspettarci. A parte l’influenza, intendo.»

Il dottore sospira allargando le braccia. «Chi può dirlo. Ne abbiamo già parlato. Non si può prevedere con quale velocità perderà i pezzi.»

Lena annuisce e pensa che perdere i pezzi non è un granché per essere l’espressione di un medico, anche se si conoscono da una vita e può permettersi di non andare tanto per il sottile. Le viene in mente una vecchia bicicletta di suo padre, così decrepita da aver lasciato per strada la catena un numero imprecisato di volte, prima di essere rottamata.

«Comunque potrebbe restare così per un tempo indefinitamente lungo», aggiunge lui, infilando il corridoio. «Senza peggiorare, intendo.»

Quella sera Lena è a letto e sta per addormentarsi, quando le sembra di sentire la voce della madre chiamarla dalla cucina. Corre di sotto e la trova in piedi vicino al lavandino. Si sta riempiendo un bicchiere di acqua. Attraverso la porta socchiusa della stanza, Lena intravede alla luce dell’abat-jour il corpo di Aldo, il braccio a penzoloni abbandonato sul fianco, l’alzarsi e abbassarsi ritmico del torace nel sonno.

«Mi hai chiamata?» chiede.

Dina scuote il capo, continuando a bere. «Avevo sete», dice dopo essersi asciugata la bocca con il dorso della mano. Poi si avvicina alla figlia e la bacia sulla fronte. «Vai a letto, su, che domani c’è scuola.»

«Ok», risponde Lena. «Va bene.»

Le sembra che in sua madre ci sia qualcosa di strano, movenze più impacciate, vagamente sonnambule. La guarda muoversi lenta nella camicia da notte di flanella, spettinata e con gli occhi gonfi di sonno, le mani protese leggermente in avanti, come se camminasse alla cieca.

«Buonanotte, allora.»

Lena si sta chiudendo la porta alle spalle quando sente Dina dire, pianissimo: «Ricordati di preparare la cartella, mi raccomando».

“Ecco cosa sarà d’ora in poi”, pensa salendo le scale. Sarà restare a guardare sua madre che prova a fermare un passato che svapora. Guardarla mentre a mani nude cerca di agguantare granelli di sabbia che vorticano durante una tempesta. Ricorda che aveva un libro, da bambina, c’era un omino che diventava invisibile un poco per volta. Prima spariva un orecchio, poi un dito, un piede. Immagina che debba sentirsi a quel modo, sua madre: trovare un vuoto dove prima c’era qualcosa. Questo è perdere i pezzi. Come uno di quei sontuosi mosaici bizantini che perdono le tessere e lasciano buchi di malta senza colore. Tutto qui quello che siamo? Un insieme precario di tasselli che il tempo si smangia e sfilaccia come preghiere tibetane appese ai fili.

C’è anche questo, allora, il non sapere cosa verrà. Aspettare che domani, o un altro giorno qualunque, sua madre si svegli e le chieda: “Chi sei?”. Che cosa potrebbe risponderle, allora. “Sono la figlia tornata a farti da madre.” Forse dovrà prenderle la mano nella sua, forse quella potrebbe riconoscerla.

È un pensiero che le spezza il fiato. Eppure non è successo niente che non sia nell’ordine naturale delle cose: nascere, crescere, invecchiare.

È così dunque: è tutto qui.