12.

Era un pomeriggio d’inverno e ce ne stavamo nella stalla di Amalia, Corrado e io, a guardar cadere la neve. Nei fine settimana, quando lui non lavorava nella fabbrica dei termosanitari a Rovereto e io non davo ripetizioni di italiano e latino, o di sera, dopo che lui era tornato in paese, avevamo tempo da spendere così, tempo per lasciarsi vivere. Ore lente che strisciavano via consumando buio e luce, lasciando tracce leggere, ore inconsapevoli di uno scivolare dentro una clessidra a una direzione sola.

Camminare, respirare gli odori di prato e foglie e della strada umida di pioggia, baciarci, bere birra, leggere, parlare indovinandosi nella penombra, stendere una coperta e dormirci abbracciati, fare il bagno al fiume tremando di freddo, scovare un posto per fare l’amore, litigare e fare pace, guardare la pioggia cadere o le costellazioni mutevoli nel deserto della notte, o le impronte lasciate dalla volpe sul sentiero che porta al bosco: era il nostro modo di lasciar fare ai giorni.

Quel pomeriggio cadevano fiocchi larghi e asciutti, vorticando in ampi mulinelli. Una luce stanca e ovattata sembrava salire verso il cielo dalla terra coperta di bianco, emanare dai rami carichi dei pini. Stavamo seduti vicino alla porta aperta e persino le mucche, immobili, sembravano stordite da quel silenzio straniante.

«È incredibile, la neve», ho detto, allungando un braccio per catturare un fiocco e guardarlo sciogliersi sulle dita.

«Di più. È sovrannaturale.» Corrado si è sistemato il berretto sulla fronte. «Se credessi in Dio, direi che è un suo modo di dirci qualcosa. Magari di ricordarci qualcosa che sapevamo e abbiamo dimenticato.»

Mi ha fatto ridere. «Cosa ci vuole dire, secondo te?» gli ho chiesto.

«Non lo so, certo non usa parole. Uno che può tutto non perde mica tempo con le parole.»

In quel momento un uccellino è planato poco distante dai nostri piedi e si è messo a becchettare intorno, in cerca di cibo. Corrado, lentamente, ha infilato la mano nella tasca del giaccone e ha tirato fuori un pezzo di pane. Ne ha strappato un boccone, lo ha sbriciolato e lo ha gettato poco distante dall’uccello che con un balzo di spavento si è allontanato per poi gettarsi a capofitto su quella manna.

Guardavo le impronte piccole nella neve, pensavo al coraggio che ci vuole per sopravvivere. «Che fame, deve avere. Guarda», ho detto, «ha il petto giallino.»

«È un codibugnolo», mi ha spiegato. «Non ce ne sono molti da queste parti.»

«È bello, così arruffato, e ha anche un bel nome», ho detto io.

«Sai che hai ragione?» Corrado ha strappato un altro boccone di pane, ha sillabato piano: «Co-di-bu-gno-lo».

Ho appoggiato la testa sulle sue gambe, continuando a guardare fuori. «Ti piacerebbe vivere sempre in mezzo alla neve, scommetto.»

«Eccome. Senti che silenzio. E la luce. Poi la neve sa fare questa cosa di mettere in ordine il mondo.» Ha disegnato con un legnetto sul battuto di cemento una sfera immaginaria. «Per questo vorrei vivere in un rifugio. Lassù, guarda.» Ha indicato le vette di fronte, i loro profili bianchi. «Dove arriva poca gente a cercare un fuoco acceso e qualcosa di caldo da infilare nello stomaco.»

«Cerchiamolo.» Sono scattata a sedere come una molla, è stato come se nella mia testa fosse comparso all’improvviso qualcosa che prima non c’era.

«Che cosa?» ha chiesto lui.

«Cerchiamone uno da prendere in gestione. Ci lavoriamo fino a quando non mettiamo via i soldi per comprarcelo.» Mi tremava la voce, per l’entusiasmo.

Lui subito si è opposto, ha cercato di farmi cambiare idea. Ha detto che quello era il suo, desiderio, che la vita che aveva in testa era una vita da lupi nella steppa.

«Tu devi studiare, laurearti», diceva scuotendo la testa, ma intanto lo vedevo dagli occhi che quell’idea stava cominciando a sedurlo, ad aprirsi un varco fra tutti i suoi dubbi.

«Lo trovo, un modo per studiare», gli ho detto, «poi scendo a dare gli esami. Un modo lo trovo.»

Mi ha accarezzato la faccia con una mano gelida, ci ho appoggiato sopra una guancia. «Sei proprio sicura?»

Ho fatto sì con la testa, con gli occhi, i capelli, le orecchie, le ciglia, le guance.

«Allora lo chiamiamo Il Codibugnolo», ha detto. Mi ha sistemato i capelli sulla fronte, poi mi ha chiesto: «Ti piace?».

La neve non smetteva e a me sembrava di aver trovato il nome a un figlio che non sapevamo d’aspettare. Mentre sognavo quello che sarebbe venuto, la vita era un fiume in piena, straripante di luce, bellezza e accogliente mistero. Una cosa così facile, da scoperchiare e guardarci dentro senza paura.