3.
CERCANO TRACCE DELL’ORSO

È una giornata di cielo grigio sopra i tetti e dai camini esce il fumo sottile delle stufe accese. Le finestre sono illuminate dietro le tende e nell’aria c’è odore di legna bruciata e delle prime fioriture.

La strada taglia il paese in due come una mela, le case la seguono ordinate. Bastano pochi minuti a piedi per arrivare all’altro capo dell’abitato e l’unico esercizio commerciale si trova precisamente nel mezzo, metro più metro meno. Dina cammina lentamente, sorreggendosi al braccio della figlia, che tiene nell’altra mano la borsa di tela per la spesa. Ogni tanto si ferma a riposare le gambe e prendere fiato. Allora si appoggia al bastone che Aldo le ha intagliato nel legno – ha sempre rifiutato di acquistarne uno in un negozio di articoli ortopedici, sono troppo da vecchi malati, diceva.

Il negozio di alimentari è uno stanzone assiepato di scaffali da cui strabordano oggetti di varia natura: alimentari, prodotti per la pulizia della casa e l’igiene personale, un banco frigo alla cui vetrina vengono affissi gli avvisi riguardanti le attività del comune e alcune iniziative culturali, e, durante l’estate, le previsioni meteo scaricate da internet a beneficio dei pochi turisti. C’è una mensola su cui sono disposti alcuni libri di un bravo scrittore locale, Il signor Broz e L’ombra della montagna di Mario Martinelli, mentre anche per i giornali bisogna aspettare la bella stagione e i visitatori.

«Queste sono molto saporite, quante ve ne metto?» La commessa sta riempiendo di mele un sacchetto di carta. Ha il camice sempre immacolato e i capelli, neri come inchiostro di seppia, raccolti in una coda bassa. «Questa mattina ne hanno prese un paio anche i due della Forestale che son passati a chiedere informazioni.»

«Ah, li ho visti quelli della Forestale», interviene Anna, mentre aspetta il suo turno per chiedere il pane. Ha le ciabatte ai piedi e un paio di occhiali, spessi che sembra di vederle gli occhi attraverso un binocolo rovesciato. «Chissà cosa son venuti a fare, è dall’alluvione dello scorso autunno che non li incontravo da queste parti.»

«Non sono sicura, eh.» La commessa la guarda in tono confidenziale, mentre mette il sacchetto sulla bilancia e preme qualche tasto. «Ma da quello che ho capito cercano tracce dell’orso. Il Guerrino dice che ha visto le impronte proprio dove si apre il sentiero delle Giare Larghe, hai capito dove?»

«Sì, sì. So ben dove sono le Giare Larghe.» Anna fa un cenno con la mano per indicare la direzione. «Speriamo guardino bene, che comincio ad avere paura quando Mario va per funghi.» Controlla un foglio di carta su cui ha annotato la lista delle cose da prendere. «Mi dai i soliti tre bocconcini e un sedano per favore? Non troppo grosso, però.»

Per tutto il tragitto di ritorno, Dina si lamenta dei prezzi troppo alti e del fatto che spesso manchino prodotti che non dovrebbero mancare, come la farina integrale o i cereali per la colazione; non come quando a gestire la bottega del paese era lei, allora quelle cose non succedevano.

Mentre le due donne rientrano in casa, cominciano a cadere le prime gocce. Lena sistema la madre sulla poltrona vicino alla stufa, e in modo che possa guardare fuori.

«Mi è sempre piaciuta la pioggia.»

«Lo so.» Lena infila un ciocco di legno e cerca di ravvivare il fuoco con il ferro ritorto. «Me lo ricordo. Quando ero piccola passavamo molto tempo a guardare i temporali.»

Dina non distoglie lo sguardo dalla finestra. «Quando cade così, sottile, la sola cosa che si può fare è mettersi qui e guardare. Lei se ne accorge, che la stai guardando, e cambia ritmo. Cresce, viene giù forte, poi di nuovo piano. È vanitosa, sai. Le piace che la stai a guardare. Poi senti il rumore… apri un po’ la finestra per favore. La senti, sulle foglie.» Dina alza in aria un dito. «È come un olio che frigge adesso. Senti?»

Lena socchiude il vetro in modo che non le arrivi l’aria addosso. «Vuoi dormire un po’? La camminata ti ha stancata.»

«No, non sono stanca. Invece ti andrebbe di fare quella cosa che ti ho chiesto?» Allunga le gambe davanti alla poltrona. «Scrivere per me, intendo.»

Lena sospira silenziosamente, scompare qualche istante nell’altra stanza poi le si siede vicina, con il quaderno e una biro in mano. Si rende conto che la cosa la mette a disagio, senza riuscire a spiegarsi in che modo.

Le due se ne stanno in silenzio per un po’, ascoltando il rumore dei tuoni in lontananza e quello vicino del fuoco che consuma ceppi nella stufa. L’aria è carica di elettricità.

Dina interrompe quel torpore: «Che tempo farà adesso a Losanna? Sarà grigio come qui?».

Lena la guarda di sbieco: «Losanna? Come faccio a saperlo, mamma».

«Ma non hai quella tua diavoleria di telefono, dove puoi vedere il tempo in tutto il mondo?»

Lena si alza perplessa e prende il telefono che ha lasciato sul tavolo. Dopo una breve ricerca in rete, dice: «Pioverà un po’ stasera, a quanto pare».

«Ah.» Dina fissa un punto davanti a sé. «Pioggia anche là, quindi.»

Un altro tuono, questa volta abbastanza vicino da far sobbalzare le due donne. Il cielo così scuro e spettrale somiglia a un enorme vortice palpitante.

Lena apre lo sportello della stufa e infila altri due pezzi di legno. Quando era piccola e aveva paura di qualcosa, la madre le diceva che niente di male sarebbe accaduto finché il fuoco fosse rimasto acceso.

«Ti ricordi il tuo primo giorno di scuola?» domanda Dina, senza voltarsi.

«Vuoi che prenda appunti su quello?»

«Perché devi essere acida, Lena?»

In effetti, Lena non si spiega le ragioni di quel moto di ostilità. Forse avrebbe voluto soltanto restare lì seduta, a godersi il temporale e sentirsi al sicuro vicino al fuoco. Ma non può essere solo quello.

«Mi imbarazza, mamma. Non sono la tua analista né una giornalista. Non so cosa devo metterci su questo quaderno.»

«Eppure ti è sempre piaciuto scrivere. Da quando eri bambina.»

«Vero. Era a te che non piaceva, il mio modo di scrivere.»

«Ma chi te lo ha detto? Non mi dire che ce l’hai ancora con quella poesia.»

«Be’, non è stata l’unica volta. Ti ricordi del racconto? E comunque sarebbe bastato.»

Dina si aggiusta una molletta tra i capelli grigi. «Sei tu che l’hai fatta tanto lunga.»

Lena si alza e comincia a piegare i panni buttati su una sedia, in attesa di essere stirati. «Mi hai detto che era bruttina. Hai usato proprio questa parola: bruttina

«Be’, lo era, santiddio!»

«Mamma, avevo dodici anni. Volevo solo partecipare a quel concorso, che male c’era?»

«Solo perché quella tua insegnante non faceva che dire che avresti fatto la scrittrice… avresti finito per crederci.»

«E sarebbe stato così tremendo?»

Dina si volta a guardare la figlia. «Certo, certo che sì. Se hai un lavoro dignitoso lo devi al fatto di non esserti montata troppo la testa, cara ragazza.»

Lena sospira. «Un lavoro dignitoso.»

«Un lavoro che ami, tra il resto.» La voce di Dina si addolcisce un poco. «Non sono in molti ad avere questa fortuna, sai.»

Era vero. L’unica cosa che Lena sentiva di amare della propria vita era quel lavoro. Forse sua madre non aveva tutti i torti, ma adesso era troppo arrabbiata per ammetterlo.

«Ehi, cosa fanno le mie ragazze?» Aldo si affaccia in cucina dopo essersi sfilato il soprabito umido e averlo messo ad asciugare su una sedia accanto al termosifone nell’ingresso.

Dovesse campare cento anni, Lena di suo padre ricorderà i rientri la sera dal lavoro: le scarpe strofinate davanti alla porta, per ripulirle dalla terra, e un mazzolino di fiori in mano. Che poi in autunno erano funghi e foglie colorate e in inverno rami secchi su cui appendere le decorazioni di Natale. O piccoli tesori sottratti al sottobosco: sassi e radici ritorte.

Aldo si sfila le scarpe bagnate, mentre racconta che Anselmo sta un po’ meglio della settimana scorsa. «Se non altro è fuori dal letto», commenta, e infila le pantofole. Mentre accompagna la moglie a riposare nella sua stanza, Dina domanda alla figlia se la mattina dopo possa accompagnarla a messa.

«Da quando vai a messa? Non credevo… Comunque sì, certo. Ci andiamo.»

Lena ripensa all’allergia della madre ai precetti liturgici. Da giovane frequentava la chiesa per non dare argomento di discussione alle malelingue del paese, ma poi, appena aveva potuto usare il precario stato di salute come alibi più o meno forzato, aveva smesso di partecipare alle funzioni, fatta eccezione per quelle solenni come la pasqua o i funerali.

«Ogni tanto, ultimamente, ha preso ad andarci, a messa», dice Aldo rientrando in cucina, come le avesse letto i pensieri. «Chi lo sa perché.» Si siede al tavolo accanto alla figlia. «Tu che ne pensi?»

Lena non avrebbe mai finito di stupirsi per come il padre cercasse in continuazione di interpretare ogni gesto e pensiero della donna che aveva sposato tanti anni prima. Forse è vero che tenere una parte di sé privata, non darsi completamente all’altro, aiuta l’amore a restare vivo. Forse era lì che lei aveva sbagliato, non aveva saputo indurre l’amante a chiedersi, di tanto in tanto: “Chissà a cosa sta pensando?”.

«Non saprei.» Cerca attentamente le parole, non sa se dire o non dire. «Pensi che lei senta di dover morire? Presto, intendo».

«No, non la farei così nera», dice Aldo, ma dalla faccia si vede che un pensiero del genere deve aver attraversato anche lui. «Alle volte la fede aiuta, sai.» Volge gli occhi verso la finestra, contro i riverberi del sole sul vetro. «Aiuta eccome. Nessuno lo sa meglio di me. Sai cosa penso? Che alla fin fine poco importa, se Dio esiste o non esiste. Se tu lo trovi, in qualche modo, presto o tardi, la vita te la cambia. È comunque un miracolo, no?»

Poi, come scuotendosi da un ragionamento troppo complesso. «Piuttosto, come ti sembra la mamma?»

Lena si è messa a sciacquare alcune tazze nel lavello. «Mah, mi sembra meglio di quando sono arrivata qui. Mi sembra più lucida, almeno per la maggior parte del tempo. Poi però ogni tanto se ne esce con delle cose che non capisco. È gelida quest’acqua, accidenti!» Si asciuga le mani nello strofinaccio. «Prima, mi ha chiesto una cosa strana, voleva sapere che tempo fa a Lisbona. No, a Losanna. Chissà che le salta in mente. Il tempo a Losanna.»

Aldo si alza, con lentezza, e si versa in una tazzina del caffè freddo dalla moka.

«Te lo scaldo?» chiede Lena.

Lui fa segno di no con la testa.

«Che c’è? Ti sei rabbuiato.»

«No, ma va’.» Beve in un sorso, appoggia la tazza nel lavello. «Mi son dimenticato di chiedere ad Anselmo se gli interessa qualche semente di pomodoro, che ne ho d’avanzo quest’anno.»

Quando Lena resta sola, tira fuori i quaderni dalla tracolla e ne fa una pila ordinata sul tavolo. Prende la matita rossa e blu e comincia da quello in cima al mucchio.

Più tardi, nel pomeriggio, sbuca qualche raggio di sole attraverso le nuvole nere, a rendere il mondo lucido e più intenso, dopo la pioggia. Cupo, ma a suo modo più intenso.

Lena sta aspettando Agnese seduta sulla panchina accanto alla vecchia scuola, dove si danno appuntamento da sempre. Le torna alle mente l’estate di due anni prima. Stava correggendo delle schede di verifica, quando l’amica l’aveva cercata al telefono. Vediamoci, ti prego.

Mezz’ora dopo erano in un bar di piazza Rosmini, sedute a un tavolino all’aperto, davanti alla fontana circondata da vasi di fiori scarlatti. Era tardo pomeriggio, ma faceva ancora caldo, erano gli ultimi giorni di scuola. Agnese era arrivata con i capelli lunghi e lisci che le coprivano la faccia chiazzata di rosso. «Ordina tu per me», aveva detto a Lena, e poi aveva lasciato il caffè nella tazza.

Gianni quel giorno era stato chiamato per un’emergenza sul lavoro – fa il tecnico degli ascensori. Era corso via dimenticando il telefonino a casa. Non succedeva mai, ma quel giorno era successo. Lei non avrebbe dovuto guardare, non lo faceva mai. Ma quella volta l’aveva fatto.

«La chiama Zucchina», aveva detto Agnese. «Zucchina.» Poi non aveva detto più niente.

Lena ricorda che quel pomeriggio, al bar, guardandola non era riuscita a non pensare che fosse brutta, con quelle macchie sulla pelle, i denti ingialliti dal fumo, gli occhi segnati e le tracce tanto evidenti di quella disfatta. E le due righe intorno alla bocca, a renderla drammaticamente triste. Non avrebbe voluto pensarlo, ma proprio non riusciva a non farlo, e per questo ancor più avrebbe voluto abbracciarla. E tenerla così, lasciare che le allagasse la spalla di pianto, quella sua spalla un’isola in mezzo a un’inondazione. Cos’altro avrebbe potuto fare? Solo stare lì, ferma, ad aspettare che il peggio passasse. Che passasse l’onda con le macerie della sua vita travolta. Ferma. Fino all’accendersi dei primi lampioni in quella sera molle e viola di inizio estate e alle mosse dei camerieri che tiravano su le sedie intorno ai tavolini.

C’erano già stati momenti di crisi, dell’una e dell’altra, nel corso di quella amicizia lunghissima. Ma prima, quando erano ragazze, ogni disperazione aveva in fondo in fondo un sapore agrodolce di avventura romantica; c’era musica da ascoltare e poeti da leggere, e la sera per uscire e incontrare, per uscire e ballare, magari bere, magari baciare, o piangere ancora ma con la promessa: domani. Domani qualcosa di bello può venire. Adesso, invece, la sola cosa da fare era offrire la spalla a quella donna squassata dai singhiozzi e brutta e improvvisamente vecchia, come lo era lei.

Questo poteva fare, aspettare ferma lì che venisse qualcuno a dire: «Scusate, dobbiamo chiudere», portando via il posacenere pieno di cicche.

Lena e Agnese camminano sulla stretta strada asfaltata che porta al bosco. Tra l’asfalto e la macchia c’è una galleria dove da bambina Lena giocava a urlare per risentirne l’eco. Da ragazzina ci andava di notte con gli amici e una torcia. Cantavano canzoni lì sotto, gli piaceva quel buio assoluto persino più scuro di quello di fuori e alcuni facevano scherzi, ti si avvicinavano alle spalle: «Buh!». Poi c’erano gli insulti, e le risate a sciogliere l’adrenalina.

Adesso è tappezzata di scritte fatte con le bombolette spray e una sbarra con un cartello impedisce il passaggio: pericolante. Per arrivare alla strada sterrata si segue una deviazione tra gli alberi e dopo pochi minuti di marcia si arriva a una panchina di legno, da cui si vede la valle di fronte. Agnese e Lena si fermano lì, un po’ affannate per la camminata leggermente in salita fatta di buon passo. C’è odore di terra bagnata e di muschio, l’odore che fanno le foglie dopo la pioggia.

Lena osserva come certi posti sembrino restare identici, nonostante il passare degli anni. Bisognerebbe fare come loro, si dice: starsene in disparte, difendere i propri confini.

«Era tanto, eh, che non venivamo qui.» Agnese con un fazzoletto di carta asciuga lo schienale, per potersi sedere, appoggiando i piedi sulla panca.

«Parecchio. È tanto anche che non facciamo due chiacchiere con calma, se è per questo. Adesso sarà più facile incontrarci qui che in città, comunque.»

«Vero. Sarà come ai vecchi tempi. Senti, è da un po’ che volevo chiederti di Cristiano. Ti sembra un po’ più sereno?»

Lena si lega i capelli con un elastico che tiene sempre al polso. «Sì, un po’ più sereno. Mi pare che anche con i compagni vada meglio. È meno rigido, si lascia andare qualche volta. Nell’intervallo la settimana scorsa scambiava figurine con Gigi, sai il ragazzino biondo che ha quella madre alta, sempre impettita. L’ho visto ridere, quando l’altro ha tirato fuori una certa carta, doveva esserci un mostro puzzolente, una roba del genere. Insomma, ridevano.»

«È già qualcosa.»

«È già qualcosa, sì.»

Una goccia scivola giù da una foglia e cade sulla palpebra di Lena, che si asciuga col dorso della mano. «È molto intelligente tuo figlio. Dovresti esserne orgogliosa.»

«Lo so. Ma questa intelligenza, questa sensibilità, non sempre sono un bene, sai. Quando suo padre se ne è andato, lui per un po’ non ha chiesto niente. Sembrava la cosa più naturale del mondo, che non si sedesse più a tavola con noi, che non ci fosse la sua tazza di latte il mattino, insieme alle nostre. Provavo a farlo parlare, ma niente. Alzava le spalle, come a dire pazienza. Anzi, come a dire mamma, ci vuole pazienza. Ma ha otto anni, santo Dio.»

Lena immagina Cristiano con quello zaino troppo pesante sulle spalle ossute, gli occhi grandi come cieli notturni e le ciglia lunghissime.

«E poi, nel sonno, si strappava i capelli. Qui, sulle tempie.» Agnese si tira i capelli corti. «E non vuole vederlo, suo padre, come se lo temesse. Forse è sempre stato così e io non me ne ero accorta. Come cazzo si fa a non capire chi è la persona che ti sta vicino… Eppure ti avevo raccontato di quella volta che abbiamo litigato e lui è sceso in giardino e ha spaccato una bottiglia di birra contro un paletto dello steccato.»

«Sì, me lo ricordo.»

«E c’era Cristiano alla finestra.» Si copre la faccia con le mani. «Avrei dovuto lasciarlo allora.»

«Agnese, a che serve adesso.»

«L’unica scelta di cui sono orgogliosa è averlo fatto inserire nella tua classe. Mi dà sicurezza sapere che ti occupi di lui.»

Lena le tocca una spalla. «Dagli tempo. So che è difficile, ma è l’unica cosa da fare.»

Agnese si china a terra e strappa un filo d’erba, se lo fa scorrere tra le dita. Annuisce. «Già. Senti, ma dimmi un po’, tu: come stai? Non deve essere facile tornare qui a badare a tua madre.»

«Non è così tremendo, tutto sommato.» Lena si aggiusta la felpa legata in vita, mentre tra le foglie poco distanti dalla panca si sente un frusciare; forse una lucertola, o un topo. «Voglio dire, non è quello il peggio.»

«Perché, quale sarebbe il peggio?»

“Come posso spiegare. Mi sento a fine corsa”, vorrebbe dire.

Vorrebbe dire: “Sai quando sulle giostre hai ancora una buona manciata di gettoni, un bel numero di giri – almeno, potrebbe essere così; ma sai che anche nella migliore delle ipotesi non succederà nulla più di quanto non sia successo fino a ora. Vedrai le stesse facce che ti guardano passare, lo stesso odore di zucchero filato, che non è male, questo no, lo stesso panorama, la stessa ripetizione di dettagli che a un certo punto piglia velocità e non li sai più distinguere. E anche quello che prima ti sembrava magia: adesso vedi il trucco.”

Dice: «Sai cosa mi manca, esattamente? Orizzonti. Cielo aperto». Fa un gesto con la mano verso l’alto, muovendola sopra la testa.

«Cielo aperto.» Agnese sorride. «Da quanto non provo quella sensazione. Ti ricordi? Quando andavamo all’università e mi davi ripetizioni di francese, te lo ricordi? Ci mettevamo a studiare nei prati, con quella vecchia coperta marrone, quella così ruvida che non ci potevi stare con i pantaloncini corti.»

Cerca le sigarette nella tasca della tuta, ne accende una. «Ogni due parole ti dicevo Je n’ai compris pas, Je n’ai compris rien... E come ridevamo dopo! Che ci importava del francese, e del resto. Ti sembra possibile adesso?»

Restano un po’ lì, a guardare i raggi del sole tra i rami.

«Eh. Eccome se mi ricordo. Vista da qui, pare un’altra vita.»

Forse lo era davvero. Forse ci sembra che la vita sia una, mentre sono frammenti incollati insieme, sono sogni che abbiamo fatto. Questo Lena lo pensa soltanto.

«Era tutto diverso», dice Agnese. «Anche questo paese, sempre più desolato. La gente se ne va, sono tutti vecchi, lo vedi? Altro che ritorno alla montagna, come si legge sui giornali.»

Spegne la sigaretta sotto la suola e senza parlare si alzano e prendono la strada del ritorno. «Avanti di questo passo in questa valle non resta nessuno. Hai visto quante case vuote, in vendita? Ma chi se le compra, qui. La gente vuole le comodità. Il cinema a due passi, il supermercato sotto casa e il take-away giapponese, il parrucchiere aperto a tutte le ore. Posso capirli, non dico di no; anche noi, del resto, stiamo più a Rovereto che in paese. Quando mi sono lasciata con Fausto ho pensato di tornare a stare definitivamente qui. Però poi come avrei fatto con Cristiano? Ma qui non resterà nessuno, questo è.»

Camminano verso il paese e intorno non c’è anima viva. La sera si allunga e il buio sembra addensarsi intorno ai loro corpi, mentre più in basso i lampioni si accendono tra le case. Camminano per un po’ in silenzio, senza nemmeno guardare dove mettono i piedi, per quanto sanno a memoria quella strada, millimetro per millimetro. Poi prendono a parlare di gente che conoscono, dei vicini di casa. Da tempo in paese si sa che la propensione di Anselmo per l’alcol sta diventando un problema. Ogni sera tira tardi nell’unico bar della zona, con la scusa del torneo di briscola. Consuma le carte a furia di maneggiarle e parla fino a notte fonda di coppe e di assi, a quel modo che hanno gli uomini di parlare per ore senza parlare di niente. Da qualche tempo poi lo si trova già allegro il mattino, quando nell’orto zappa con vigore, ma senza troppa precisione.

«Allora era una scusa l’influenza della settimana scorsa?»

«Magari c’era anche quello, chi lo sa. Ma Ines non si rassegna, non vuole che si dica che suo fratello è alcolista.» Agnese si china ad allacciare una scarpa. «Forse non si rassegna proprio al fatto che lo sia.»

«Accidenti, non deve essere facile. Poi mi sembrano così soli, ogni volta che li vedo. Non so perché. Non sono più soli di molti di noi.»

Un’auto con i fanali accesi gli passa vicino, le abbaglia per un momento.

«A proposito di persone sole. Sai chi sembra sia proprio arrivata alla fine? Amalia, te la ricordi? La zia di Corrado.»

Lena si blocca in mezzo alla strada. «Amalia?»

«Sì. Sai che da parecchio tempo è giù al ricovero. Sono anni, oramai. Marta ci è andata la settimana scorsa a trovare una cugina, è lei che me lo ha detto. Pare non ne abbia per molto.»

Lena per un momento vede le luci sfarfallare all’orizzonte. Da qualche parte, giù nella valle, un campanile rintocca le ore e se ne sente l’eco fin lì. Del tramonto resta un alone, una scia che si va assottigliando a ovest, mentre sopra le loro teste cominciano ad accendersi le prime stelle.

«Non volevo intristirti», dice Agnese voltandosi per guardarla nella pochissima luce rimasta. «Non è che ti fa ancora effetto sentire quel nome?»

«No, ma che dici. Figurati. Che effetto vuoi che mi faccia.» Lena infila le mani in tasca, guarda l’asfalto davanti ai suoi piedi. «È che adesso comincia proprio a far freddo.»